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Le perle di Marco Marcelli

Messaggio inviato da Marco Marcelli di Roma

 

"Volevo ringraziarti per le cose che scrivi. Anche se sono di Roma, le mie radici sono in Sicilia. Sono cresciuto con le avò che mi cantava mia nonna, in lingua. E mi ha insegnato ad amare la nostra meravigliosa terra. La sento "mia", anche se non ci sono nato. Ma ho avuta la fortuna di conoscerla, respirare so' sciatu, viverla. Nonna mi cuntava le storie dei Nebrodi dei primi anni del 900. Poi, l'hanno estirpata dalla sua terra. Ma è una storia lunga, spero di potertela cuntari. Un abbraccio, e ancora grazie per le meraviglie che posti. Mi fanno sentire meno lontano."

 

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Mini biografia

 

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Ecco "le perle" di Marco

 

 

Il vulcano + alto d'Europa, l'Etna
Il capoluogo + alto d'Italia, Enna
Il primo scrittore di gastronomia, Archestrato di Gela
Il primo stesore di una storia universale, Diodoro Siculo, l'Argira
Il primo Parlamento d'Europa
La prima donna urbanista, Rosa Ciotti, Villarosa
La prima ribellione degli schiavi, Euno da Castrogiovanni (Enna)
La prima setta segreta, i Vindicosi
La prima gara automobilistica, la Targa Florio
Il primo anatomo-patologo, Giovanni Filippo Ingrassìa da Ragalbuto, 1510/80
Il primo "comunismo"...Lipari, 580 a.C.
Il primo gelato...Francesco de' Cultelli da Aci Trezza, sec XVll...
Il primo sorbetto...Procopio de' Cultelli, nipote...il Café Procope a Parigi
La prima vittoria navale di Roma (Milazzo, Caio Duilio, 260 a.C.)
Il primo grande sbarco navale, 10/7/1943
Il più grande orologio meccanico del mondo (Campanile di Messina, Maison Ungerer di Strasburgo, 1933)
La prima diocesi normanna, Troina, 1082
La sede per eccellenza degli dei (Eolo, Vulcano, Persefone a Pergusa, Dioniso che pianse sull'Etna e creò la vite, Cefalù-Presidiana, dove Diana si riposava dalle caccie, Termini dove Eracle si lavò, Aci dei Ciclopi, Aci di Aci e Galatèa...)

 

Eccola, la nostra Sicilia

 

 

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La storia della mia famiglia 

                                                             di Marco Marcelli

 

Non è semplice, fare un Bignami della storia della propria famiglia, e delle proprie origini e radici. Non è semplice per un siciliano, poiché si rischia di omettere particolari fondamentali, né per un liceale classico. La sintesi non ci appartiene. A scuola, i prof ci vietavano il Bignami…dicevano che era deleterio. I riassunti, dovevamo farceli da soli, pesando le parole importanti, evidenziando i costrutti ed i concetti, e lasciando libertà interpretativa al lettore. L’arte del canovaccio, col senno di poi.

 

Ma andiamo ad incominciare…

 

Tutto comincia il 26 marzo del 1869, con un certificato di battesimo in “latinorum”, nel quale viene “baptezato et caertificato” il neonato Santi Ignazio Tindaro, figlio di Orazio, soprastante campiere del Barone, e di Rosa, femmina di casa. Santi, fu dichiarato “proprietà della Baronìa”. Usava così, all’epoca. Un uomo era proprietà. Ma Bisnonno Santi, era un uomo libero, un lupo di montagna. Le sue montagne, la parte delle Caronìe detta Nebrodi. 

Santi divenne, anni dopo, soprastante campiere del giovane Barone. Dicono che fosse un uomo alto, più della media. Pochi capelli, i baffetti, occhi di uno strano colore fra il verde e l’azzurro. Gli occhi del mare del Tindari d’inverno, gli “occhi nurmanni”, retaggio degli antichi avoli. La coppola in testa, vestito di nero, col gilet anche d’estate, la fida doppietta a mezza canna portata “a jabbu”. Con un veloce movimento del braccio, era in posizione di sparo. Caricata con cartucce con 11 palle di piombo del 10. La lupara. Nonno, era ‘ntisu “dui naschi”. Indossava gli stivali alti, di cuoio, lusso di pochi. Ma lui era l’uomo di fiducia del Barone, oltre che essere cresciuto insieme al Signurittu…erano simili. Diversi per censo, ma simili. Amici.

Dopo Orazio, Salvatore e Tindaro, la famiglia di Santi e di Ignazia, il 1° gennaio 1900, viene arricchita dalla nascita di Bianca Maria Tindara. Anche lei, la nica, aveva quello strammu colore d’occhi. Occhi nurmanni.

Nonna, stranamente per una femmina nella Sicilia dell’epoca, studiò. Fece la quinta elementare. Sapeva leggere e scrivere. Era “sdignusa”, ed era la pupilla del Signuri Baruni. Il giorno degli esami della sua licenza elementare, ‘u signuri Baruni la aspettava fuori della scuola di Patti, sul suo tiro a due. Aveva un regalo, per lei. Una scatola in carta di Varese, contenente dei pennini, un portapennini d’osso, una boccetta d’inchiostro viola. Ancora esiste, la scatola, anche se con gli acciacchi del tempo.

Nonna, già sapeva che sarebbe stata una delle ultime volte, che avrebbe rivista la sua terra. Era già pronto, per Bisnonno Santi, il decreto di confino di polizia. “Divieto di risiedere per anni 5 in terra di Sicilia, destinato a confino di sorveglianza in Provincia di Perugia, Mandamento di Poggio Mirteto”. L’esilio. Bisnonno, sapeva bene, che se fosse tornato sarebbe stato un morto camminante, e decise di non tornare più. Portò con sé tutta la famiglia. Arrivarono qui, nel posto da dove cunto, l’8 ottobre del 1911, dopo quasi un mese di viaggio. La nica, era stanca, bagaglio di sé, ma ancora sdignusa. Nel posto dove era giunta, a soli 50 km da Roma, era l’unica femmina che sapesse leggere e scrivere.

Bisnonno Santi, con l’aiuto del Signuri Baruni, comprò un pezzo di terra, ci costruì una casa. Si fece contadino. Certo, le montagne che lo circondavano non erano i suoi Nebrodi. I colori erano diversi. Non c’erano i verdi ed i gialli delle lumìe, né i marroni digradanti dei noccioleti. Nessun profumo di origano e gelsomino. La montagna verso il tramonto non era Lipari, ma solo il monte Soratte. Niente più azzurro del mare del Tindari, il più blu di tutti i mari, che d’inverno assumeva uno strano colore, fra il verde e l’azzurro.

Nonna si sposò, ebbe 6 figli. Tutti con gli occhi marroni.

Un cuntu di nonna, che ho poi trovato nell’archivio storico di questo comune, riguarda un episodio del 1936, anno dell’oro alla patria. Il podestà bussò alla sua porta…”Bianca, tu sei figlia della patria..il duce chiede il tuo oro per la patria…” Nonna, semplicemente, staccò la doppietta dal muro, e la puntò sul podestà “dicci al tuo duce che iò, sugnu figlia di gente onorata, non della tua patria…me’ nonnu Orazio, sparòi a Garibaldi…iò, sparo a tia, se non tacchìi…una palla è pi’ tia, l’autra pì to’ duci…”. Nonna è stata sepolta con la fede e gli orecchini di battìu, uniche cose d’oro che possedesse.

Un giorno d’estate del 1959, sono nato io, ultimo nipote di Nonna. Certo, figlio del boom, frutto di un “errore di calcolo”…ma nacqui. E da quel giorno, nacqui due volte. Gli occhi nurmanni avevano saltata una generazione, ma erano tornati. Dicono che io somigli in maniera impressionante ad un maestoso soprastante campiere….

A proposito…non dimentichiamolo, il vecchio soprastante. Bisnonno Santi aveva imparato a conoscere quei monti. Se ne era appropriato. Conosceva i sentieri, le sorgenti, i nascondigli. Aiutava i partigiani attestati, dal 1943, sul monte Tancia e sul colle dell’Arcucciola. Viveri, armi, rifornimenti, notizie…Il 7 aprile del ’44, venerdì santo, la battaglia del Tancia…i rastrellamenti. Un vecchio di 75 anni che, all’alba dell’8, dopo aver cercati i superstiti, rientra a casa per sentieri di montagna, mentre alle sue spalle sta avvenendo una strage…viene fermato. Viene fatto inginocchiare. Lo ammazzano con un colpo alla nuca, e fanno rotolare il corpo giù per il dirupo. Le sue ossa non saranno mai ritrovate. Sua moglie Ignazia, morì di crepacuore 8 giorni dopo. Bisnonno Santi non ha mai avuto diritto né ad una tomba, né ad una lapide da martire. Ma il vecchio lupo dei Nebrodi non è mai morto, nel ricordo mio e della sua nica. La prima volta, s’inginocchiò al prete che benediceva il suo matrimonio. La seconda, di fronte a ‘u Signuri Baruni, che l’investiva della carica di soprastante. Poi, la terza, dalla parte sbagliata di una canna di pistola.

Insomma, dopo la mia nascita, Nonna si arrogò i diritti. Diritto di crescermi. Diritto di trasmettermi. Diritto di insegnarmi. E mi crebbe con tutto l’amore che un bambino può sognare di avere. Mi trasmise la sicilianità, con le sue avò, con i suoi cunti, con la sua cucina. Mi insegnò tutto. Ad essere uomo, ad essere autocontrollato, ad essere sempre sorridente, ironico ed autoironico. A conoscere, ad essere curioso, ad essere malfidato e aperto, serio e giocoso...ad essere siciliano, insomma. E, cosa più rara, e più bella, mi insegnò a parlare il siciliano, e soprattutto a scriverlo. Fra noi, parlavamo in lingua. E nessuno, a Roma, capiva come mai un bambino nato a Roma parlasse un’altra lingua. O meglio, potesse essere trilingue. L’italiano, il dialetto romano, e la lingua Siciliana. Perché è una lingua, non un dialetto.

Per insegnarmi ad amare la Sicilia, Nonna mi insegnò il concetto di amore per le proprie radici. Comprò una guida di Roma del Touring Club, e mi guidò alla scoperta della mia città. Me la regalò, un giorno di maggio, facendomela ammirare dal muretto del giardino degli Aranci. “Nicu, ti dugnu ‘a ta’ città”.

Poi, per i miei 10 anni, un regalo. La guida di Sicilia del Touring. Aggiornamento del 1968 della prima edizione del 1919. Il mio libro sacro, più di Bibbia e Vangeli, canonici ed apocrifi. 791 pagine a memoria.

Insieme al libro, un orologio. Nonna mi insegnò anche il concetto di tempo. Di pazienza. “Per essere umani, a volte occorre una pazienza disumana”.

Le devo tutto, a cominciare dalla vita. E, per ricambiare l’amore che mi dava, non potevo far niente. Finché, un giorno….

Era la fine di Maggio del 1984. Nello stesso giorno, la donna che credevo sarebbe stata la compagna della mia vita mi lasciò. (per inciso, era siciliana, di Modica). La sera, la Roma perse la finale di Coppa Campioni. Successivamente, attribuii le lacrime di quel giorno ai rigori sbagliati da Conti e Graziani. Quella sera, feci una cosa che non facevo da tanto tempo. Dormii con Nonna, avevo bisogno delle sue avò, e del suo sciauru di sapone di Marsiglia. Fu quella notte, che sentii che era arrivato il momento.

Il momento di dimostrarle tutto il mio amore.

Certo, in Sicilia c’ero stato. Nel 78, il viaggio della maturità. Due mesi passati ad immergermi in quella terra sempre sognata. La gente, all’inizio non capiva quel “turcu”, forestiero…poi, cominciarono a capire, e nacquero, in quegli anni, amicizie che ancor oggi resistono ed esistono. Poi, tutte le estati, da allora. E non solo le estati. 

Un solo esempio, anche recente. Anastasia, ma’ figghiozza. Palermo, coda per visitare la Cappella Palatina. Una turista, sentendomi parlare, chiede “siete di Roma?”. La nica, sdignusa, si volta…”IO, sono di Palermo…e iddu, me’ patrozzu, SICILIANO, èni…” E’ stato il più bel complimento.

Così, quella notte del 1984, organizzai la più bella cosa che potessi mai immaginare. La fuitina con Nonna.

Di nascosto, comprai due biglietti d’aereo, misi via le sue cose…poi, il 24 giugno del 1984, San Giovanni (San Giovanni non fa inganni)…con la scusa di andare al mare a prendere un gelato, ce ne fuimmo per la Sicilia. Erano 73 anni che non vedeva la sua terra, e la vide volando come un angelo.

“Nunnitta, ‘rrapi l’ucchiuzzi, talè…” “No, nicu, mi scantu..””Nunnitta…talè…’a Sicilia…” E lei, apre quei suoi splendidi occhi nurmanni, e si bea…le Eolie, i Nebrodi, il mare blu, i colori, l’Etna….volle scendere per ultima, dall’aereo. Trattenne il respiro per tutto il corridoio, per poter avere i polmoni liberi, e risentire i so’ sciauri…origano e gelsomino, mare e lumìe, ricordi e rimpianti…

All’aeroporto, un amico ci aspettava. Turuzzu è sempre un grande amico…le dette il benvenuto con un vassoio di fichi d’india sbucciati, segno di rispetto. “Bentornata a casa, donna Bianca”. E nonna che piange, e sorride. Poi, trantuliòi ‘u tuppu….”muninni, picciotti, ajiu ‘a jiri a’u Tindari”…quel suo sorriso ammiccante, voltandosi a me che portavo le valigie, mi ha ripagato di tutto. C’ero riuscito. Era tornata a casa.

Certo, fu uno spettacolo, per i turisti, vedere una vecchia di 84 anni ed un ragazzo di 25 che si abbracciano come due innamorati, sul belvedere che affaccia a Marinello…ma è stata la più bella vacanza della mia vita.

Durante quel giro, che neanche Goethe avrebbe saputo descrivere, Nonna reincontrò, per caso, anche un suo compagno di scuola, Tanuzzu….neanche Sergio Leone, o altri grandi registi, saprebbero descrivere la scena. La Sicilia riarsa, la masseria…un vecchio con la coppola su una seggia…Nonna che mi urla “Nicu, ferma!”. Scende, si accosta…”Cu èni, vussìa?” e il vecchio…”Ma vussìa, cu èni?” “Iò, sugnu Bianca Maria Tindara C., ‘a figghia d’u suprastanti, don Santi…” E il vecchio ha un lampo….”Bianca….Bianca…” E scoppia a piangere, mentre si leva la coppola e cerca di baciarle la mano….Ma lei, non glielo permette. Lo abbraccia.

Un abbraccio che si erano dati di nascosto 73 anni prima, quando si erano detti addio. Ma adesso, eccoli lì, abbracciati, come quando avevano 11 anni, e facevano l’esame di licenza, a Patti.

Scene che solo la nostra terra può riservare, a pochi eletti. Mi sento fra quelli.

Nonna, è morta il 2 marzo del 1996. Mi hanno rubato il suo ultimo respiro, avvisandomi in ritardo. Le sue ultime parole sono state “unn’èni, u nicu?”

Ho passata con lei l’ultima notte. L’ho vestita, non l’avevo mai fatto prima, non avevo mai visto un morto prima, col suo vestito. Giallo, colore del sole, colore delle rose di Normandia. Nella sua bara, il fazzoletto con la terra di Sicilia che aveva raccolto quando era tornata a casa. Origano. Un limone. Il santino della Madonna del Tindari. Il 33 giri di Mario Del Monaco. Un tarì, per il traghetto delle anime (una moneta da 500 lire d’argento, era la sua). Il fazzoletto che aveva comprato al Tindari, durante la nostra fuitina. Poi, quelli delle mortizie hanno chiusa la bara, ed ho piante le mie ultime lacrime. 

Il 3, c’è stato il suo funerale, nella parrocchia di Ognissanti, a Roma. Poi, è partita. Il giorno dopo, a Patti, in Cattedrale, c’è stato il suo vero ultimo saluto. Oggi, riposa nella tomba che volle comprata quell’estate del 1984. Una tomba che affaccia sul mare del Tindari. Il suo, il nostro mare.

Una semplice balàta di marmo nero. Una semplice scritta. Nome, date, ‘nciuria.

Bianca Maria Tindara. 1/1/1900-2/3/1996. ‘a sdignusa.

Ogni settimana, sulla sua tomba, è posata una rosa gialla. Ciao, Nunnitta.

 

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Le mie Sicilie

 

Sono tante, tutte, le parti di Sicilia che ho visitate. Ognuna diversa dall’altra. Anche gli stessi posti, rivisti dopo tempo, apparivano “altri”…per cui, la Sicilia è pirandelliana…una, nessuna e centomila.  Di qui, il concetto di “SiciliE”. Viste da me, indi “mie“. Buona lettura.

Sono cresciuto con la Sicilia nel cuore…ma ho potuto vederla solo nel 1978. E’ stato un primo viaggio di “scoperta”. Andiamolo a cuntari.

Sabato 22 luglio 1978. Ore 8,30. Roma, via Giulia 38. Liceo Classico Publio Virgilio Marone. Orale di maturità. Bel regalo di compleanno, fatto dall’istituzione scolastica…Comunque, passato con successo.

La moto era pronta. Olio e gomme cambiati, pieno fatto, portapacchi fissato bene, raggi tirati…era solo da caricare con i bagagli. Una sacca da marina, di quelle cilindriche, per i vestiti (jeans, magliette, poche camicie). Una tenda canadese, marca Moretti, la mitica “Morettina”. Scomoda, stretta…ma per me, bastava. Un sacco a pelo, modello “mummia”, scomodissimo.  La guida dei campeggi. La carta stradale Michelin della Sicilia. La guida del Touring, la “mia” Bibbia. Una bacinella piccola, ed una scatola di “Sole panni”. Una latta d’olio motore. Set di pronto intervento meccanico. Avevo preventivato di rientrare dopo 40 giorni…ci sarebbe voluto un sidecar…

Anche senza sidecar, alle 6 di mattina del 23 luglio 1978, domenica, cominciò una lunga storia d’amore che dura ancora oggi. Stavo partendo per conoscere LEI. Con lo stesso spirito di chi va a conoscere una donna sposata per procura. Mi piacerà? Le piacerò? Andremo d’accordo?

Fare l’autostrada del sole, con una Ducati Scrambler 350 (arancione, regalo di Nonna per i 18 anni), è come fare 48 ore filate di lavoro col martello pneumatico…e ancora non era finita la Caserta-Salerno, toccava passare per Napoli…ma passai…dopo 676 chilometri, eccola, LEI. Appare dopo un tunnel, in una curva a sinistra… Mi fermo, devo guardarla. I profili dei monti, la cima dell’Etna…non vedo l’ora di arrivare.

Villa San Giovanni, traghetto…mi sembra di toccarla, mentre mi avvicino. La colonna della Madonna delle lettere…Messina, il porto…la Sicilia…sto per “toccarla”…è stata una sensazione unica. Come l’attimo prima di far l’amore per la prima volta con la donna che hai sempre amata.

Sceso a Messina, imbocco la strada di casa. La statale 113 “settentrionale sicula”. L’ho percorsa a 30 all’ora…ogni curva, una sosta, per bearmi dei panorami. Poi, finalmente, la mia prima tappa. Il Santuario del Tindari. Volevo, dovevo, guardare quel colore di mare che aveva condizionata la mia vita. Non so quanto tempo ci sono rimasto, a guardare…a pensare…a risentire cunti di ricordi…è stato meraviglioso.

La prima notte, l’ho passata in un albergo di Patti marina, “la playa”. Ero “cotto”.

Il mattino dopo, sono salito a Patti. La Cattedrale, la tomba della Gran Contessa…poi, la vecchia scuola, il tribunale, e su, in direzione San Piero…Villa Lina, casa di ‘u Signuri Baruni…e poi, la masseria, i bagli, la vecchia casa dei miei avoli…la terra che Nonna calpestava…noccioleti, faggi, querce, lumìe, fichi d’india, terre aride e terre rigogliose…un’esplosione di colori, di profumi…colori e sciauri esattamente identici ai cunti…

Il difficile, almeno per i primi giorni, è stato far comprendere cosa facesse, un “turcu” come me, in Sicilia. Però, le persone con cui parlavo, “capivano” subito, e pian piano scoprivo di trovarmi a “casa mia”. Sono nate, già da quell’estate meravigliosa, amicizie che ancora durano. Turuzzu, Sergio…poi, negli anni, altri…Salvuccio, Tanu, Nino, Mario, Santino, Nunziato…ma sono legatissimo, ai miei primi “fratitti” siciliani. Tutti i Nebrodi, tutti i paesi della costa e delle montagne. La salita all’Etna. Le isole. Taormina e Zafferana, Aci Trezza e Aci Castello, Ucrìa e Tortorici, Raccuja e San Piero, San Fratello e Mistretta, Naso e Capo d’Orlando, Gioiosa e Sinagra, Fossu Chiovu e ‘u Sambucu…le strade e le zone che un soprastante campiere, quasi 100 anni prima, percorreva…mangiare un fico d’india che uno sconosciuto ti sbuccia, in segno di rispetto…mangiare una lumìa acerba, che un viddanu ti autorizza a cogliere, scuotendo la testa (babbu, èni, u turcu…).Una granita a colazione. Con la brioscina, naturalmente. E posti splendidi, colori che nessun pittore saprebbe riportare. Ma colori, odori, sapori, sensazioni, che da bambino aspettavo di “vivere”.

Li ho vissuti. Ho conosciuta la mia “sposa per procura”. Ho tolto il velo, ho passato lo stretto. Sono arrivato nella MIA terra. E la mia terra mi ha riconosciuto, accolto, amato. Con lo stesso amore con cui LEI mi veniva cuntata. Ho amata la mia terra nel momento in cui ho alzato il velo. Ed era molto più bella di quella cuntata. Era viva, pulsante. Come non innamorarsi di lei?

Anni dopo, ho scoperto che Dio, dopo aver creato il mondo, si guardò intorno soddisfatto….e pensò di fare un “Bignami” di tutte le bellezze che aveva create…una specie di riassunto del mondo.

E così, prima di andare a riposarsi, creò la Sicilia.

E’ finito dopo “soli” 50 giorni, il mio primo “grand tour”. Mi sono sentito Goethe. Avevo alzato il velo della sposa già sposata. Era veramente bella. Me ne ero innamorato, perdutamente. Lasciando la mia terra, dal ferry, come tutti i siciliani che salutano la Madonna delle lettere, l’ho salutata anch’io. “Ciao, Marunnuzza…n’e viriemu presto…’na vasata”.

E da allora, all’inizio tutte le estati, poi ad ogni occasione…sono tornato a LEI. So che un giorno tornerò, per non andarmene più da LEI. L’ho sposata, nell’anima.

 

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 Le mie Sicilie 2

 

Mi ci è voluto un anno, e infinite chiacchiere con la mia adorata nunnitta, per “metabolizzare” la Sicilia. Certo, non solo con Nonna. C’era anche Floriana, siciliana di Modica, con cui parlarne. Lei, era quella che credevo sarebbe stata la donna della mia vita. Ma andiamo per ordine, è meglio.

Dopo la mia scoperta di LEI, era tempo di iscriversi all’università. Scelsi, per amore, di fare, anziché scienze politiche a Padova, architettura a Venezia. L’ho fatta, ma non con piena convinzione.

Ma, a luglio del 1979, la fida Ducati era di nuovo pronta. Si partiva alla scoperta della Sicilia barocca, con Floriana. La Morettina, doppia sacca bagagli…altro che sidecar, ci sarebbe voluto un rimorchio…ma partimmo. Facendo non l’autostrada, ma l’adriatica. Partimmo da casa sua, Verona. Per cui, Rimini, Termoli, il Gargano, Matera, la statale ionica, Reggio, traghetto…Sicilia. Statale 114, orientale sicula. Saltate Taormina e Aci….Catania. Bella città, ma “strana”. Ci avrei messo anni, per “capirla”. E ancora oggi, non l’ho capita, forse perché la frequento poco. Ma bella.

Poi, giù a Siracusa. Ortigia, il teatro, la storia…e poi ancora giù…Portopalo, capo Passero, le mosche…per poi voltare sulla meridionale sicula, verso Pozzallo, marina di Modica, Sampieri. La fornace (quella “spacciata” per tonnara nei film di Montalbano). Un mare splendido. Posti splendidi.

Modica con le sue chiese e col suo cioccolato. Ragusa, coi panorami indimenticabili. Cava d’Ispica, le necropoli. La preistoria di noi. Eravamo due siciliani innamorati di noi e della nostra terra. Da scoprire e riscoprire mano nella mano.

Il ristorantino sul mare a marina di Ragusa, dove si sceglieva il pesce da mangiare. Piazza Armerina, non solo la villa del Casale, ma la più buona granita di gelsi di tutta la Sicilia, al baretto vicino alla fontana della piazza del paese. Morgantina, Enna, i primi contrafforti delle Madonìe. Poi, un po’ di mare, a Sampieri. E poi, il rientro, vacanze finite. A me, aspettava non solo l’università, ma anche il servizio militare. Reggimento Lagunari Serenissima. A Venezia. “Casualmente”, avevo scelto quello.

Ma, a luglio 1980, avevo pochi giorni di licenza. Scendemmo in aereo, a Palermo. La capitale. Girata tutta, anche se ancor oggi mi piace girarla. Un solo bagno di mare a Mondello, avevamo poco tempo. Poi, io ripartii, e lei, Flo, andò dai suoi, a Sampieri. Ed io, a giocare alla guerra…

1981, liberi come l’aria…la Ducati ancora “resisteva”…avevamo 20 giorni, li impiegammo, dopo 3 passati al mare, per la riscoperta (per me, scoperta), del sud…Agrigento, Sciacca, Porto Empedocle, i templi, Selinunte, Segesta…e di lì, verso Mazara e Marsala.

E le saline, Mothya…lo stagnone, le isole, la passerella, i mulini a vento…

Lo spettacolo della natura di Erice.

La nave che da Palermo ci riporta in continente…felici…

1982….potevamo portare tutto con noi….eravamo in macchina, Nonna me l’aveva regalata per il Natale dell’81….una Rénault 4 TL verde ramarro. Bellissima.

E ce ne partimmo, la nostra terra ci aspettava…ricambiai la guida che Flo mi aveva fatta per la zona del ragusano, facendo la guida per la zona dei Nebrodi…si chiamerebbe interscambio…lei, non era mai stata al Tindari…ne rimase ammaliata. Giravamo, ammiravamo, parlavamo di noi e di sicilianità, di passato e di futuro. Di cunti e ricordi, di sogni e speranze.

Nell’83, stemmo quasi un mese a Sampieri, senza quasi girare. Sarebbe stata la nostra ultima estate insieme, e forse dentro di noi lo sentivamo. Mi lasciò alla fine di maggio dell’84.

Ma forse, ancora oggi la ringrazio. Il dolore della fine, creò un nuovo inizio.

Me ne fuìi con Nonna, l’estate dell’84. La più bella estate della mia vita.

 

 

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U sceccu

 

La zona dell’ovest della Sicilia fu la più “dominata” dagli arabi, dal Vll all’Xl secolo dopo Cristo.

Il controllo del territorio era affidato ai funzionari, gli “sharif” e gli “sheik”, sceriffi e sceicchi.

Naturalmente, anche loro avevano le “gerarchie”.

Gli “sheik” si muovevano a cavallo, mentre gli “sharif” a piedi.

Non era facile ribellarsi al loro dominio, e forse, potremmo anche dire che ce n’era poca voglia.

Però, non dobbiamo dimenticare un tratto caratteristico di noi siciliani, che già Cicerone aveva evidenziato. “Chiedete una cosa, un pensiero, un parere, ad un siciliano, e questo vi risponderà con una battuta di spirito”. L’ironia fa parte del nostro DNA.

Per cui, a Marsala (Mar’s’Allah, porto di allah) un bel giorno alcuni “buontemponi” o ribelli, a scelta, usarono l’ironia contro i dominatori.

Durante la notte, scomparvero tutti i cavalli degli sceicchi.

Per cui, gli sheik non potevano compiere il loro giro di controllo e di esazione delle varie gabelle. Non era costume che andassero a piedi. Così, ad uno di loro venne in mente di requisire i somarelli, o asinelli, o ciuchi, chiamateli come volete…

Gli sheik, così, si recarono a svolgere i loro compiti, a cavallo dei somarelli. Certo, facevano tutto un altro effetto che a cavallo, gli sceicchi, meravigliosamente vestiti…gli asini, hanno altri modi di procedere…caracollano, traballano…insomma, a cavallo del somaro lo sceicco faceva una figura goffa, ridicola…

E, mentre passava attraverso i centri abitati, veniva deriso, sbeffeggiato, sminuito…e con lui, tutto il potere che rappresentava. La gente gli gridava dietro “talè ‘u sceccu” (guardate lo sceicco).

 

Da allora, cavaliere e cavalcatura si confusero in una sola cosa…e l’asino, da cavalcatura dello sceicco, si “nobilitò” lui stesso in “sceccu”. Ancora oggi, l’asino si chiama sceccu, da noi. E’ nobile. Più di tanti altri animali a 4 e 2 zampe…  

 

 

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Il Barone pellegrino

 

 

 

Una volta, in un feudo della Sicilia, c’era un barone. Uno dei tanti baroni siciliani.

Il barone, in occasione di una grave malattia del suo unico figlio maschio, erede di tutti i possedimenti, fece voto alla Madonna del Tindari che, in caso di guarigione del ragazzo, si sarebbe recato in pellegrinaggio penitenziale in Terrasanta. A piedi. Come i signori di un tempo, accompagnato dal suo servitore Stefano, che era da anni al servizio della famiglia.

Durante la malattia del figlio, cominciò a studiare le carte del cammino da percorrere. Fare la via normanna ( che partiva da Palermo, faceva tutta la costa tirrenica, da Messina una barca per traghettare, poi risaliva le Calabrie dalla costa jonica, la piana del meta pontino, la Puglia fino a Brindisi, di lì nave fino a Pireo, la Grecia, Costantinopoli, barca che attraversava lo stretto dei Dardanelli, poi a piedi fino a Gerusalemme), oppure la via greca (nave da Siracusa a Costantinopoli, e di lì a piedi)?

Optò per la prima via….la malattia del ragazzo sembrava senza speranze.

Ma, con l’aiuto di Dio e delle medicine, il giovane cominciò a migliorare, fino a guarire del tutto. Certo, debole, ma era giovane e forte. Si stava riprendendo, e rimettendo in forze.

Così, al Barone toccò mantenere il voto fatto. Ma ci mise del suo. Nessuno aveva mai detto che sarebbe arrivato a Gerusalemme…e la SUA terre lui la considerava Santa. Per cui, decise di percorrere la stessa distanza che avrebbe percorso per arrivare in Terrasanta all’interno del grande giardino della sua tenuta. All’ombra degli alberi, senza brutti incontri o scomodità, con una pausa per un caffè o una limonata, a seconda delle necessità. Sempre seguito dal suo fido servitore Stefano.

E cominciò a camminare….

“Stefano…un caffè…” “Sì, signuri Baruni…”

“Stefano, una limonata…” “Sì, signuri Baruni…”

Naturalmente, mentre il buon Stefano preparava il caffè, o spremeva i limoni, il Barone continuava a camminare…ogni tanto, si informava sulla strada percorsa…

“Padre, avete fatti 172 giri, fanno 1958 miglia…siete a Costantinopoli…”

“Stefano…allora, la limonata?” “Eccola, signuri Baruni, scusasse…”

Il barone bevve la limonata fresca, e….

“Stefano…’muninni….iò sugnu a Costantinopoli, tu ancora a Locri….camìna…”

 

 

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Il principe “storto” di Bagheria

 

Non si può dire certo che fosse bello, Sua Altezza il Principe Francesco Ferdinando Gravina Cruyllas, V Principe di Palagonìa….anzi, diciamo francamente che era brutto.

“…di tal repellenti fattezze, sì come d’animo dolce, buono e di pronto intelletto…”

Insomma, era un brutto ma buono.

E trasmise tanto le fattezze, quanto la bontà d’animo, al nipote, Francesco Ferdinando ll. Le vite di nonno e nipote sono intrecciate, e si svolgono a Bagheria. In una villa, villa Palagonìa, o villa dei mostri.

C’è una premessa, da fare. Bagheria venne fondata, come “ritiro”, dal Barone Branciforti di Raccuja, il quale, vittima di una truffa sull’eredità, si trasferì, facendo costruire un borgo che riprendesse la pianta antica di Raccuja, paese sui Nebrodi a suo tempo fondato da Ruggero l d’Altavilla, il Gran Conte.

Bagheria è anche conosciuta, da pochi, come “piccola Raccuja”.

E Bagheria fu anche il “buen retiro” estivo del Principe di Palagonìa, che fece iniziare la costruzione della villa. Da notare che l’architetto Tommaso Maria Napoli si fece aiutare da Agatino Daidone, che era un frate…

Dato che, forse, da “principe storto” discende altro principe storto, suo nipote Francesco Ferdinando ll, detto “il negromante”, fece “arricchire” la villa di statue. Ma non statue normali…no…mostri. Uomini con teste di cavallo o di toro, donne-arpie, tutte le deformità possibili riportate sulle statue che adornano loggiati, balconi, nicchie…un campionario delle umane bestialità, lo defini Ghoethe.

Già, perché le statue della villa sono state studiate da poeti, artisti, medici, psichiatri, scienziati vari di varie scienze infuse…ognuno ha detta la sua…ma…

Ma…e se solo fosse il frutto di uno scherzo fatto da chi bello non era, e volle circondarsi di “éidolon” più brutti di lui, sì da apparire quasi “bello”, nel suo giardino?

I principi erano “grandi di Spagna”, ciambellani del Re, avevano ricoperte importanti cariche politiche e diplomatiche…insomma, non erano certo “babbi”…

Forse, le parole che campeggiano l’entrata del salone delle feste possono spiegare qualcosa:

“Specchiati in quei cristalli, e nell’istessa

Magnificenza singolar contempla

Di fralezza mortal l’immago espressa”.

Insomma…i buoni Principi, nonno e nipote…alla faccia di tutti quelli che hanno “voluto vedere” chissà cosa, dietro i decori, i mostri, le allegorie…sono stati autori di ’na gran sulenni pigghiata p’i fissa…

Un brindisi alle vostre risate, ‘gnuri Principi….baciamo le mani.

 

 

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