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Sicilianità

Da Wikipedia


Il termine sicilianità caratterizza - insieme a lu sicilianu, ovvero la lingua siciliana - quell'insieme dei caratteri attribuiti all'uomo di Sicilia, tipici cioè del siciliano, definiti anche sicilitudine, ovvero - citando Leonardo Sciascia

« La sostanza di quella nozione della Sicilia che è insieme luogo comune, idea corrente, e motivo di univoca e profonda ispirazione nella letteratura e nell'arte. »

Caratteristiche

Ma cos'è che contraddistingue coloro che sono nativi o abitano in Sicilia, rispetto anche ad altre popolazioni del meridione d'Italia? Se il regista Michael Cimino nel 1987 ha titolato The Sicilian (Il Siciliano) la storia del celebre bandito siciliano Salvatore Giuliano che nel 1943 attraversò con la sua avventurosa - e per molti versi mitizzata - parabola criminale la storia della Sicilia, sempre Sciascia - nel suo saggio L'ordine delle somiglianze - ricorda che Marco Tullio Cicerone definì i siciliani gente acuta e sospettosa, nata per le controversie:

(LA)
« Illi quidem, ut est hominum genus nimis acutum et suspicionum, non te ex Sicilia litteras in Verrem deportare velle arbitrantur [...] »

(IT)
« Certo quelli [i Siciliani], gente oltremodo acuta e sospettosa, non credono che tu voglia portare qua dalla Sicilia documenti contro Verre [...] »

(Marco Tullio Cicerone, In Quintum Caecilium divinatio, IX,28. Traduzione di Laura Fiocchi e Nino Marinone)

Sempre Cicerone scrive:

(LA)
« Numquam est tam male Siculis, qui aliquis facete et commode dicant »

(IT)
« Qualunque cosa possa accadere ai Siciliani, essi lo commenteranno con una battuta di spirito »

(Marco Tullio Cicerone,Verrine, Actio Secundae - Liber Quartus - De praetura siciliensi)

Il poeta e filosofo latino Lucrezio, all'interno del suo De rerum natura, esaltava la bellezza della Sicilia descrivendola come una terra straripante di ricchezze naturali e madre di personaggi illustri:

« Giusto è che questa terra, di tante bellezze superba, alle genti si addìti e molto si ammiri, opulenta d'invidiati beni e ricca di nobili spiriti. »

Giovanni Maria Cecchi, a sua volta, definisce i siciliani:

« Ardenti amici e pessimi inimici, subbietti ad odiarsi, invidiosi e di lingua velenosa, di intelletto secco, atti ad apprendere con facilità, e in ciascuna operazione usano astuzia. »

Andrea Camilleri nel romanzo Il ladro di merendine scrive:

« Montalbano si commosse. Quella era l'amicizia siciliana, la vera, che si basa sul non detto, sull'intuìto: uno a un amico non ha bisogno di domandare, è l'altro che autonomamente capisce e agisce di consequenza. »

Il chierico di origine francese Pierre de Blois, arcidiacono di Londra e uno dei più noti umanisti del XI secolo, in una lettera indirizzata all'arcivescovo di Messina l'inglese Richard Palmer affermava:


« La Sicilia [...] è sgradevole per la cattiveria dei suoi abitanti al punto che a me sembra odiosa e quasi inabitabile. [...] come pure le frequenti velenose calunnie, il cui immenso potere pone la nostra gente, per la sua disarmata semplicità, in costante pericolo. Chi, io mi chiedo può vivere in un luogo dove a parte ogni altra afflizione, le montagne stesse vomitano in continuazione fiamme infernali e fetido zolfo? Perché qui certamente, si trova l'ingresso dell'inferno ... dove gli uomini sono rapiti alla terra e scendono ancora vivi nelle regioni di Satana. A questo vorrei aggiungere che,com'è scritto nei libri di scienza, gli abitanti delle isole sono, per lo più, gente infida e quindi gli abitanti della Sicilia sono amici falsi e, in segreto spregiudicati traditori. Da te in Sicilia, carissimo Padre, non farò mai più ritorno. L'Inghilterra nutrirà teneramente me vecchio come fece con te bambino. Tu piuttosto dovresti lasciare questa terra montagnosa e mostruosa per far ritorno al dolce profumo della tua terra natia. Fuggi, padre, da quelle montagne che vomitano fiamme e guarda con diffidenza alla terra dell'Etna, affinché le regioni infernali non abbiano ad accoglierli alla tua morte. »

Fernand Braudel, storico e direttore degli Annales francesi ha definito la Sicilia continente in miniatura, microcosmo che accoglie in forme miniaturizzate, ma nette, l'eredità di una storia lunghissima e complessa, mentre Giuseppe Tomasi di Lampedusa nel romanzo Il Gattopardo sostiene che il siciliano è inalterabile e refrattario alla storia. La Sicilia - è il pensiero dello scrittore - è destinata a rimanere così com'è, senza che in essa si possano verificare cambiamenti. Il protagonista del Gattopardo, Il Principe Salina, esprime tutto il disincanto che aleggia nel romanzo in una sola frase:


« Tutto questo non dovrebbe poter durare; però durerà, sempre; il sempre umano, beninteso, un secolo, due secoli ...; e dopo sarà diverso, ma peggiore. Noi fummo i Gattopardi, i Leoni; quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti Gattopardi, sciacalli e pecore continueremo a crederci il sale della terra. »

Giovanni Falcone scrisse:

« È il segno di un'identità: per la Sicilia per la nostra storia. Noi abbiamo avuto cinquecento anni di feudalesimo. Se ci si rendesse conto che il siciliano è prima di tutto siciliano, poi medico, avvocato o poliziotto, si capirebbe già meglio. »

Il filosofo Manlio Sgalambro, autore, insieme al musicista Franco Battiato, dell'opera lirica Il cavaliere dell'intelletto dedicata a Federico II di Svevia nell'ottavo centenario della nascita (Jesi, 26 dicembre 1194), nell'introduzione Teoria della Sicilia afferma:


« Il sentimento insulare è un oscuro impulso verso l'estinzione. L'angoscia dello stare in un'isola, come modo di vivere rivela l'impossibilità di sfuggirvi come sentimento primordiale. La volontà di sparire è l'essenza esoterica della Sicilia. Poiché ogni isolano non avrebbe voluto nascere, egli vive come chi non vorrebbe vivere. La storia gli passa accanto con i suoi odiosi rumori. Ma dietro il tumulto dell'apparenza si cela una quiete profonda. Vanità delle vanità è ogni storia! La presenza della catastrofe nell'anima siciliana si esprime nei suoi ideali vegetali, nel suo taedium storico, fattispecie nel Nirvana. La Sicilia esiste solo come fenomeno estetico. Solo nel momento felice dell'arte quest'isola è vera. »


Nel 1889 il filosofo e giurista Yorck von Wartenburg, nel suo Diario Italiano (Italienisches Tagebuch), lasciando Girgenti alla volta di Siracusa commenta:


« ...la specificità interna del siciliano mi sembra l'assoluta astoricità. Egli è il prodotto di un territorio... che non ha mai fatto parte di alcuna parte del mondo in epoca storica, che è stato occupato da nord, sud est, ma mai è stato assimilato. L'isola in cui niente è stabile se non il movimento, il non-stabile, dove un giorno distrugge quanto l'altro giorno ha costruito, dove vulcanismo e nettunismo sono continuamente all'opera. »

La scrittrice Francine Prose, in Odissea siciliana, sostiene:

« È facile essere felici in Sicilia, ma è un'operazione che richiede un adattamento biologico oltre che culturale: bisogna imparare a vivere il tempo alla maniera siciliana. »

 

Le cento Sicilie di Bufalino


Gesualdo Bufalino, grande conoscitore della Sicilia e della sicilianità, nello scritto L'isola plurale, tratto dalla raccolta Cere perse, ha delineato più di ogni altro le caratteristiche fondamentali dei siciliani, il carattere e le tendenze, causate da ragioni storiche, climatiche e insulari.

« [...] Vi è una Sicilia “babba”, cioè mite, fino a sembrare stupida; una Sicilia “sperta”, cioè furba, dedita alle più utilitarie pratiche della violenza e della frode. Vi è una Sicilia pigra, una frenetica; una che si estenua nell'angoscia della roba, una che recita la vita come un copione di carnevale; una, infine, che si sporge da un crinale di vento in un accesso di abbagliato delirio...
Tante Sicilie, perché? Perché la Sicilia ha avuto la sorte ritrovarsi a far da cerniera nei secoli fra la grande cultura occidentale e le tentazioni del deserto e del sole, tra la ragione e la magia, le temperie del sentimento e le canicole della passione. Soffre, la Sicilia, di un eccesso d'identità, né so se sia un bene o sia un male. Certo per chi ci è nato dura poco l'allegria di sentirsi seduto sull'ombelico del mondo, subentra presto la sofferenza di non sapere districare fra mille curve e intrecci di sangue il filo del proprio destino.

Capire la Sicilia significa dunque per un siciliano capire se stesso, assolversi o condannarsi. Ma significa, insieme, definire il dissidio fondamentale che ci travaglia, l'oscillazione fra claustrofobia e claustrofilia, fra odio e amor di clausura, secondo che ci tenti l'espatrio o ci lusinghi l'intimità di una tana, la seduzione di vivere la vita con un vizio solitario. L'insularità, voglio dire, non è una segregazione solo geografica, ma se ne porta dietro altre: della provincia, della famiglia, della stanza, del proprio cuore. Da qui il nostro orgoglio, la diffidenza, il pudore; e il senso di essere diversi.
[...]Ogni siciliano è, di fatti, una irripetibile ambiguità psicologica e morale. Così come l'isola tutta è una mischia di lutto e di luce. Dove è più nero il lutto, ivi è più flagrante la luce, e fa sembrare incredibile, inaccettabile la morte. Altrove la morte può forse giustificarsi come l'esito naturale d'ogni processo biologico; qui appare come uno scandalo, un'invidia degli dei.
Da questa soperchieria del morire prende corpo il pessimismo isolano, e con esso il fasto funebre dei riti e delle parole; da qui nascono i sapori cupi di tossico che lascia in bocca l'amore. Si tratta di un pessimismo della ragione, al quale quasi sempre s'accompagna un pessimismo della volontà.[...]
Il risultato di tutto questo, quando dall'isola non si riesce o non si voglia fuggire, è un'enfatica solitudine. Si ha un bel dire – io per primo – che la Sicilia si avvia a diventare Italia (se non è più vero, come qualche savio sostiene, il contrario). Per ora l'isola continua ad arricciarsi sul mare come un istrice, coi suoi vini truci, le confetture soavi, i gelsomini d'Arabia, i coltelli, le lupare. Inventandosi i giorni come momenti di perpetuo teatro, farsa, tragedia o Grand-Guignol. Ogni occasione è buona, dal comizio alla partita di calcio, dalla guerra di santi alla briscola in un caffè.
Fino a quella variante perversa della liturgia scenica che è la mafia, la quale fra le sue mille maschere, possiede anche questa: di alleanza simbolica e fraternità rituale, nutrita di tenebra e nello stesso tempo inetta a sopravvivere senza le luci del palcoscenico.
[...] Non è tutto, vi sono altre Sicilie, non si finirà mai di contarle.»


Paolo Isotta scrive:«Ha insegnato Leonardo Sciascia che la Sicilia non è una. Ne esistono molteplici, forse infinite, che al continentale, forse al Siciliano stesso, si offrono e poi si nascondono in un giuoco di specchi» (citato in Corriere della sera, 4 marzo 2008)


Andrea Camilleri ricorda come Italo Calvino fosse scettico sulla possibilità di ambientare romanzi gialli in Sicilia:


« Leggere le pagine dei quotidiani siciliani è, purtroppo spesso, assai più appassionante di un romanzo giallo. Una volta Italo Calvino scrisse a Leonardo Sciascia che era praticamente impossibile ambientare una storia gialla dalle nostre parti essendo la Sicilia, disse pressappoco così, prevedibile come una partita a scacchi. Il che dimostrava inequivocabilmente come Italo Calvino non sapesse giocare a scacchi e soprattutto non conoscesse né la Sicilia né i siciliani. »