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AMOR DI MAMMA… A QUATTRO ZAMPE!
Per colpa di alcuni cacciatori che gli uccisero i genitori, Pepè, un cucciolo
d’orso grigio, si ritrovò orfanello. Nella tana dove viveva era al sicuro, ma i morsi della fame si fecero sentire e dimenticò ogni prudenza. La lunga assenza di papà orso e mamma orsa gli fecero
capire che era giunta l’ora di fare il grande. Così abbandonò quel posto tanto caro e se ne andò in cerca di bacche, more e noci. Ma i lupi della foresta, affamati a
loro volta, non gli davano mai nemmeno il tempo di assaggiarli. Ancora qualche giorno e sarebbe morto di fame, o divorato dai lupi.
Fuggi di qua e scappa di là, Pepè imboccò la strada per Pupù, la città degli animali che non esistono più. Quanta pace c’era colà! E com’era bella quella realtà!
Giunto a Pupù, Pepè incontrò due bianchi e candidi cuccioli di cane San Bernardo: Pipì e Popò, figli di Sasà. Pepè era scuro di colore, ma Pipì e Popò non vi fecero caso. Per loro, la cosa più
bella era il fatto di avere un nuovo compagno di giochi.
Al tramonto, Pipì e Popò ritornarono da Sasà, portando con sé anche Pepè. Alla sua vista, essa mostrò il suo disappunto, ma poi l’accolse tra le amorevoli zampe, pensando: “ Che m’importa del
colore! ” E lo allevò con lo stesso amore.
Grazie a Sasà, che lo allattò e curò, Pepè visse felice e contento insieme a Pipì e Popò, nella città di Pupù… dove trovano riparo gli animali che gli uomini non amano più!
Infatti, a differenza degli uomini, le bestie non hanno pregiudizi; e poi, nel cuore di ogni mamma non c’è posto per il colore… ma solamente per l’amore!
MORALE DELLA FAVOLA
Se il colore della pelle non fosse discriminante per gli uomini della Terra… a nessuno verrebbe voglia di farsi stupida guerra!
IL TOPOLINO DI PACHINO
A Pachino, paesino della Sicilia orientale in provincia di Siracusa, alcuni secoli fa viveva un topolino di nome Divino. Strano nome per un topolino, vero bambini? Infatti, questo nomignolo gli
fu dato perché puzzava sempre di vino.
Divino era sempre pieno di vino perché la dolcissima Marina, sua ex fidanzata, non solo l’aveva piantato in asso, ma aveva provveduto a sostituirlo con un altro, molto più serio di lui.
D’altronde, lei era davvero bella, così bella che le rose appassivano al suo cospetto. Ed era sempre pulita e ordinata, profumata, non come lui, che pensava solo a bere e a giocare a carte con
quelli par suo, nascosti nelle cantine buie e puzzolenti delle taverne di quel tempo lontano.
Dopo la separazione, Divino andò a rinchiudersi nella cantina di un’osteria, stappò una botte e cominciò a bere finché, ubriaco e fuor di senno, si sentì felice. Poi crollò, non reggendosi più
sulle zampette, dimentico perfino della sua identità.
Nella cantina viveva anche un vecchio e saggio topo, che, in ansia per la sua salute, così l’ammonì: “Stai attento, amico, non esagerare col vino di Pachino! E’ buono, ma non abusare mai della
sua squisitezza: fa brutti scherzi, ricordatene!”
Con la vista annebbiata e la mente intorpidita, Divino non vide il vecchio saggio e non capì quello che gli disse. Ciò gli fu letale. Infatti, due giorni dopo uscì dalla cantina, cantando e
saltellando, e si mise a girovagare per le vie del centro. Rischiò d’essere travolto da mandrie di buoi e greggi di pecore, e fu preso a colpi di scopa dalle persone. Ma ebbe fortuna e uscì
indenne da quel trambusto.
Di certo l’avrebbe fatta franca, il ribaldo… che però si scontrò col feroce Maramaldo!
Possente quanto tre gatti messi insieme, Maramaldo era il terrore dei topi. Gli abitanti di Pachino lo rifocillavano ed esso ricambiava dando la caccia ai topi che infestavano il paesino, rubando
il cibo dalle case delle povere massaie e atterrendo i negozianti, ai quali arrecavano consistenti danni giornalieri.
Nel vedere quel topolino che se ne andava in giro senza paura, Maramaldo pensò: “O è un deficiente…o è ubriaco solamente!”
Appena se lo ritrovò di fronte, gli sbarrò il passo: prima di farne un bocconcino… voleva divertirsi un pochino!
“Buona passeggiata, bel topolino!”, gli disse, schernendolo.
“Hic… hup… blob!”, uscì dal musetto del topolino, il cui alito puzzolente fece venire il voltastomaco a Maramaldo.
“Scansati, hic, brutta bestia pelosa, huc!”, disse l’incosciente topolino. Poi, toccata e guardata meglio la montagna di carne e pelo che aveva di fronte, aggiunse: “Hic, sei un gatto, huc, o un
elefante, blob!”
Poveretto! Non ebbe nemmeno il tempo di udire la risposta del gattone… perché fu ingoiato in un sol boccone!
Soddisfatto, Maramaldo raggiunse un carrubo e vi si mise sotto, al riparo dal caldo cocente. Chiuse gli occhi e s’addormentò, sognando di volare oltre le nuvole, per scoprire se era vero che
anche i gatti, come ogni altro animali, avevano un paradiso tutto loro. Pochi minuti dopo, però, il pancione sobbalzò e lo destò.
“Che diamine succede?”, si chiese il gattone… guardando sotto il pancione! Ma nulla di strano notò.
Cambiata posizione, emise un prolungato miaooo e si stiracchiò, con la speranza di riprendere sonno. Ma si sbagliò. Appena chiuse gli occhi, il pancione sobbalzò nuovamente. Aprì la bocca per un
ruttino, ma ne venne fuori il topolino con un hic, huc, blob!
“Che tu sia un gatto, hic, o un elefante, huc, non mi fai paura, bestione!”, lo insultò l’incauto Divino. Infatti, così dicendo, mise la parola FINE alla sua vita terrena.
Senza indugio alcuno, Maramaldo l’addentò e lo masticò, invece di mandarlo giù in un sol boccone… triturandolo come fosse un pezzo di torrone!
“Così la prossima volta, se mai ci sarà…prima d’aprir bocca rifletterà!”, pensò Maramaldo, che riprese il sogno interrotto… addormentandosi di botto!
MORALE DELLA FAVOLA
Un buon bicchiere di vino non ha mai fatto male ad alcuno, però non esagerate… e a Divino pensate!
LO SPAVENTAPASSERI
In un campo di grano, a far da guardia alle spighe, c’era uno spaventapasseri fatto di stracci e paglia. Due lunghi bastoni erano le sue gambe; altri due, più corti, fungevano da braccia; in
testa, ricavato da un pallone, teneva un cappellaccio ad ampie falde rosse e nere. Il passar degli anni e le intemperie cui era esposto giorno e notte, sia d’estate sia d’inverno, contribuivano a
dargli un aspetto truce.
Al soffiar del vento, lo spaventapasseri girava come una trottola. Dallo zufolo, che nascosto tra la paglia gli gonfiava l’inesistente petto, usciva un sibilo pauroso. Questo marchingegno teneva
lontani i corvi, le quaglie e gli uccelli che si recavano colà… per beccare a sazietà!
Una mattina, approfittando della bella giornata, Luigi e Sebi, compagni di banco della quarta elementare, decisero di far vacanza. Camminando senza meta alcuna, si ritrovarono nel campo di
grano.
“Miseriaccia, guarda quant’ è brutto!”, esclamò Sebi, scrutando lo spaventapasseri.
“Non mi fa paura!”, disse Luigi, che da una settimana praticava il karaté. E si mise in posa, imitando il mitico urlo di battaglia di Bruce Lee: uah… aye… uauuu!
Lo spaventapasseri lo guardò, imperterrito. Non poteva far nulla, se non stare a guardare: bastavano due calci e con un crack sarebbe crollato. Ma il vento, suo amico birichino, gli diede un
aiutino: nello zufolo lesto s’infilò e forte sibilò: sss…fiuuu…sss, venne fuori dal suo interno, seguito dall’ondulare delle braccia.
La paura s’impadronì dei bimbetti… che fuggirono come coniglietti!
“Scappa Luigi, corri, corri!”, gridava Sebi, allontanandosi più veloce di un treno.
“Fuggi, Sebi, non ti voltare!”, urlava terrorizzato Luigi… i cui capelli divennero grigi! E tornarono tra i banchi di scuola, di certo più sicura e tranquilla, come in una bella famiglia.
Rimasto solo, lo spaventapasseri ringraziò il vento per l’aiuto ricevuto e il padrone del campo per lo stratagemma dello zufolo, che gli consentiva di stare ancora là, ritto, a fare il suo
dovere. Poi, andando con la mente ai due bimbetti, non poté fare a meno di sorridere e pensare: “Nel tentativo d’ imitare gli eroi del cinema e della televisione… si dimenticano di usare la
ragione!”
Perdoniamoli, quindi, cari genitori, se ogni tanto si comportano come fossero diavoletti… in fondo in fondo, sono pur sempre i nostri amati angioletti!
MORALE DELLA FAVOLA
Per sconfiggere le avversità della vita, occorrono diverse dosi di coraggio e tanta determinazione… ma anche l’uso della ragione!
IL FANTASMA DEL POZZO
(premessa)
“La leggenda nata intorno a San Domenico, patrono della veneranda e marinara Augusta - ne scacciò i turchi invasori - è ancora viva nella memoria dei suoi abitanti, pur risalendo al 1594. Così
pure la festa che si tiene in suo onore, ogni 24 Maggio, alla quale l’intera cittadina partecipa con devozione. Simili tradizioni, sparse in ogni angolo di mondo per fede o per culto, sono
tramandate nei secoli; alcune, invece, si sono perse col passare degli anni e altre ne spariranno per colpa dell’ incalzante consumismo.
Fra le tante leggende che serbo ancora nei miei ricordi di fanciullo, quand’ero a Pedagaggi o nell’adottiva Augusta, due sono ricorrenti: la zingara col sacco sulle spalle, che nei pomeriggi
d’estate se ne andava a caccia di bambini monelli, a Pedagaggi; la serramonaca, ad Augusta, una vecchina vestita di abiti monacali - meno famosa di quella più truce di Hansel e Gretel - e che
pare vivesse dentro un pozzo, dove i bimbi erano soliti curiosare, sfidando la paura che li serrava. Da ciò deriva, probabilmente, il nomignolo di serramonaca - non me ne vogliano gli storici
locali, la mia è solamente una licenza fantasiosa - .
Queste paure ancestrali ce le portiamo dentro e spesso muoiono con noi. Stephen King le chiama -IT- in un suo libro di successo. Consiglio di leggerlo a quelle mamme che, per far stare buoni i
piccoli, ricorrono a minacciose frasi del tipo: “ …e se non fai il bravo bambino, chiamo il lupo cattivo ” ; “ …e se non mangi la carne, ti faccio la punturina ” ; “ …e se non fai il sonnino,
chiamo la zingara col sacco, così ti porta via ” ; “ …e se non la smetti di piangere, ti chiudo nell’armadio e ti lascio al buio ”, e mille altre ancora. Ovviamente, tutto ciò serve solo a
spaventarli e non certo ad educarli. Se poi si tiene conto delle conseguenze che queste paure lasciano nella loro psiche, ben si evince come molti adulti - fra i quali lo scrivente - abbiano
certe fobie. Io, ad esempio, malgrado i miei cinquant’anni, sto ancora aspettando di vedere la vecchia zingara col sacco sulle spalle e provo un certo disagio ogni qualvolta ne vedo una, certo
però che non potrà infilarmi nel suo sacco, ormai, data la mole che ho. In conclusione: meglio privare i nostri angioletti di un giocattolo, caramelle, figurine e patatine, invece d’inventare
mostri, fantasmi e vecchiette mangia-bambini, pur di convincerli a lasciarsi fare la punturina, mettere la suppostina, prendere la medicina, mangiare tanta carne e più pesce, invece di certe
schifezze. Aggiungendo alle parole, qualora fosse necessario, baci e carezze di mammina, la più indicata in tali delicate situazioni, la sola ad avere un sistema ben collaudato nel far passare la
bua.”
C’era una volta un pozzo che forniva acqua potabile alla gente. Esso si trovava al centro di un ampio spiazzo di un piccolo borgo medievale: Augusta, la marinara, dello Jonio, perla rara! Che
bella località!!
Fu l’imperatore Cesare Augusto a darle il suo nome, al tempo in cui Roma era caput mundi - capitale del mondo -. Rimase incantato dal suo mare e dall’isolotto su cui s’ergeva, che adibì a punto
d’incontro per gli scambi commerciali nel Mediterraneo. Secoli dopo, fu chiamata “veneranda” dal solare imperatore Federico II, uomo di grande intelletto, che le diede onori e fasti.
Il pozzo era il solo a fornire acqua potabile all’intero borgo, per cui veniva guardato a vista, sia di giorno, sia di notte. Ciò impediva ai malintenzionati di buttarci dentro qualsiasi cosa e
ai bimbi d’avvicinarsi a guardare, rischiando di precipitarvi. Malgrado tali accorgimenti, non si poté evitare, purtroppo, la tragedia che di seguito leggerete.
Domenico aveva sei anni e la mamma, per non lasciarlo solo in casa, tutte le mattine lo portava con sé, al pozzo, a prendere l’acqua. Ma non gli permetteva di avvicinarsi, premurosa e paurosa
com’era. Ciò, però, non faceva altro che accrescere la curiosità del figliolo.
“Mamma, lasciami guardare dentro almeno una volta!”, implorava Domenico. “Ti prego, una volta sola!”, insisteva, piagnucolando. Ma la mamma, come tutte le altre mamme del posto, non acconsentiva
mai.
Monica, questo era il nome della donna, alcuni anni prima aveva perso il marito, un pescatore come tanti, ingoiato dalla furia del mare in una notte di tempesta. Scioccata dalla tragedia e con un
figlioletto di pochi mesi da crescere, ebbe parecchi problemi, ma non trascurò mai il suo bambino, l’unico bene rimastole, al quale dava tutto il suo amore. Ma era ossessiva nei suoi confronti.
Vedeva pericoli dappertutto e gli vietava la qualsiasi, perfino di andare a giocare con i compagni, per non parlare del mare, che le riusciva solo di odiare! Se solamente avesse immaginato quali
nere tessere il Destino stava tramando nei suoi confronti, forse la sua vita avrebbe avuto un diverso epilogo.
Quella fatidica mattina, il cielo era scuro, presago di ciò che doveva accadere. Il sole non si vedeva affatto e non se ne sentiva il calore, malgrado fosse Aprile. In casa c’erano diverse cose
da fare e panni sporchi da lavare. Preso un recipiente di terracotta, la donna disse al bambino: “Vieni, andiamo al pozzo!”
Domenico, che sperava sempre di convincerla a lasciarlo guardare dentro, la seguì. Ma prima di giungere sul posto, la mamma si fermò un attimo a parlare con una comare che le doveva della
farina.
“Aspetta qui, non allontanarti, mi sbrigo subito!”, disse al figliolo, entrando in casa della comare. Ma, appena lei scomparve, Domenico corse al pozzo, deciso a guardarvi dentro. Non vedendo
alcuna guardia, pensò: “Questa è la volta buona, finalmente!” E non diede ascolto nemmeno ai compagni, che lo invitarono a giocare a palla, nello spiazzo distante pochi metri dal pozzo. Preso
dall’ebbrezza di fare ciò che gli stava a cuore, prima che la mamma tornasse, tirò dritto fino al pozzo, dentro al quale andò a morire… perché il mistero voleva capire!
Finito di parlare con la comare, Monica ritornò in strada ma non vide il suo bimbo. Angosciata, scrutò nel gruppetto che giocava a palla nello spiazzo. Non vedendolo, lo chiamò: “Domenico, dove
sei? Domenico… Domenicoo… Domenicooo!”
Candido e innocente, un bambino del gruppetto le disse: “Non è qui, signora! Poco fa era vicino al pozzo, poi è scomparso.”
Il gruppetto riprese a giocare, allegro e chiassoso, mentre la donna si strappava i capelli, urlando: “No… no… no… mio Dio! Madonna mia! Fa’ che non sia vero!” E qual saetta percorse i pochi
metri che la separavano dal pozzo, buttandovisi a capofitto, senza esitazione, sperando di salvare il figlio suo diletto. Ma il gesto, seppur dettato dall’amore e dalla disperazione… non cambiò
la tragica conclusione!
IL FATO AVEVA GIA’ DECRETATO IL FINALE.
Mentre la donna annaspava nell’acqua, nel tentativo di salvare il figlioletto, la guardia, allarmata dal grido straziante che aveva sentito, ritornò al pozzo, seguita da alcuni contadini che si
recavano a lavorare, a dorso dei propri muli. Accanto al pozzo videro i bambini che gridavano aiuto…aiuto… a squarciagola, e intuirono che qualcosa di brutto era successo. Uno di loro, tal
Francesco, sfilò le redini dell’animale e le mise in mano alla guardia e agli altri uomini, dicendo: “Calatemi dentro, vado a prenderli!” E si lasciò scivolare dentro.
Afferrata la donna, che al petto stringeva il figlioletto, urlò che lo tirassero fuori. Sotto i riflessi di un cielo plumbeo, la vita mostrò la sua debolezza nei confronti della morte.
Domenico non respirava più! I polmoni erano pieni d’acqua e il suo cuoricino s’era fermato per sempre. Un angioletto calò dal cielo e portò seco l’anima sua, nel giardino dei bambini, un luogo
celestiale, invisibile ad occhio nudo, perché al di là delle nuvole, oltre le stelle.
Dopo aver provato in tutti i modi a riportarlo in vita, Monica cadde esausta su se stessa e, come purtroppo accade spesso in questi casi, perse la ragione, divorata dai sensi di colpa e dal
dolore, che le annebbiarono la mente (in seguito fu ospitata e curata dalle suore di un convento lì vicino, che se ne presero cura. Il passar degli anni cicatrizzò le ferite del cuore e trovò
pace e conforto nella Fede e nelle preghiere alla Madonna, tanto che si fece monaca. E tutti i giorni si recava al pozzo, a pregare e a parlare col suo Domenico, che solo lei riusciva a vedere
tra i riflessi d’acqua, quando il sole era alto, a mezzogiorno).
Anche Francesco tentò di strappare alla morte quel bambino, ma dovette arrendersi alla tragica decisione del FATO. Infine, non potendo fare altro, lo prese fra le braccia e lo portò all’umile
casetta, seguito dalla popolazione intera, che nel frattempo era sopraggiunta .
La guardia, per punizione, fu condannata a pagare le spese del funerale del bambino e per un mese intero provvide al sostegno della sfortunata donna, una volta madre e moglie felice, ora sola e
disperata, senza più alcuna voglia di vivere né sopravvivere alle proprie disgrazie.
Al pozzo, fino ad allora tenuto scoperto, fu messo un coperchio scorrevole, così pesante che nessun bambino lo poteva sollevare; la sua vecchia muratura, circolare e troppo bassa, fu elevata di
un altro metro. Grazie a questi accorgimenti, non accaddero più altre tragedie.
Col passare dei secoli, il fatto divenne una specie di leggenda, perché ognuno, nel raccontarlo, aggiungeva sempre qualcosa di proprio. A ciò, sicuramente, contribuì la presenza della monaca,
che, stando per ore ed ore accanto al pozzo, alimentava le fantasie di grandi e piccini, travisando la realtà .
Nel candido giardino dei bambini, oltre le nuvole, non c’erano pericoli ed essi giocavano in tutta serenità. Al passaggio del FATO, altri bimbi volarono fin lassù, a giocare con Domenico. Fra i
tanti, ricordiamo il bambino di Vermicino, Alfredino Rampi, anch’egli finito in fondo ad un pozzo, e l’innocente Nicholas Green, ucciso da gente senza cuore e senza Dio. Ma voi conoscete già le
loro vicende.
MORALE DELLA FAVOLA
Con franchezza ai figli si deve parlare… certe tragedie così si potranno evitare!
IL LUPO, L’ORSO E LA VOLPE
Nell’attraversare il ponte di legno sotto il quale scorreva un fiume, un lupo si trovò al cospetto di un orso.
“Scansati, pulce!” disse l’orso, minaccioso. “Cedimi il passo, tappo, o ti schiaccio come una noce!” Ed erettosi sulle zampe posteriori, si fece grintoso.
“Scansati tu, ammasso di lardo!” rispose il lupo, mostrandogli i denti aguzzi.
Poco distante, tranquillamente acquattata per terra, una furba volpe rossa si godeva lo spettacolo, pensando: “Che bestie! Non hanno capito nulla della vita!”
Certa di poterci guadagnare qualcosa, ricordando le parole della mammina - fra due litiganti… il terzo vince! -, attese fiduciosa il finale di quell’ incontro/scontro..
Sul ponte, intanto, i contendenti se le davano di santa ragione. Per stupido orgoglio, è ovvio: nessuno dei due, infatti, voleva cedere il passo all’altro.
“Ti ucciderò!” disse il lupo all’orso. “Ti farò a spezzatino e con la tua pelliccia mi coprirò dal freddo. La tua carne mi consentirà di mangiare a sbafo per un mese intero, senza bisogno di
andare a caccia, e con la tua spessa pelliccia passerò un caldo inverno nella mia tana.”
“Dopo averti sbranato” disse l’orso, mostrando le zanne, “con i tuoi ossicini mi farò un’abbondante scorta di stuzzicadenti!” E lo colpì ai fianchi, ferendolo.
Nell’aria non si sentì più alcun rumore, a parte il rimbombo delle loro zuccate sul ponte di legno, a cui seguivano i dolorosi “graf… crack… uuuh” del lupo, e i “sock… pack… grunf ”
dell’orso.
Che botte, bimbi miei! Come se le davano!! E come scricchiolavano le ossa rotte!!!
Un’ora dopo, straziate e dissanguate, le stupide bestie crollarono sul ponte, morenti! Prima di chiudere gli occhi, però, non poterono fare a meno di vedere la furba volpe rossa avvicinarsi, con
cauto incedere, ed esclamare: “Cielo, come sono fortunata!”
Guardinga, la volpe raggiunse il lupo e gli disse: “Della tua carne non so che farmene, ma con i tuoi ossicini mi farò una bella scorta di stuzzicadenti!”
Poi, mantenendosi a debita distanza, s’accostò all’orso, dicendogli: “Povero scemo! Sei grande e grosso, ma non hai cervello. La tua spessa pelliccia mi riparerà dal freddo e con le tue carni,
grasse e nutrienti, passerò l’ inverno senza bisogno di andare a caccia!”
E se la rideva sotto i denti… alla faccia dei perdenti!
MORALE DELLA FAVOLA
Chi usa il cervello… cresce forte, sano e bello!
IL DRAGO E L’ ECO
C’era una volta, ma tanto… tanto tempo fa, un drago con poco cervello e carattere impulsivo. Girovagando di qua e di là, un bel dì si ritrovò nel deserto del Sahara. Trovò il posto interessante e
vi si fermò per tanto… tanto tempo! Ma la vita non era facile e la sua scorreva tra mille difficoltà, fra dune sabbiose, velenose scolopendre e pungenti scorpioni… che gli procuravano
incessanti tribolazioni! Ma per lui non era un problema difendersi da loro. Nascosta nel pancione teneva un’arma letale: il fuoco! Tuttavia…
Quella vita era troppo dura, colà, tanto che si mise in cerca di un luogo migliore, un posto più fresco e rilassante. Ma, gira e rigira, si ritrovava sempre là, fra dune sabbiose, velenose
scolopendre e pungenti scorpioni… piccolini di forma ma gran birboni!
Come certi bambini, che, seppur bravi e belli… spesso fanno i monelli!
Povero drago! Sembrava proprio che non sarebbe più riuscito a venir fuori da quell’ inferno, quand’ecco che un giorno…
…sul deserto si scatenò una furiosa tempesta di sabbia. Il ghibli lo sollevò in aria, come fosse un fuscello, percotendolo come fosse un tappeto indiano. Dopo un volo di alcuni chilometri,
finalmente lo mollò senza troppi complimenti.
“Etciù… puah… bleh… che schifo!” si lamentò il drago, la cui gola era piena di sabbia.
“Che sete… che sete!” brontolava, guardandosi intorno con circospezione.
“Dove sono finito?” si chiese, non riconoscendo il posto. La sabbia, infatti, gli aveva annebbiato pure la vista.
Appena tornò a vedere limpido e chiaro, con gioia scoprì di essere finito in un’accogliente e placida oasi, dove svettavano alberi di banane, datteri e noci di cocco. Al centro dell’oasi -
sembrava un miraggio, ma non lo era -, c’era un laghetto dalle acque limpide, cristalline e invitanti! Da sogno!!
Superarcistracontento, il drago vi si tuffò, felice, come fanno quei bambini che, d’estate, le mamme ed i papà portano al mare, a sguazzare in piena allegria… senza troppa fantasia! E fece
spanciare dal ridere i girini e le ranocchie del laghetto, immergendosi in quella freschezza… e togliendosi di dosso ogni schifezza!
Ma la gola gli bruciava, per cui bevve di getto… fin quasi a prosciugare il laghetto! Poi fece una scorpacciata di banane, datteri e noci di cocco. Infine, non vedendo più le dune sabbiose, le
velenose scolopendre e gli odiati scorpioni, pensò di fermarsi lì per sempre.
“Sarà meglio fare la conoscenza del posto!” pensò, guardandosi intorno. E gironzolando in lungo e in largo, finì in un canyon, le cui rocce celavano oscure e profonde gallerie, nelle quali il
vento s’ infilava, dando origine a fenomeni strani.
Uno di questi, che voi bambini conoscete benissimo, è l’eco.
Con la pancia piena d’acqua, banane, datteri e noci di cocco ingeriti in quantità… il drago si fermò a riposare colà!
“Faccio un pisolino e poi torno all’oasi!” pensò, accovacciandosi con la schiena sulla roccia aguzza, che sfruttò per grattarsi il dorso. Stanco com’era, chiuse gli occhi e sbadigliò forte:
“Bruarrr…”
“Bruarrr…” echeggiò tutt’ intorno.
Pensando che nelle vicinanze ci fosse un suo simile, il drago agitò la coda e saltò sulle quattro zampe, pronto a difendere il territorio conquistato. Ma non ce ne fu bisogno: non vide il rivale.
Per cui richiuse gli occhi, sbadigliando: “Bruarrr…”
“Bruarrr…” riecheggiò nel silenzio che rendeva quel posto simile ad un paradiso terrestre… trasformandolo in inferno campestre!
Il drago saltò sulle quattro zampe, spaventato, aprì gli occhi e la bocca e, impulsivo com’era, liberò dallo stomaco fiamme in gran quantità… bruciando tutto senza pietà!
Quando si placò, non vide più l’oasi con i suoi alberi, ma cenere e carbonella! Nel fresco e invitante laghetto non rimase una sola goccia d’acqua. Ranocchie e girini scamparono miracolosamente
alla brutta fine, immergendosi nel fango umido.
Tutt’ intorno era come lui: deserto e solingo… per cui tornò ad essere guardingo!
E si ritrovò fra le dune sabbiose, le velenose scolopendre e i pungenti scorpioni, che lo riportarono alla triste realtà di cui ben conosceva l’esistenza: una vita d’inferno!
Al cospetto di sì cocente vita che l’attendeva, il drago si prese a calci e si morse la coda, ma non risolse il problema. Si rimproverò d’essere stato troppo impulsivo e si ripromise di stare più
attento in un prossimo futuro… onde renderlo meno duro!
MORALE DELLA FAVOLA
Se vuoi vivere serenamente, non essere mai impulsivo… ma sempre furbo e comprensivo!
KRATUNA
(la figlia della luna)
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KRATUNA
Dopo una lunghissima notte di tenebre (1), il Sole illuminò a giorno la banchisa polare. Con la luce, che fugava le paure di grandi e piccini, i villaggi si animarono di vita e allegria. I
bambini, che aspettavano la bella stagione da diverse lune (circa sei mesi), furono i primi a riversarsi fuori dagli iglù (2).
Come tutti i bambini del mondo, anch’essi amavano giocare all’aria aperta, pur non avendo verdi prati dove correre, né giocattoli per trastullarsi.
In questo periodo di luce e calore… nascevano i figli dell’amore!
Lontano dagli occhi indiscreti di cacciatori e predatori, al riparo di pioggia, neve e bufere di vento, tipiche del Polo Nord, nelle calde tane venivano al mondo i cuccioli di orsi, conigli, lupi
e volpi.
Contemporaneamente, nelle fredde ma pescose acque del mar di Kara (divinità marina generata dall’Oceano Artico), nascevano i piccoli di balene, delfini, foche, orche…
Ad alcuni chilometri di distanza dal mare, nei tiepidi iglù dei villaggi lontani e vicini… nascevano tanti bei bambini!
Che gioia per le mamme e i papà! Aspettavano quell’ evento con trepidazione… e conseguente logica soddisfazione!
Nell’ iglù di Amìk e Kara, una giovane coppia al loro primo figlio, nacque una bellissima bambina, di cui s’innamorò la Luna (Spirito del Bene, come il Sole e le Stelle, suo caldo fratello,
l’uno, scintillanti sorelle, le altre.). Buona e cara con tutti, essa amava mostrarsi al mondo sottostante e spesso dava anche un aiutino… a qualsiasi bambino!
“Voglio che codesta bimba abbia la pelle bianca come la mia!” disse la Luna, compiacendosi. E così fu!
“Voglio” disse ancora la Luna, “che i suoi occhi abbiano il colore del mare, del cielo e del muschio! E che siano dolci e forti allo stesso tempo, capaci di soggiogare, incantare, ammaliare e
ipnotizzare ogni essere vivente!” E così fu!
Amìk guardò Kara, incredula eppur felice di essere stata prediletta dalla Luna per quell’evento così eccezionale, e le chiese: “Come possiamo ringraziare gli Spiriti del Bene?”
“Semplice!” rispose la compagna. “Ha la pelle bianca come la Luna… perciò il suo nome sarà Kratùna (3)!” E così fu!
Per tredici lunghi giorni e altrettante lunghe notti, la Luna rincorse la luce e le tenebre. Così il tempo trascorreva… e la piccina cresceva!
Una signorinella era divenuta Kratùna, con lunghi capelli biondi e simpatico viso dal sorriso accattivante, dov’erano incastonati, qual preziosi diamanti, due occhi che sapevano soggiogare,
incantare, ammaliare e perfino ipnotizzare gli animali, ma anche i maschietti dei villaggi vicini e lontani. Questa sua diversità, dono della pallida Luna, era venerata e apprezzata. E grazie ai
venti, che rapivano i discorsi delle genti e li portavano in giro per il mondo, Kratùna e le sue doti, così uniche e rare, divennero famose in tutto il Polo Nord. Purtroppo, tali voci giunsero
anche alle orecchie degli Spiriti del Male (orripilanti e sanguinarie creature che osarono sfidare, nella notte del tempo in cui ebbe origine il mondo, gli Spiriti del Bene. Ma ebbero la peggio e
furono condannate a vivere nelle profondità degli abissi marini).
Nel villaggio di Amìk e Kara, intanto, Kratùna veniva corteggiata dai maschietti che volevano farne la propria compagna di vita.
“Dimmi di sì, dolce creatura!” implorava uno di nome Oghi.
“Se mi dirai di sì” la supplicava un certo Kruk, “tuo sarà il mio iglù… non chiedo di più!” Ma lo facevano sempre a testa bassa, confusi dallo sguardo penetrante degli occhi della signorinella…
vicina eppur lontana come una stella!
Non volendo far soffrire alcuno di loro e non sentendosi ancora pronta a fare quel passo, consapevole dei propri poteri, che usava solo a fin di bene, così rispondeva a tutti quanti: “Mio
compagno di vita sempre sarà… chi gli occhi abbassare mi farà!” Detto ciò scappava via… lasciandosi dietro odorosa scia!
Non era superbia, la sua, e nemmeno Vanità. Non voleva legarsi a chicchessia… ma ad uno capace di conquistarla con la dolcezza di uno sguardo e tanta simpatia!
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TUGARTUGU
Approfittando del periodo in cui la luce del Sole scioglieva il gelido manto delle tenebre, Amìk fece i preparativi per andare a pesca. Premuroso com’era, informò la compagna.
“Tornerò presto, Kara, stai tranquilla!” le disse con voce dolce, rassicurante, mentre caricava le fiocine e le esche sulla slitta, a cui era legato il kayak (4).
“E stai attenta alla piccolina!” le raccomandò con un tono di voce diverso, più affettuoso di prima. Infatti, pur sapendo delle doti eccezionali della figliola, era ansioso e apprensivo, proprio
come tutti gli amorevoli paparini… che nei figli vedono sempre innocenti e indifesi bambini!
“Tivagatsé (5), mia Kara!” disse alla compagna, ultimato il carico. Quindi saltò sulla slitta, trainata da sei forti e fidati compagni di viaggio:gli husky(6)! Ma, un attimo prima di afferrare le
cordicelle che fungevano da redini e dar loro il via, ecco apparire Kratùna.
“Mi porti con te, paparino?” gli chiese, mettendosi davanti ai festosi quattrozampe che per lei stravedevano, ammaliati e soggiogati dai suoi occhi, e per le coccole di cui li colmava,
amorevolmente. E, ancor prima di ricevere un “sì” o un “no”, gli fu accanto.
“Guido io!” gli disse, spingendolo più in là, delicatamente. Poi afferrò le cordicelle che fungevano da redini e incitò gli scodinzolanti husky, che già fremevano e scalpitavano, desiderosi di
correre e portare a spasso la padroncina.
“Tivagatsé, mammina Kara! A presto!” disse a colei che l’aveva messa al mondo e a cui voleva un mare di bene, riconoscente e grata.
“Torneremo presto! Non temere!” cercò di rassicurarla Amìk, allegramente… esibendo un sorriso più che convincente!
Un attimo dopo scomparvero, avvolti da bianca nuvola di ghiaccio frullato.
“Tivagatsé, miei tesori!” disse la donna al vento. E non vedendoli più… si ritirò nel tiepido iglù!
“Ak… ayek… ak…(7)” gridò per tutto il viaggio Kratùna ai quattrozampe, smettendo solo quando fu in vista del mare. E ne rallentò la corsa, fermandoli al limitar della banchisa.
Mentre papà tirava giù le fiocine e le esche dalla slitta, lei dava da bere e da mangiare agli husky. Quand’ebbe finito, li baciò e li coccolò tutti, dicendo:“Adesso devo lasciarvi, ma tornerò
presto. Fate i bravi, mi raccomando!” E li guardò in fondo agli occhi, ammaliandoli, tanto che, storditi ma felici, si accucciarono e subito s’addormentarono.
Visto che papà non era ancora pronto, Kratùna spinse il kayak in mare, vi s’infilò dentro e lo attese, trepidante.
“Sbrigati, paparino… o non prenderai un sol pesciolino!” gli disse, ansiosa di prendere il largo.
“Attenta! Non ballarci dentro o ti capovolgerai!” le raccomandò papà, vedendola saltellare sulla minuta imbarcazione.
Per farlo contento, essendo una figlia obbediente, s’accovacciò sotto alcune pelli e guardò l’ immensità di cielo e mare, estasiata.
Il mare era una tavola blu; lindo e terso, il cielo; la Luna vi si stagliava, seppur pallida e fioca, mentre il Sole scaldava la Natura circostante. Gabbiani, folaghe e starnazzanti oche
selvatiche, attraversavano, festanti, lo spazio aereo, creando fantastiche coreografie. Era tutto così romantico che, pervasa da tal magia, gli occhi chiuse, sognante… e la realtà scomparve all’
istante!
D’ora in poi sarà la spiccata fantasia di Kratùna a confondere la verità… fino al ritorno della realtà!
…era in alto mare. Nel kayak c’erano pure mamma e papà. Avevano un’aria festante. Il mare li dondolava. Intorno a loro, gioiosi e vivaci, due delfini piroettavano sul dorso di due orche. Tutto
era così armoniosamente magico, che niente lasciava presagire una tragedia.
Stavano passando fra le orche e i delfini, che sempre s’erano lasciati toccare, amichevolmente, ma stavolta s’immersero, rapidamente! E subito scomparvero alla loro vista, inghiottiti dagli
abissi.
“Perché fanno così?” si domandò Kratùna, preoccupata. E guardò i genitori, esclamando: “Sono mammiferi come noi, però se ne stanno sempre muti come pesci. Valli a capire!”
Amìk e Kara risero di quell’osservazione, ma subito i loro volti impietrirono. Si coprirono la testa con i mantelli e tremarono come foglie al vento.
“Ma… mamma, pa… pà, che vi succede?” gridò allarmata. “Mi prendete in giro anche voi?” disse, accostandosi a loro. E sollevò i mantelli, certa di trovare due facce sorridenti… ma invece battevano
i denti!
“Perché tremate? Che cosa vi sta succedendo? Perché fate queste brutte facce?” domandò loro, pensando volessero divertirsi alle sue spalle. E proprio in quella direzione essi guardavano,
spaventati… anzi, terrorizzati!
Istintivamente, presagendo fatal situazione, Kratùna si voltò e vide il motivo per cui mamma e papà erano così stravolti.
“Tugàrtugu (8) !” ebbe la forza di gridare. Poi se lo ritrovò addosso e non ebbe nemmeno il tempo di deviarlo con un semplice tic degli occhi. E nulla poterono Luna e Sole da lassù… che non
sempre possono prevedere le brutte cose di quaggiù!
“Scraaash… sgneeeek, sfasc… tut!” urlava la montagna di ghiaccio… felice d’aver combinato quel pasticciaccio! Poi, incurante del male fatto, si allontanò, scomparendo oltre l’orizzonte,
trascinandosi dietro, in un vortice mortale, i resti del kayak e i corpi dei suoi occupanti.
Lugubre, per l’occasione, il silenzio calò sull’ immensità del mare, che in un baleno ritornò placido e sereno… ma i nostri cuori un po’ meno!
N O T E
1) Al Polo Nord ci sono soltanto sei mesi di luce solare e sei mesi di buio totale, escluse le fasi lunari: un giorno e una notte, quindi, corrispondono ad un anno
di vita.
2) Tipica abitazione degli Eschimesi realizzata con blocchi di ghiaccio disposti in successive spirale decrescenti e con base circolare. L’ ingresso ha la forma di
un cunicolo.
3) Nel linguaggio eschimese vuol dire dalla pelle bianca.
4) Saluto fra persone che stanno per lasciarsi: salve! Ed anche “Arrivederci!”
5) Piccola imbarcazione in legno rivestita con pelle di foca.
6) Forti cani da traino adibiti a trasporti pesanti.
7) Grido d’ incitamento per lanciare i cani alla corsa, ma anche per fermarli.
8) Letteralmente: colui che si muove dormendo; per noi, semplicemente iceberg, blocco di ghiaccio che si stacca dalla banchisa, o pack, e attraversa i mari del nord.
Può affondare anche grosse navi (il Titanic, transatlantico ritenuto inaffondabile, ne urtò uno molto grosso e affondò dopo poche ore, la notte del 14 aprile 1912).
continua...
KRATUNA
la figlia della luna
2^ parte
AMONTORTOK
il sogno continua ------------------
Negli oscuri e infidi abissi marini, regno di orridi mostri appartenenti agli Spiriti del Male, il crudele Amontortòk (9) giocava col figlio, il sanguinario Ungatortòk (9).
Essi erano per metà pesci, forniti di coda e pinne; la testa pareva un teschio umano, salvo alcuni particolari: naso, bocca, occhi e orecchie, che mancavano del tutto. Al loro posto c’erano dei
fori, dai quali venivano fuori i tentacoli di un polpo, condannato a vivere all’ interno del teschio.
Solo di tanto in tanto lasciava intravedere gli occhietti demoniaci che aveva. Nessun essere umano li aveva mai visti, però tutti ne parlavano e ne avevano terrore solo a nominarli. Una
maledizione li costringeva a vivere in fondo al mare…perché non erano belli da guardare.
Poco distante passarono i corpi senza vita di Amìk e Kara, trascinati dalle correnti; quello di Kratùna, che era priva di sensi solamente, fu condotto alla loro presenza da un infernale
vortice.
“Ohhh, quale onore!” esclamò Amontortòk, afferrando la piccina con i viscidi tentacoli. “Abbiamo con noi la figlia di Aningàk!” (10)
“E’ dunque questa colei che ha il potere di soggiogare, ammaliare, incantare e ipnotizzare gli esseri viventi con lo sguardo?” domandò Ungatortòk, accostandosi a loro.
“Già, figlio mio! E’ proprio lei!” rispose il genitore. “Ne vuoi assaggiare un pezzo o preferisci sbranarla tutta?” gli chiese, mal celando una lucetta lussuriosa negli occhietti. Ma fecero male
i loro conti… tanto erano tonti!
In aiuto alla sua bambina, la Luna mandò Karina, una stupenda sirena dei mari del nord. Essa discendeva dalla famiglia delle Inertevàt (11) ed era sempre scortata da due giocosi delfini e due
magnifiche orche, le sue personali guardie del corpo. Non diceva mai di no alla pallida Luna… per questo corse a salvar Kratùna!
“Luce sia!” comandò Karina, appena raggiunse il fondo degli abissi, subito avvolta dal nero liquido in cui gli Spiriti del Male vivevano.
Il Sole, che voleva un gran bene alla sorellina e da sempre era innamorato di Karina, illuminò quella zona e le mostrò uno spettacolo a dir poco agghiacciante: padre e figlio stavano per sbranare
l’ inerme Kratùna!
L’ improvvisa apparizione di Karina e l’ intensità della luce, che odiavano perché feriva i loro occhietti diabolici, e il fulmineo attacco delle orche, misero in fuga padre e figlio.
Senza perdere un istante, Karina rinchiuse la piccina in una tiepida bolla d’aria, per evitarle il congelamento, e la spinse in superficie.
“Non temere per lei, cara amica mia!” disse alla Luna, rassicurandola. “Si salverà!”
Seguita dai delfini, la sirena raggiunse la banchisa e vi posò la bolla con molta cura… mentre voi, cari piccini, potete smettere di tremare di paura!
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..................................... KARINA ............................................
Mentre Karina si allontanava dalla banchisa (nessuno, tra gli esseri viventi, ne aveva mai vista una, però, tutti i naviganti dicevano di averne sentito i canti ammalianti), Kratùna, scaldata dal
Sole, a poco a poco riprese i sensi.
“Dove sono?” si chiese. “E dove sono mamma e papà?” Poveretta! Tante domande e nessuna risposta. Però, guardandosi intorno e levando gli occhi al cielo, le bastò vedere la Luna per capire che lo
doveva a lei se era ancora viva.
“Grazie, amica cara!” le disse. “Se non ci fossi tu a guidare il mio incerto cammino… che cosa ne sarebbe del mio destino?”
Commossa, la Luna invitò il Sole a scaldare un pochino di più la sua bambina, onde liberarla dalla bolla d’aria che, fuori dall’acqua, stava per ghiacciare.
“Se è solo questo che desideri, sorellina cara!” esclamò il Sole, indirizzando un raggio sulla bolla, che si sciolse in un baleno.
“Grazie di cuore, Tserè (10)!” disse la Luna al fratellino… mandandogli affettuoso bacino! E aggiunse: “Meno male che ci sei tu a dare luce e calore!”
(Se così non fosse, la vita sulla Terra sarebbe uno squallore.)
A favorire il ritorno alla vita di Kratuna, contribuì pure il tiepido Puvangèrtek (12), fratello del gelido Nekràyak, entrambi Spiriti dell’Aria.
Ripresasi dallo shock subito, Kratùna si guardò intorno, speranzosa, ma era sola! Di mamma e papà nemmeno l’ombra. Allora guardò la Luna, interrogativa, ma essa chiuse gli occhi, impotente.
Quindi guardò il Sole, fiduciosa, ma non ebbe risposta. Indi si volse in direzione del mare… dove vide solamente due delfini piroettare e due orche nuotare! Avevano un’aria felice e soddisfatta.
Lei, invece, sbottò a piangere come una matta!
“Povera piccola!” esclamarono Sole e Luna… guardando l’ infelice Kratùna! Ma la vita doveva continuare…
Stava per incamminarsi, la piccina, quand’ecco giungere dal mare i resti del kayàk di papà Amìk e lembi di pelle dei kamìk (13) di mamma Kara.
“Ayehhh!” gridò al vento, nel riconoscere quei resti. E pianse lacrimoni cocenti… che a contatto con la banchisa divennero perle rilucenti!
Angosciata com’era, Kratùna non s’accorse del prodigio, ma Karina sì. A mano a mano che rotolavano in mare, le ingoiava. Poi andò a nasconderle all’ interno di alcune ostriche, ritenendolo un
luogo sicuro, lungi dall’avidità umana.
“Che idea geniale!” disse il Sole alla Luna, certo che fosse stata lei a volere quel prodigio.
“Credevo fossi stato tu!” esclamò lei, ritenendolo capace di eventi clamorosi.
Volendo conoscere la fonte di quell’evento straordinario, si rivolsero a Karina, interrogativi.
“Non ne ho la più pallida idea!” rispose la sirena, mentre se ne andava via… lasciandosi dietro una lunga scia!
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.................................... NANAK ..........................................
Scaldata dal Sole, sorvegliata dalla Luna e spinta dal tiepido Puvangèrtek, Kratùna girovagò in lungo e in largo per la banchisa, senza meta alcuna. Non aveva idea di dove si trovava e non sapeva
da che parte andare. Assorta nei suoi foschi pensieri, non s’avvide del pericolo incombente: un orso bianco, affamato sicuramente!
“Grugn… grrr, groar… grugn!” grugniva il bestione.“Screek… crack… patatrac!” scricchiolava il pack (14) sotto il suo peso bestiale, mentre gli unghioni, lunghi e affilati, lo
scalfivano.
“Tu-pum… ta-tum, ta-tum… tu-pum!” Così batteva il cuore di Kratùna… che con gli occhi cercò la Luna! Poi si voltò… e il bestione affrontò!
“Tsidagaynguduana (15) !” gridò con quanto fiato aveva in gola al plantigrado, guardandolo dritto negli occhi iniettati di sangue. E lo soggiogò, lo ammaliò, lo incantò e lo ipnotizzò all’
istante.
Poverino! Divenne docile come un agnellino!
Bofonchiando, il signore dei ghiacci eterni le si accostò con andatura goffa e impacciata. Aveva l’aria di una bambina che aveva paura di affrontare la collera di mammina… dopo aver fatto la
birichina!
“Quanto sei grosso!” esclamò Kratùna, solleticandogli il pancione. “E come sei caldo!” aggiunse, toccando il rigonfio delle sue tettine, stracolme di latte.
Era una femmina, una disperata mamma orsa che aveva perso i propri cuccioli mentre si trovava a caccia. Non li allattava da ben due lune e aveva latte in gran quantità.
“Ti chiamerò… Nanàk!” le disse. “Ti piace… Nanàk?” le ripeté, destandola dal torpore in cui l’aveva precipitata. Ed essa, che aveva capito le sue buone intenzioni, non osò nemmeno pensare di far
male a quella dolce creatura… con la quale condivise parte di quest’avventura!
Insieme ripresero il viaggio, camminando l’una accanto all’altra. E guardavano nella medesima direzione, ma con diversa motivazione: in cerca dei suoi cuccioli, l’orsa; di una slitta o di un
villaggio, la piccina.
Camminarono finché piedi e zampe consentirono loro di andare avanti; poi si fermarono fra due costoni di ghiaccio, al riparo dalla violenta tempesta che il gelido Nekràyak annunciò, sibilando
forte.
“Sarà meglio scavare una buca e ripararci!” pensò Kratùna ad alta voce.
“Grugn… grugn…” grugnì l’orsa, facendo su e giù con la testa: aveva capito le sue parole. E in un tic, tac e voilà… la buca ecco qua!
“Ma brava! Complimenti!” esclamò la piccina… facendole tenera carezzina! Poi si accovacciò fra le sue forti zampe, sotto il pancione, come fosse uno degli adorati cuccioli, e succhiò un po’ di
quel latte, caldo e nutriente.
“Com’è buono! Che sollievo!” esclamò poco dopo, sazia. Anche per l’orsa fu un sollievo, che così svuotò in parte le gonfie tettine… mentre voi, cari bambini, di gioia battete le manine!
continua....
........
N O T E
9) Mostri marini leggendari. Nella tradizione popolare Inuìt, Spiriti del Male. A sfiorarli danno la morte. Chi
muore per colpa loro, diventa uno spirito egli stesso, grosso modo come accade per i vampiri, leggendari mostri della Transilvania.
10) La luna. Insieme al sole -Tserè - è considerata uno spirito buono perché si mostra agli uomini. Per gli
eschimesi Inuìt, essi sono fratello e sorella.
11) Spiriti buoni del mare, rappresentati anche da bellissime sirene, che dei mari e dei naviganti sono eterna
leggenda, fin dai tempi di Ulisse. Nessuno mai, però, ne ha visto una.
12) Tiepido vento di sud/est, il primo; gelido il secondo, di nord/est.
13) Stivali di pelle di foca
14) Altro modo per definire la crosta ghiacciata della banchisa polare.
15) Espressione del tutto indecifrabile, che non si trova più nelle tradizione popolare eschimese. Stizza,
collera, imprecazione, una parolaccia, comunque.
KRATUNA
la figlia della luna
3^ PARTE
.......................................... KRARTUDUK ....................................
Tempo dopo, passata la bufera di neve e vento, Kratùna e Nanàk ripresero il cammino. Vagando da Nord a Sud e da Est ad Ovest, si ritrovarono in una zona verde, ricoperta di muschio, licheni e
piante nane.
“Forse troveremo da mangiare, qui!” pensò Kratùna… sui cui passi vegliava la premurosa Luna!
“Ham… grunf… mang!” brontolò Nanàk, che ormai capiva al volo i pensieri della compagna di viaggio.
Per l’orsa fu facile rimpinzarsi, non altrettanto per la piccina, che, pur tenendosi sulle punte e allungando le manine, non riusciva a cogliere i frutti che penzolavano dai rami degli
alberi.
“Uffah… aye… gasp!” gridava ad ogni tentativo, saltando inutilmente verso i rami.
“Non ci arrivo! Proprio non ci riesco!” si lamentava ad ogni salto. Ma non poteva fare altro, ovviamente, per cui si rassegnò a morir di fame, inevitabilmente! Ma…
Mamma orsa la guardò, comprensiva, e si diede da fare: poggiò la forte schiena sul tronco di un albero e vi si strofinò sopra, senza delicatezza alcuna… facendo ridere Kratùna e perfino la
Luna! Però, conseguì lo scopo.
Dall’albero vennero giù frutti in quantità… e la piccina ne mangiò a volontà!
“Grazie, Nanàk cara!” le disse, con la bocca piena di succosi frutti… cui seguirono alcuni fragorosi rutti! Cosa di cui non si vergognò. In quel tempo, infatti, nessuno conosceva certe regole
di buona creanza.
Rifocillata e appagata, Kratùna dimenticò le cose brutte e si lasciò prendere dai ricordi belli. Uno in particolare le fece venire voglia di canticchiare una vecchia nenia, la stessa che
l’amorevole mammina le cantava se faceva la birichina… addormentando in fretta la sua piccina!
NINNA NANNA ESCHIMESE
Egli è rotondo e splendente
come un ghiacciolo nell’acqua,
salta, corre, ondeggia e gioca
come un ghiacciolo nell’acqua.
Alza gli occhi e guarda,
guarda il ghiaccio nell’acqua!
In alto c’è la nebbia
e in basso c’è il Sole,
eccoti coricata al Sole,
lontana dalla nebbia.
Tu mi sembri una scodella,
una vecchia scodella di legno,
una scodella di legno
che tutta… tutta mangerei,
una dolce scodella di legno
che tutta… tutta leccherei:
aum… gluk! Gluk… aum!
Com’è dolce la mia piccina,
gnam… gnam…. gnam,
com’è buona la mia bambina,
gnam…gnam…gnam,
or se la mangia la sua mammina.
Ogni volta che mamma Kara gliela canticchiava… alla fine il bianco pancino le mordicchiava! Per cui, avendo vicino la mite Nanàk, fece la stessa cosa con lei.
“Grunf… che bell! Grunf… grunf!” grugnì l’orsa, contenta. E subito le si chiusero gli occhi, coinvolgendo anche la bambina.
Passarono pochi istanti solamente, quand’ecco levarsi nell’aria un fastidioso gracchiare… che non le permise di riposare! L’orsa invece nulla sentiva… e beata dormiva! E come russava!
Sembrava un trattore!
“Krark... kra, kra... krark!” ripeteva senza sosta un nero corvo dalla cima dell’albero, sotto al quale riposavano l’orsa e la piccina.
“Zitto, taci, ti prego, bellissimo kràrtuduk!” lo supplicò Kratuna, fissandolo con quegli suoi ammalianti.
Povera bestiola! Nessuno mai, fra i suoi simili, gli aveva fatto un complimento così… così… così dolce! Arrossì, in fondo al suo cuoricino, felice dell’apprezzamento, e perse la testa per
quella bambina… che guardò come fosse la sua mammina! Oltre a perdere la testa, però, il nero kràrtuduk perse pure l’equilibrio e cadde giù, a picco su di un sasso, spezzandosi il
becco.
“Krai… krai!” gracchiò di dolore il corvo, lamentandosi come un bambino che si è fatto la bua.
Dispiaciuta per l’accaduto, Kratùna lo prese fra le sue amorevoli braccia e lo confortò, coccolandolo, come fosse un neonato. Poi strappò un lembo della resistente anorèk (16) che teneva
sotto il pesante giaccone, ne fece una benda e gli fasciò il naso sanguinante, dandogli pure un bacino, che bene lo fece sentire, all’ istante!
“Va meglio, adesso, mio bel kràrtuduk?” gli chiese, felice di vederlo di nuovo vispo e gaio, desideroso di volare via. Questo pensò Kratùna, ma si sbagliò. Infatti, un istante dopo averlo
lanciato in aria, se lo vide ritornare sul braccio. Altro che andare via! Provava per quella piccina una simpatia tale…che la seguì, guardingo e fiero, come fosse un’aquila reale!
-------------------------------------- KRATSERE’ ---------------------
Malgrado la calma apparente, caratteristica unica della banchisa e di quei luoghi incontaminati, le insidie erano sempre in agguato. Le più pericolose, a parte i lupi e gli orsi, erano
rappresentate dai krimudaduìt (17) .
Improvvisi e deleteri, come fulmini a ciel sereno, si aprivano sotto i piedi delle persone e le zampe degli animali, ingoiando le slitte dei cacciatori e perfino intere mandrie di caribù.
Nemmeno la scaltra ed agile volpe bianca riusciva a farla franca.
Kratùna sapeva per certo che tali voragini divenivano più insidiose dopo una bufera di neve, ragion per cui procedette lentamente, guardinga. Nanàk la precedeva, tastando con le zampe il
pack, che graffiava qua e là per saggiarne la compattezza. Dall’alto, il nero kràrtuduk controllava se c’erano altri pericoli, che così annunciava ai compagni di viaggio: “Krark… krark…
krark!”
Gracchiò forte, il corvo, improvvisamente, mettendo in allarme l’orsa e la piccina. Che non vide alcun pericolo incombente, anzi, aguzzando lo sguardo, in lontananza vide la bianca scia di
ghiaccio frullato, che una slitta si lasciava dietro.
“Ayehhh… sono salva!” gridò Kratùna, raggiante. E, per farsi vedere dal conducente, saltò in groppa a Nanàk, urlando e gesticolando. Ma quando la slitta fu a un centinaio di metri da loro, il
conducente, un vecchio cacciatore dalla vista corta, cambiò direzione.
“Non guardarli! Tira dritto!” disse il cacciatore a se stesso, allontanandosi velocemente, folle di paura!
Era certo d’aver visto un mostruoso tupidèk (18) .
(Non aveva tutti i torti, poveretto! Chiunque avrebbe fatto così, cari bambini! Anch’io, che ben conosco quei posti e le abitudini degli eschimesi. Ma dovete sapere che, oggi come allora, per ignoranza o stupida superstizione, i corvi sono considerati portatori di sventura a causa del loro funereo piumaggio. Se a tutto questo aggiungiamo il fatto che Kratùna era in groppa a Nanàk, ad urlare e gesticolare come una demente… fece davvero bene il cacciatore a fuggire via velocemente!)
Delusa e amareggiata, Kratùna saltò giù dal dorso di Nanàk e riprese il cammino, mogia mogia. L’orsa non grugnì né bofonchiò; il nero kràrtuduk tenne il becco chiuso per diversi chilometri, e
la delusa piccina aprì la bocca solamente appena vide, in lontananza, sopra un cocuzzolo, un iglù molto grande. Ed ancor più grande fu la sua costernazione, quando scoprì che era solamente un
ammasso di rovine.
Stanca com’era, si mise dietro alcuni blocchi di ghiaccio, per fare un pisolino. Il corvo e l’orsa, invece, si misero a girovagare nei dintorni, apprensivi, sentendo nell’aria una
minaccia.
Aveva appena chiuso gli occhi, la piccina, quando forte risuonò il gracchiare del corvo e il grugnire dell’orsa. Si sporse malamente dal costone… e volò giù, con un gran bel ruzzolone! Per
farsi meno male, si raggomitolò su se stessa. Così scivolò veloce, come una palla da bowling.
La corsa si arrestò qualche istante dopo, ma non contro dei birilli, bensì in mezzo ad un branco di lupi affamati. Ringhiando e sbavando, stavano per fare la festa ad un tremante coniglietto,
bianco come la neve, che mal celava il suo colore… per via dell’odore!
Fra le braccia se lo ritrovò la figlia della Luna… e quella fu del coniglietto la fortuna! Lei ne ebbe un po’ meno: nel tentativo di proteggerlo, cozzò contro un enorme blocco di ghiaccio,
che le fece spuntare un bernoccolo in fronte.
“Urca… che botta!” ebbe il tempo di esclamare.
Infatti, i lupi, sette in tutto, non le diedero nemmeno il tempo di riprendersi. Avevano sentito l’odore dell’orsa e dovevano fare in fretta. Per cui le si lanciarono addosso, senza indugio
alcuno, decisi a sbranare la bambina e il coniglietto, che al sicuro se ne stava nel caldo adàtsi (19) di Kratùna. Ma i loro occhi, feroci e fieri, incrociarono quelli buoni e dolci della
figlia della Luna, rimanendone soggiogati. E guardandovi a fondo, videro riflessa la loro proverbiale malvagità.
Spaventati dalla loro stessa naturale bestialità, i lupi fecero dietro-front-avanti-marcia, correndo velocemente in direzione delle loro tane. E non si fecero vedere più.
Mentre i lupi fuggivano, Nanàk e il nero kràrtuduk sopraggiunsero. Dopo aver controllato la zona, volsero gli occhi alla bambina e notarono il tremante musetto del bianco coniglietto, il cui
cuoricino prese a battere ancora più forte, terrorizzato dalla presenza dell’orso.
“Buono, piccolino, non temere! Ci sono io con te!” lo rassicurò, Kratùna, protettiva e comprensiva come solamente una brava mammina sa essere. Anzi, per fargli sentire quanto bene gli voleva,
lo spinse in fondo all’adàtsi, a contatto del proprio cuoricino, i cui battiti si fusero col suo. E così, finalmente, tutti furono più sereni.
Riprese il cammino, Kratùna, preceduta dalla guardinga Nanàk e dallo svolazzante kràrtuduk, un tantino gelosi del fatto che il coniglietto era divenuto il compagno prediletto. Ma compresero
il suo stato d’animo, visto che s’era preso un grosso spavento, e più non ci pensarono. Lui, invece, tenendo il musetto appena fuori dall’adàtsi, gioiva delle coccole che riceveva.
“Che cosa vuoi, mio bel coniglietto?” gli domandò, Kratùna, sentendosi osservata.
Inaspettatamente, il coniglietto protese il musetto verso il suo bel faccino e le diede un bacino sulle labbra, solleticandola con i lunghi baffetti che aveva.
“Eyak!” esclamò Kratùna, a quel contatto, piacevolmente sorpresa e divertita. “Non è che ti stai innamorando di me?” gli chiese, passandogli il medio sotto il musetto, tanto da farlo
sorridere.
Il coniglietto fece su e giù con la testolina, sbalordendola. Gli occhi di Kratùna si specchiarono in quelli della bestiolina… e cominciò a tremare come una fidanzatina!
Turbata dal bacino ricevuto e scossa dalla strana situazione in cui s’era venuta a trovare, Kratùna tentò di resistere allo sguardo radioso, lucente e penetrante del coniglietto, ma dovette
arrendersi. Pur non volendo, fu costretta, suo malgrado, ad abbassare lo sguardo per prima.
“Ayeh! Non è possibile!” esclamò, strofinandosi gli occhi, abbagliati dalla luce che era venuta fuori da quelli del coniglietto: una luce raggiante, penetrante, come raggi di Sole.
Memore della promessa fatta ai maschietti dei villaggi vicini e lontani, gli disse: “Non pretenderai di diventare il compagno della mia vita?” E il coniglietto, che sembrava capire le sue
parole, annuì più volte, facendo su e giù con la testolina.
“Non credo a quel che vedo!” esclamò Kratùna, ridendo della situazione. E, per finire, aggiunse: “Sei un tesoro ed hai pure un bell’aspetto… ma sei solo un coniglietto! Ti chiamerò kratserè
(20) , perché il Sole vedo in te!”
Dopo questa breve parentesi, il coniglietto, felice e contento, si rifugiò nell’adàtsi e se ne stette buono per tutto il tempo che seguì. Kratùna, felice e confusa, non sapeva più che cosa
pensare… mentre il cuore, sempre più forte sentiva pulsare!
(E mentre lei cerca di dare una spiegazione al cuoricino… noi la seguiamo lungo il suo tortuoso cammino!)
continua...
N O T E
16) Camicetta di pelle di
foca, molto larga e senza bottoni.
17) Stanno a significare
due cose: crepaccio o precipizio. Oppure, se riferito alla parte interna dell’ iglù, cavità dove conservare le provviste.
18) Feticcio realizzato
con bastoni unti di grasso, in cima ai quali viene infilzata la testa di una foca o di un orso. Serve a tenere lontani gli spiriti cattivi. Altra versione, di natura aborigena (eschimesi del
Quèbec), li identifica con esseri mostruosi, capaci di variare le proprie forme per ingannare gli uomini.
19) Giaccone con
cappuccio, cucito con pelli di foca e ricoperto di peli d’orso, all’esterno.
20) Caldo, caloroso come
il sole.
KRATUNA
la figlia della luna
ultima parte
T R A C
Diverse lune erano trascorse da quando l’avventura della sfortunata Kratùna ebbe inizio. Le cose non andavano per il verso giusto e la piccina, malgrado la compagnia dell’affettuosa Nanàk, del gracchiante kràrtuduk e del caloroso coniglietto, cominciava a perdere fiducia in se stessa. Seppur protetta dalla Luna, la fiamma della speranza non ardeva più come una volta. In fondo all’anima, pura e innocente, sentiva brividi di freddo.
(Ma il peggio deve ancora venire…)
La luce stava per cedere il suo splendore alle invadenti tenebre, che avrebbero reso più difficile il cammino e meno luminosa la via da seguire. Urgeva trovare una soluzione, ma di certo non
dipendeva da lei. Soltanto la Luna, come Spirito del Bene, poteva intervenire nei confronti della sua creatura… prima che incappasse in peggior sventura!
Strada facendo, il gruppetto si scompose. Non fu tutta colpa di Kratùna, che dedicava la maggior parte del suo tempo all’affettuoso Kratserè, ma del Destino… che ci mise lo zampino!
Nanàk ritrovò i suoi due cuccioli e con loro ritornò al proprio rifugio; il nero e simpatico kràrtuduk incontrò una bianca tortorella e la seguì fino al Polo Sud, dove costruirono il nido e
misero su una bella famigliola di strani volatili bianconeri; e la sfortunata Kratùna…
“Ed io?” si chiese, rimasta sola col coniglietto. “Che ne sarà di me? E di te, mio indifeso Kratserè?” Ma non ebbe il tempo di cercare una risposta: sotto i suoi piedi ci fu un improvviso crack…
e in un krimudaduìt precipitò con un sordo patatrac! Alla fine del volo si ritrovò in fondo al mare… dove gli Spiriti del Male la stavano ad aspettare!
Il freddo gelido dell’acqua e la botta presa in testa nel rotolare giù nell’abisso, le fecero perdere i sensi, tanto che più nulla vide e sentì. Il suo ultimo pensiero fu per l’amato coniglietto…
al quale diede un ultimo bacetto! Poi fu il silenzio a gridare di terrore, nel veder spuntare i ripugnanti Amontortòk e Ungatortòk.
“Eccoti qua, finalmente!” esclamò il primo, avvolgendola con i suoi viscidi tentacoli.
“Forse sei la prediletta dalla Luna… ma a quanto pare non ti ha portato fortuna!” le disse, ridendo degli Spiriti del Bene, suoi eterni rivali.
“Voglio i suoi occhi, padre!” implorò Ungatortòk. “Il suo potere è tutto lì! Lascia che glieli strappi e mangi!”
“Aspetta, figlio caro!” rispose Amontortòk. “Diamole il tempo di riprendere i sensi e poi le faremo vedere la fine che farà.”
Mentre in fondo al mare accadevano i fatti sopra descritti, in cielo c’era chi vegliava sul destino della sua bambina: la Luna! E il Sole, che tanto… ma tanto bene voleva alla sorella. Per lei,
era disposto a fare qualunque sacrificio. Voleva che la sua vita fosse sempre serena e bella… anzi dolce, come una caramella!
Il tempo passò, ma il corpo di Kratùna non dava segni di vita. Stufi di aspettare, padre e figlio strattonarono la bambina, decisi a farla finita, una volta per tutte.
“Parola mia, non rivedrai mai più il Sole e nemmeno la Luna!” promise Amontortòk.
“Maledirai il giorno in cui sei nata!” sbraitò Ungatortòk.
Dopodichè, padre e figlio diedero inizio a un violento “tira di qua e tira di là”, finché dall’adàtsi, strappatosi a metà, del bianco coniglietto… venne fuori il musetto!
“E questo che cos’è?” si chiesero padre e figlio, che mai ne avevano visto uno prima di allora. Ragion per cui ebbero un attimo di perplessità… rimanendo a bocca aperta, come due grossi pesci
baccalà!
Dagli occhi del coniglietto, luminosi come il Sole, vennero fuori raggi di luce abbagliante, accecante.
“Padre, dove sei? Non ti vedo più!” gridò Ungatortòk, spaventato.
“Fuggi, figlio mio, fuggi più lontano che puoi!” urlò Amontortòk, terrorizzato. “Questa è opera degli Spiriti del Bene! Fuggi, figliolo caro, e non voltarti mai!” gli disse, strattonandosi l’un
l’altro. Poi scomparvero in un baleno… più veloci di un treno!
Il coniglietto strinse fra i denti un lembo di pelle del giaccone di Kratùna e la riportò in superficie, nuotando veloce e aggraziato come un delfino. Poi la trascinò fino alla
banchisa.
E mentre nuotava… un bel giovanotto diventava!
“Brava! Complimenti!” disse il Sole alla Luna. “E così hai trovato anche il compagno alla tua Kratùna!”
“Non dimenticare mai, fratello caro, che noi siamo Spiriti del Bene” rispose la Luna.“Ed ora gustiamoci il lieto fine di quest’avventura… per la gioia della mia creatura!”
(Spero concorderete anche voi, cari bambini… tutti belli e carini, ma troppo spesso birichini!)
Giunti sulla banchisa, Kratserè, per volere della Luna, dimenticò di essere stato un coniglietto. Poi, con fare dolce e gentile, massaggiò il corpo della fanciulla e la scaldò col calore che gli
usciva dagli occhi, riportandola in vita.
“Chi sei? Dove sono?” chiese al giovanotto che la fissava dritto negli occhi, rimanendone calamitata. Ma non ci fu bisogno di risposta. Il cuore prese a battere forte, le guance s’ infiammarono e
un fremito la percorse tutta, dalla testa ai piedi, creando un vuoto nello stomaco. Ma non erano brividi di freddo quelli che sentiva, bensì di novella fiamma: l’AMORE!
Sostenne il suo sguardo, dolce e penetrante… solo per qualche istante! Poi fu costretta ad abbassare gli occhi, soggiogata, ammaliata, incantata e ipnotizzata da quelli dello sconosciuto. Eppure,
in cuor proprio, era certa d’aver già visto quegli occhi così dolci e radiosi, caldi raggi di Sole.
“E’ questo, dunque, l’uomo della mia vita?” si chiese, dolcemente rapita. Ed anche stupita! In men che non si dica, infatti, s’era innamorata perdutamente di quel giovane, tanto che si pizzicò le
guance qua e là… per constatare se viveva in un sogno o nella realtà!
(Qui finisce il sogno di Kratùna ed ogni altro patimento… per far posto ad un finale che spero sia di vostro gradimento!)
“Ayeh, che male!” esclamò Kratùna, sentendo bruciare le guance. E, aperti gli occhi, si guardò intorno: era nel kayàk di papà! Incredibile… ma vero!
Un po’ più in là, Amìk se ne stava chino sulle fiocine e controllava le esche. Il mare era una tavola e nessun tugartugu vi galleggiava. In lontananza vide due delfini piroettare sui dorsi di due
maestose orche, ma non vide la sirena, ovviamente, che aveva avuto l’ordine di non mostrarsi mai ai mortali, altrimenti sarebbe diventata uno scorfano di mare.
“Un sogno! E’ stato solo un sogno!” pensò. “Peccato, era così bello (riferito al bel giovane, ovviamente), malgrado i tanti pericoli attraversati!”
Mentre lei se ne stava assorta in questi pensieri, un giovanotto sbucò alle sue spalle, emergendo dal nulla che circondava il silenzio della banchisa. Era uno come tanti… ma aveva due occhi
brillanti.
“Tivagatsè!” disse alla fanciulla, che, presa alla sprovvista, trasalì di paura, in un primo momento… e poi di sgomento!
“Tivagatsè!” rispose, girandosi. E ne incrociò gli occhi. Nei quali sprofondò, anima e corpo, soggiogata, ammaliata, incantata e ipnotizzata, come nel sogno. Che tale non era, questa volta.
Per lui fu amore a prima vista; per lei fu un trac (21) violento, bello e indescrivibile: s’ impadronì del suo cuore all’ istante… tanto che lo sentiva battere qual cavallo scalpitante!
“Il mio nome è Kratserè!” le disse. “Qual è il tuo, deliziosa creatura?” le chiese, facendola arrossire.
“Kra… Kra… Kratùna!” riuscì a dire, balbettando. E abbassò gli occhi, incapace di sostenere il suo sguardo.
Amìk vide il giovanotto e la felicità sul volto della figlia, per cui si attardò a sbrigare quello che stava facendo. Anzi, non volendo disturbare i due piccioncini, fece un buco nel pack e si
mise a pescare colà… gioendo di quella bella realtà!
Passarono giorni e notti… Luce e tenebre si rincorsero… Kratùna e Kratserè, ormai grandi, divennero compagni di vita.
Col permesso di mamma Kara, papà Amìk e il favore della Luna, se ne andarono a vivere in un iglù tutto loro… dove venne alla luce, tempo dopo, un piccolo tesoro!
Kratùna divenne mamma e Kratserè papà; i capelli di Kara e Amìk imbiancarono, perché nonni diventarono; Karina, non potendo farsi vedere, chiese agli Spiriti del Bene di essere trasformata in
bianco coniglietto e portò in dono alla mammina alcune ostriche con dentro le perle; il Sole illuminò il loro cammino e la Luna vegliò sulla sua creatura… preservandola da ogni sventura!
… e tutti vissero felici e contenti!
MORALE DELLA FAVOLA
Anche voi, cari piccini, vivrete sempre felici e contenti, se leali sarete con amici e parenti. E se la sera, prima d’andare a dormire, vi laverete i denti… il mattino dopo vi sveglierete più freschi e sorridenti!
LA LEGGENDA DI SEDNA (22)
(le origini delle diverse razze)
“Antica leggenda eschimese narra di una donna che osò sfidare i tabù e le convenzioni della comunità in cui viveva, rifiutando il compagno impostole. Arrabbiato, il genitore la costrinse a unirsi
ad un uomo-cane e la mandò a vivere con lui in un’isola remota, dove partorì quattro bimbi di colore diverso: due maschi e due femmine.
Preso dal rimorso, il genitore si recò sull’ isola e uccise l’uomo-cane. La figlia la lasciò lì, tutta sola. I bambini furono messi, a coppia, in due diversi stivali di pelle di foca e affidati
alle correnti marine. Trascinati al largo, dopo qualche tempo approdarono in due diversi punti della Terra. Crescendo, diedero origine a due razze: la bianca e la indigena, dal colore, cioè,
della pelle che avevano.
Desiderosa di un compagno, la donna fuggì dall’ isola col primo uomo che passò da quelle parti; sembrava un brav’uomo, premuroso e gentile, tanto che la prese fra le braccia e se la portò via col
suo kayàk. Sul viso, per celarne il naso, gli occhi e la bocca, l’uomo portava una vistosa fasciatura. Quando furono in mezzo al mare, l’uomo se la tolse e le mostrò la sua vera natura: era un
fulmar! (23)
La fanciulla, terrorizzata, si mise ad urlare. Il genitore la sentì e corse in suo aiuto. Uccise il fulmar, prese la figlia e fuggì via. Ma il fulmar era immortale e, rinato a nuova vita, mosse
contro il kayàk di padre e figlia, agitando le ali così forte da generare una tempesta Per non affogare, il genitore scaraventò in mare la figlia, che si aggrappò al kayàk, supplichevole. Ma lui
la colpì col remo, tagliandole le prime falangi delle dita, che, finite in mare, divennero foche. Di nuovo la figlia s’aggrappò al kayàk, supplicando, ma il genitore le tagliò le seconde falangi;
finite in mare, si trasformarono in trichechi.
Ostinata, la figlia s’aggrappò nuovamente al kayàk con le ultime falangi, ma il genitore le tagliò pure quelle; cadendo in mare, si trasformarono in orche, balene e delfini.
Anch’ella s’ inabissò, poco dopo, divenendo uno Spirito del mare, forse una delle Inertevàt. Il padre, invece, fu punito della sua cattiveria: venne ucciso dalla tempesta. Il suo corpo finì negli
abissi e la figlia lo trasformò in Spirito del Male, come i mostruosi Amontortòk e Ungatortòk, padroni dei neri abissi.”
N O T E
21) Emozione, sgomento e, a
seconda dei casi, paura e timore.
22) La leggenda di Sedna, o
Taleelayuk, vuole gli eschimesi di due razze: bianca e indigena.
23) Uomo uccello della
mitologia canadese, malvagio e sanguinario.
ROMA 1992 : HOTEL RITZ -
Cerimonia di presentazione del libro
"IL RITORNO DELLE FATE "
Edizioni PASSAPORTO DUEMILA
Madrina e sponsor la FATINA d' ITALIA - MARIA GIOVANNA ELMI .
IL RITORNO DELLE FATE
C’era una volta un mondo irreale dove i bambini vivevano felici e spensierati: il Regno delle Fate. Grazie a loro, che conoscevano più di un miliardo di favole, i bambini
crescevano all’insegna di sani principi morali, per cui vivevano felici e contenti. Qualche tempo dopo, però, a causa dell’evoluzione
tecnologica, le favole furono sostituite dai cartoni animati computerizzati, belli e accattivanti, ma con robots scontrosi e violenti. E i bambini, diseducati da quelle visioni, divennero tanti
video-dipendenti, anzi, dei piccoli robots.
Sentendosi inutili, le adorate Fatine chiusero i libri di avventura e se ne tornarono alla montagna della dimenticanza… ora che la fantasia non aveva più alcuna importanza!
I giorni, inseguiti dai mesi e rincorsi dagli anni, passarono velocemente, finché giunse il momento di porre riparo ai danni, urgentemente!
Sulla Terra accadde un evento catastrofico: tutti i pozzi di petrolio seccarono! Non essendoci energia alternativa, a parte quella nucleare, bandita da molti popoli perché ritenuta
pericolosa, ci fu un totale black-out: aerei, navi, treni, macchine, frigoriferi, radio e t.v. non funzionarono più! La vita fece un brusco ritorno al passato… a cui nessuno era ormai
abituato!
Per i grandi fu duro rimboccarsi le maniche, ma per i bambini fu una vera tragedia, difficile da accettare: la televisione sempre spenta, erano costretti a guardare!
“Mamma, papà, che facciamo? Come passiamo il tempo libero?”, chiedevano ai genitori da mattina a sera. E si ammalarono di noia, senza che nessun dottore riuscisse a trovare la giusta
medicina.
Ma c’era, nel Regno delle Fate, chi vigilava sulla loro felicità: Fantastichina… di quel regno la Regina! Per suo volere, le Fate ritornarono sulla Terra e i libri delle favole furono
riaperti. Le mamme, i papà, e molti nonnini ripresero così una vecchia e sana consuetudine: narrare favole ai pargoletti… che guarirono dalla noia e saltarono giù dai letti!
I giorni, cui seguirono mesi e anni, divennero lieti. Inoltre, molti giochi dei tempi andati, che gli amati nonnini avevano tramandati, passarono ai bambini. Le Fate se ne rallegrarono e un
fantastico mondo a loro regalarono. Così tutti vissero felici e contenti in un mondo privo di elettricità… ma più ricco di serenità!
MORALE DELLA FAVOLA
Una mela al giorno leva il medico di torno… ma le favole sono il miele d’ogni giorno.
VANITA‛
QUANDO IL DESTINO… CI METTE LO ZAMPINO!
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“Gli eventi narrati in questa vicenda, in parte sognata, risalgono al tempo in cui l’Uomo non aveva ancora messo piede sulla Terra ed il pianeta era popolato solamente dagli animali. Non c’ero
nemmeno io, ovviamente, ma Qualcuno si è servito di me, ben conscio della mia “vanità”, e ha voluto darmi il modo di trasformare in fantasia... ciò che offusca la mente mia!”
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In una delle tante floride foreste del pianeta Terra, al riparo di ogni pericolo e circondati da alberi dai frutti nutrienti e succosi, viveva un gruppo di vivaci scimpanzé. Dal levar del sole al
calar della sera, essi scorrazzavano tra le cime degli alberi, quasi volando, e si rincorrevano, giocosi, aggrappati alle liane che pendevano dai grossi e robusti rami.
Al limitar della foresta, prospera e sicura, si stendeva la savana, arida e oscura, insidiosa, regno incontrastato dei leoni. Chilometri di terra arsa dal sole e battuta dai venti, dove non
crescevano alberi né sbocciavano fiori. Un vero inferno per gli animali costretti ad attraversarla durante le migrazioni, a causa della siccità. Per contro, quando le piogge cadevano, rare ma
copiose, si trasformava in un prato rigoglioso, a tratti paludoso, dove rimanevano intrappolate, a volte, timide gazzelle, pavidi gnu, cuccioli di elefante e perfino degli stessi leoni, che
spesso li vedevano scomparire nelle sabbie mobili, oppure tra le fauci di voraci predatori: gli squamosi coccodrilli o le viscide anaconde.
Nella fitta foresta, gli scimpanzé conducevano una vita beata. Gli alberi fornivano teneri germogli e frutti d’ogni genere. Nonostante ciò, però, più di uno era finito nella pancia dei leoni, che
non disdegnavano le loro carni quando la fame si faceva sentire… e le gazzelle erano così veloci che non sempre le si poteva ghermire!
Non fu colpa dell’ennesima disgrazia a convincere il capo branco a prendere provvedimenti, ma la consapevolezza di poter perdere prestigio agli occhi dei sudditi.
“Uno di voi, a turno, dovrà fare la guardia!” disse ai maschi del branco, raccoltisi in cerchio attorno a lui. “Qualcuno di voi si offre volontario?” domandò loro. Ma nessuno fece un passo
avanti.
“Quand’è così” esclamò, deluso, “sarà il Destino a decidere!” E, raccolto un ramoscello, lo lanciò in alto, seguendone il volo. Pochi secondi dopo ricadde sul gruppo, proprio sulla zucca del meno
indicato: Vanità!
Questi era un pavido, uno di quelli che se ne fregava delle leggi della jungla. Per lui, la cosa più importante era vivere senza assilli e tanto meno continue preoccupazioni. Sognava orizzonti
lontani e parchi immensi dove dialogare con animali di altre specie, e se ne andava in giro ricoperto di foglie colorate. Per farla corta, era un tipo eccentrico e trasgressivo, tanto che lo si
potrebbe paragonare a un artista del regno animale. E purtroppo, come accade spesso agli artisti incompresi, era sempre oggetto di scherno. Ma a lui poco importava… e di tutti se ne
fregava!
“Seguimi!” ordinò il capo branco, imperativo e dubitativo. E Vanità obbedì, infischiandosene dei rischi cui andava incontro, felice di rimanere solo. Anzi, restando solo, finalmente avrebbe avuto
l’occasione di mettere in atto il piano segreto che covava dentro da parecchio tempo: fuggire lontano!
“In caso di pericolo immediato, sai cosa fare, vero?” chiese il capo, riportandolo alla realtà con una zampata sul fondoschiena.
“Sì… certo… so cosa fare… ovviamente!” rispose Vanità, che in testa aveva ben altro.
Pochi attimi dopo si ritrovò solo soletto dietro un folto cespuglio, con la foresta alle spalle e la savana di fronte. Il pericolo, infatti, poteva venire solamente da lì.
“Ah, che bello!” esclamò appena il capo si dileguò. E si preparò un comodo giaciglio, in attesa di potersi godere fantasmagoriche albe e rossi tramonti, che lo saziavano più di un casco di
banane. Ma il pericolo era in agguato, purtroppo per lui.
Un leone affamato aveva fiutato la sua presenza ed ora era già lì, a ridosso del cespuglio, pronto a saltargli addosso.
“Groar… groarr…” ruggì forte il leone, che, superato il cespuglio con un balzo, afferrò lo scimpanzé.
“Ohibò, come sono sfortunato!” si lamentò Vanità. E levò gli occhi al cielo, attratto dal volo di un’aquila, invidiandone la fortuna che aveva nel potersene stare lassù… ben lungi dai pericoli di
quaggiù!
Ma il Signore dei Destini del Mondo fermò la scena, come fosse la pellicola di un film, dicendo: “Non meriti questa fine, piccolo mio! Sei troppo buono! Perciò ti concedo di vivere e diventare
ciò che desideri!”
Sulla Terra, nel punto in cui il leone stava per banchettare con le carni dello scimpanzé, apparve una vaporosa nuvoletta che avvolse la dolorosa scena… facendoci sperare in una seconda parte più
serena!
LA MAGIA CHE OGNUN S’ASPETTA… ORA FA LA CARA NUVOLETTA!
“Aquila! Voglio diventare un’aquila!” gridò lo scimpanzé alla voce che proveniva dall’aldilà, bloccando il leone, che nulla capì.
Puff… bum… op-là, fece la nuvoletta in tutta fretta, mutando lo scimpanzé in maestosa aquila.
“Così sia!” decretò da lassù Qualcuno, lasciando scorrere la pellicola della vita terrena. Poi riprese il suo da fare.
Sulla Terra, intanto, il leone, confuso e fuso, guardava la preda che aveva tra le zampe: non credeva… a ciò che vedeva!
Felice, invece, era Vanità, che diede un’occhiata al suo nuovo look, trovandolo superbo; poi beccò il leone sull’ ispido nasone e si liberò dalla sua graffiante presa.
Il leone, stravolto dai fatti e dolorante per la beccata presa, fuggì velocemente con la coda tra le zampe, mortificato. Vanità, invece, dopo alcuni punf e tonf sul terreno, imparò a volare, un
sogno anelato da sempre, ma che riteneva impossibile realizzare.
Per tutto il giorno spaziò nel cielo dipinto di blu, godendosi le bellezze del Creato. Sul far della sera, al calar delle tenebre, pensò che sarebbe stato meglio cercare un riparo e mettere
qualcosa nella pancia. La fame si faceva sentire.
Raggiunse i monti che svettavano all’orizzonte e vi trovò pure un accogliente nido, di cui si appropriò. La pancia, invece, non sapeva come riempirla: l’aquila voleva un coniglietto, ma lo
scimpanzé preferiva un casco di banane. Non trovando una via di mezzo, si rassegnò a dormire a stomaco vuoto, pensando:“ Una dormita… più bella rende la vita!”
Ma non sempre il risveglio è tutto rose e fiori… e la vita non è solamente a colori!
Erano passate poche ore solamente, quand’ecco giungere al nido la legittima proprietaria: un’aquila vera! E furente, dato che aveva mangiato poco e niente. Grosso tre volte Vanità, il rapace
guardò l’ intrusa e pensò: “Quasi quasi la spenno e la mangio!” Ma cambiò idea e la scacciò via malamente… beccandola ripetutamente!
“Ahia… basta… smettila!” urlò Vanità, cercando di difendersi. “E che diamine! Non si trattano così i propri simili!” le disse. Ma l’avversaria non l’ascoltò… e più forte di prima la
beccò!
Povera Vanità: spiegò le ali e spiccò il volo, sottraendosi all’ ira della rivale.
Dopo aver volato di qua e di là, la fame gli annebbiò la vista, le ali si chiusero e cadde giù… precipitevolissimevolmente!
Patapunf e splash! Solo questo si udì appena toccò il suolo. Infatti, finì in una fangosa palude, ammaccato, ma vivo!
“Urca… che botta!” si lamentò ad alta voce. Ma, purtroppo per lui, il peggio doveva ancora venire.
La caduta della falsa aquila fu seguita dagli occhietti famelici di una viscida anaconda e di un grosso pitone… ben decisi a papparsi quel prelibato boccone! Strisciando silenziosamente, i due
rettili mossero verso Vanità, ma un cucciolo di coccodrillo, che aveva voglia di giocare, azzannò l’anaconda ferendola gravemente, tanto che fu costretta a desistere dal seguire il pitone. Il
quale, nel frattempo, aveva raggiunto l’ ignara aquila; e subito l’avviluppò a sé, stringendola con forza tra le spire mortali, sempre più forte… fin quasi al sopraggiungere della morte! Ma
Vanità, consapevole di essere amato e ben voluto da Qualcuno, levò in alto lo sguardo, implorandone l’ aiuto.
Da lassù, pur avendo per le mani un lavoretto da completare, il Signore dei Destini del Mondo intervenne in fretta… inviando sulla Terra la magica nuvoletta.
Puff… bum… op-là… questo episodio finisce qua.
LUNGO E TORCIGLIONE… ECCO VANITA’ PITONE!
“Come lui!” pensò Vanità. “Voglio essere come lui!” implorò. E lo desiderò intensamente… con il cuore e con la mente!
Veloce si diradò la magica nuvoletta… e nel corpo di un lungo e grosso pitone si ritrovò l’aquila/scimmietta!
“Perché mi stringi così forte, fratello?” chiese Vanità al pitone, che allentò la morsa, allibito. Si guardò intorno, in cerca di qualcuno che gli desse una spiegazione, ma, all’ infuori di sé,
non vide altri. Per cui strisciò via… stravolto da quella magia!
A questi fatti avevano assistito, esterrefatti, gli abitanti di uno stagno lì vicino.
Croahhh… bruahhh… croahhh, gracidavano buffi rospi, verdi rane e timide raganelle… che gli occhi levarono alle stelle!
Libero dalla morsa, Vanità tirò un sospiro di sollievo e riprese fiato. Poi volse lo sguardo allo stagno e ai suoi stupefatti abitanti: “Uhm… che prelibati bocconcini!” pensò, da pitone qual era.
Ma lo scimpanzé dentro di lui ne provò nausea, ragion per cui strisciò via, seguito dalla Luna, che di solito porta fortuna a iellati e innamorati, ma anche ai viandanti, che grazie alla sua luce
fioca e fonte di magia… non perdono la retta via!
Vanità, invece, si lamentava peggio di una vecchia zitellona… che in gioventù era stata una farfallona!
Verso l’ alba, stanco e sempre più affamato, si mise a cercare da mangiare… ma non c’era una sola cosa che gli piacesse ingoiare!
Poveretto! Doveva lottare contro le voglie del pitone in cui si era trasformato e quelle dello scimpanzé che era dentro di sé.
“Se non mi ucciderà la fame, di sicuro morirò per colpa dei miei simili!” Questo pensò Vanità, che finalmente cominciava a capire qualcosa sulle leggi della jungla a cui apparteneva, ma delle
quali ben poco sapeva.
Affranto e disperato, strisciò tutto il giorno in cerca di cibo, ma niente era di suo gradimento. Comodo trovò, invece, nella tana di un coniglio, il suo caldo giaciglio, dove cercò di
riposare.
La vita della jungla, però, non è confortevole come lo stare in un comodo giaciglio… bensì un continuo periglio! Infatti, aveva appena chiuso gli occhi, quand’ecco arrivare una mangusta, nemica
dichiarata di tutti i serpenti del mondo. Senza tanti complimenti, afferrò il pitone e lo trascinò fuori dalla tana, decisa a papparselo. Ma lo scimpanzé non fu d’accordo, ovviamente.
“Che vita d’ inferno!” pensò, l’amareggiato Vanità. E in alto lo sguardo levò, supplichevole, desideroso di cambiare look ancora una volta.
Da lassù, tralasciando il delicato lavoro che aveva per le mani, Qualcuno, suo malgrado divertito dalle peripezie dello scimpanzé , intervenne in tutta fretta… mandando giù la magica
nuvoletta!
La terrena scenetta avvolse la nuvoletta, che queste parole disse a Vanità: “Piccolo vanitoso, perché non sei mai contento? Orsù, dai, decidi in fretta in che cosa vuoi essere trasformato… ma non
rimpiangere mai d’essere quello per cui sei nato!”
Vanità ebbe una visione: i buffi rospi, le verdi rane, le timide raganelle e lo stagno dove vivevano felici e contenti. E desiderò divenire uno di loro.
Puff… bum… op-là, fece la nuvoletta… accontentando ancora una volta la scimmietta!
continua...
Nel febbraio del 1993, dopo accurata selezione, il quotidiano "LA SICILIA" sceglie questo racconto come metafora sulla MAFIA e lo pubblica nell'inserto "VIVERE", arricchendolo con i disegni del pittore SANTO DI GRAZIA.
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IL FALCONE DI MONTAGNA... E IL CARRUBO DI CAMPAGNA!
In cima ad una delle tante vette dei monti Nebrodi, ai cui piedi, in dolce armonia con la Natura, ridenti pianure abbracciano colline lussureggianti, viveva un falcone strano e
solitario.
Strano, in quanto non uccideva i suoi simili, anzi, difendeva i più deboli dagli attacchi di altri predatori.
Solitario, perché quel modo di fare gli aveva creato un mare di nemici, compresi quelli della sua stessa specie.
Nella pianura sottostante, ricoperta di verde e rigogliosa d’alberi, frutti e fiori multicolori, c’era un lembo di arida terra, dove, tra massi ed erbacce, svettava un carrubo gigantesco. Era
vecchio ed aveva i rami piegati dalla furia del vento, ma, impavido com’era, se ne stava là, ad ammirare i rossi tramonti che sfumavano dietro i monti e a rinfrescare quelli che si fermavano
sotto la sua invitante ombra. E dato che a quel tempo gli uomini e le bestie non avevano molto da mangiare, li nutriva con i suoi dolci frutti. Oltre a tutto ciò, esso fungeva pure da ritrovo
e riparo per fringuelli e usignoli, che, tra una beccata ai frutti ed un canto accattivante, attiravano le compagne per mettere su il nido! Quanta serenità!
Ma un brutto giorno, dalle viscere della terra vennero fuori dei voraci vermi e fu la fine della tranquillità. Il verde rigoglioso della campagna scomparve, divorato nel giro di poche ore;
fringuelli e usignoli fuggirono lontano, lasciando solo il carrubo, che solo si ritrovò di fronte ai nemici.
I vermi lo assalirono, ricoprendolo come un mantello di nebbia infida, dando inizio al lauto banchetto. Il carrubo, malgrado la tenace resistenza opposta, ben presto dovette arrendersi.
Quanto soffrì per la perdita delle sue care ed amate foglie, nonché la secolare corteccia. Sembrava che tutto fosse perduto, quand’ecco giungere, ad ali spiegate, il falcone di
montagna.
Grazie ai micidiali artigli e al becco aguzzo, in breve costrinse i vermi a ritornarsene sottoterra. Così la tranquillità tornò a regnare e gli amici del carrubo rioccuparono le amate fronde.
Alcuni mesi dopo, il verde riesplose, più rigoglioso di prima.
Il falcone di montagna poteva finalmente ritornarsene alle sue vette, ora che il pericolo era passato, ma preferì rimanere colà, tra le fronde, con fringuelli e usignoli, pronto a difenderli
in caso di pericolo. E tutti ne apprezzarono il gesto, per cui vissero felici e contenti.
.............................. MORALE DELLA FAVOLA ................................
Per vivere sereni in seno alla Società… ci vuole coraggio e lealtà!
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Un raccontino che scrissi
da bambino, in V elementare, ovviamente poi perfezionato con la maturità. Era così bello e mi piaceva così tanto che lo tenevo sempre con me, per non perderlo.
TIMIDINO
In un paesino della Sicilia meridionale,
cullato da valli e monti, ma lontano dal mare e dal progresso, viveva Timidino.
La sua casa era una grotta, fredda e
inospitale,
dove teneva un focherello sempre acceso, d'inverno.
Viveva di elemosine, anni di stenti e privazioni... ma non privi di emozioni!
Nulla avendo con cui giocare, trovava sfogo nella fantasia, dono di Madre Natura, che gli consentiva perfino di “volare”.
Quando ne sentiva il bisogno, Timidino raggiungeva un carrubo lì vicino, vi si arrampicava fino alla cima più alta e da lassù… sognava di toccare il cielo
blu!
E fantasticava per ore ed ore... sognando una vita migliore! Solo così era felice davvero.
Questo era possibile durante le belle giornate di sole; se pioveva, era costretto a starsene nella grotta.
Purtroppo, un giorno fu colto da violenta febbre influenzale… che lo fece stare proprio male!
Non avendo chi potesse prendersi cura di lui, rimase senza mangiare e senza bere per diversi giorni e notti, tanto che finì in coma. E si spense anche il
fuoco.
Mentre Timidino si trovava nell’ incoscienza totale, dallo spazio sbucò un U.F.O., meglio noto come disco volante, alla cui guida c’era un extraterrestre di nome
Alien.
Uno sciame di fulmini l'aveva colpito, tanto che rischiava di sfracellarsi sul nostro pianeta, nei pressi del paesino di Timidino.
“Forza, resisti, ancora un piccolo sforzo... dai !” disse all’oggetto volante con cui girovagava per le galassie. “Vedi di arrivare fino a quella grotta,
almeno!”
Malgrado il guasto l’avesse costretto ad un atterraggio di fortuna, l'astronave planò dolcemente, a pochi metri dalla grotta in cui Timidino era ridotto ad un
ghiacciolo, quasi!
Aleggiando, Alien uscì dal disco volante, si guardò intorno, vide la grotta e vi entrò.
"Per tutte le stelle" esclamò, rabbrividendo. " Ma qui si gela!"
E volgendo gli occhi a destra e a manca, qual birichino... vide il bambino.
Nel suo misero giaciglio di foglie secche e muschio, Timidino non respirava più. Il sangue non scorreva nelle vene ed il cuoricino, quasi del tutto privo di linfa
vitale, non faceva “tic” e “tac”.
Impietosito, Alien lo portò nell’astronave, calda e accogliente. Poi uscì a riparare il guasto, ansioso com’era di fare ritorno in tutta fretta… alla sua stellare
casetta!
Grazie al calore che c'era all'interno del disco volante, il sangue tornò a fluire nelle vene di Timidino… rimettendo in moto il cuoricino!
“Dove sono?” si domandò, aprendo gli occhi e la bocca a fatica, guardandosi intorno, incredulo!
“Che strano posto è questo?” si chiese. Ma non ebbe risposta, al momento, dato che Alien era fuori dal veicolo, intento a riparare piccoli guasti qua e
là.
“Sto sognando!” disse ad alta voce, alzandosi e guardandosi attorno.
Non gli ci volle molto a capire dove si trovava; c'era stato troppe volte con la sua fervida fantasia, ma ora c'era davvero. E si diede alcuni pizzicotti sulle
guance, per accertarne la realtà.
Era dentro una vera astronave, stavolta, tale e quale a quella che aveva sempre immaginato, la stessa con cui se ne andava in giro nello spazio, viaggiando sulle ali
della sua fantasia, standosene nascosto tra le fronde del suo carrubo.
Preferiva non farsi vedere dagli altri bambini, che lo prendevano in giro ogni qualvolta lo trovavano colà.
“No, non stai sognando!” lo contraddisse Alien, una volta dentro. “Questa è la mia astronave e tu sei il benvenuto!”
Al suo cospetto, Timidino ebbe un attimo di sgomento. Poi gli si buttò fra le braccia, senza esitare.
Contrariamente a quanto aveva sempre immaginato, non era affatto un omino piccolo e verde, né mostruosa creatura.
“Portami con te, lassù... oltre il blu!” lo supplicò.
“Ti ci porterò!” rispose Alien. “Sappi, però, che lassù non è così blu come lo vedi, anzi, è tutto nero!” E gliene spiegò il motivo.
“Non lo sapevo! Nessuno me l’ha mai detto!” si scusò Timidino, che, mortificato, aggiunse : “Non sono mai andato a scuola!”
Ultimate le riparazioni, Alien sedette accanto a Timidino, che assicurò al posto di comando, e ordinò al computer di ripartire.
“Destinazione Rarità!” aggiunse, guardando il bambino.
“Fantastico!” esclamò Timidino, felice di lasciare la Terra.
Raggiunta una delle porte temporali, furono risucchiati e lanciati oltre ogni dimensione galattica conosciuta, dove, fra due soli e due lune, fluttuava il pianeta di
Alien: il mirabolante Rarità!
“Ti piace?” domandò al bambino, vedendogli brillare di gioia gli occhi ed il faccino.
“Non ho parole!” rispose Timidino. “Se è un sogno, spero di non svegliarmi più!”
Nel pianeta Rarità, culla di serenità, Timidino trovò la felicità che gli era mancata sulla Terra. Dove, non solo non desiderò tornarvi più, ma non ebbe nemmeno
bisogno di sognare fantastiche avventure… felice com’era di vivere con quelle extra-ordinarie creature!
Nessuno fece caso alla sua sparizione nel paesino nascosto tra valli silenti e cupi monti, dove la vita, ancora oggi, continua sempre uguale… sempre la
stessa!
--------------------- MORALE DELLA FAVOLA -------------------
Se hai paura di volare… puoi sempre fantasticare!