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Curiosità della cucina catanese e di alcuni locali tipici

di Pippo Nasca

 

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 Intendo precisare che sull'argomento ho inteso semplicemente evidenziare le curiosità tipiche nostre e di alcuni locali senza l'intenzione di voler fare pubblicità.

                                                                                                                          Pippo Nasca

 

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Sinceramente debbo confessare di non essere un frequentatore di ristoranti. Non è che abbia in antipatia questi tipi di locali, di cui il territorio catanese abbonda e debbo anzi dire che ve ne sono di notevole pregio culinario. Purtroppo, quando il desiderio di mangiar bene mi viene, preferisco ricorrere al “fai da te” in campagna a base di cibi semplici e non complicati. Intendo carne arrostita sulla brace o pesce alla griglia con bruschette di pane di casa e vino di quello generoso. Magari preceduto il tutto con una spaghettata con aglio, olio e peperoncino rosso. Io lo chiamo “mangiar semplice eletto”. Ovviamente questo tipo di cenetta comporta un rito molto importante e sicuramente non eliminabile: quello della visita alla pescheria, che a Catania sorge dietro la statua di “l’acqua a linzolu”. Ovviamente bisogna andare preparati in questo posto e, cioè, stabilire prima il tipo di menù cioè, se a base di carne o di pesce.

Se si stabilisce per la carne, non è il caso di andare dove i pescivendoli “vannianu” la loro merce, bisogna tirare dritto e raggiungere il macellaio di fiducia. La scelta è molto semplice: costate e “sasizza a caddozza”, se scegli di fare “arrusti e mangia”; oppure “castratu” spezzettato se pensi di farlo al forno con le patate. Mentre ti rechi dal macellaio, dai negozi laterali puoi comprare l’eventuale insalata di gradimento, quali pomodori di Pachino e cetrioli o ravanelli. Il vino, rigorosamente rosso è quello dell’Etna di “cumpari Saru”. Non resta che scegliere il posto del … sacrificio! O a casa di Saru  a “Muntagna” o da me al mare.

Se si decide di voler mangiar pesce, il rito della compera è molto diverso e più complesso. Scesi quei pochi gradini per raggiungere la piazza dove i pescivendoli mostrano la loro merce, si entra  immediatamente in una specie di bolgia infernale dove la gente fa ressa intorno a questo o quel venditore indaffarato a pesare la merce richiesta prelevandola o da una enorme vasca o da un banco leggermente inclinato, atto a far colare l’acqua spruzzata di tanto in tanto. Comperare il pesce alla pescheria non è facile! Devi saper scegliere, se vuoi mangiarne di fresco, magari a buon mercato. Non solo! Devi saper prima cosa intendi comprare. Vi trovi di tutto: “masculini da magghia”, “stummi”, “picari”, “sardi”, “sicci”, “trigghi di scogghiu”, “scazzubuli”, “opi”, “luvari” “custardeddi”, “augghi”, “sparacanaci”, “taccuni”, ”sarachi”, “purpi”, “calamari” e  “pisci a fedda”, ossia  “tunnu, piscispada e pauru”. In un altro settore della “piscaria” potete trovare anche tutte le varietà di frutti di mare, come “i cozzuli di Messina” e chiddi da plaia”, “i rizzi monaci”, “i cannulicchi”, “l’occhi di voi”, nonché “le ostriche ed “i vavaluci di mari”… Insomma lì, alla pescheria, avete ampia possibilità di scelte, anzi diciamo che avete l’imbarazzo della scelta. Per questo bisogna andare a comprare decisi di cosa scegliere in relazione alla cena da approntare. Non crediate che le “vanniate”, molto colorite dei venditori possano esservi d’aiuto, poiché sono solo indirizzate a vantare la propria merce. Diciamo pure che servono solamente a confondervi le idee, anche se piacevoli da ascoltare, perché tipicamente catanesi. Insomma andare alla pescheria, anche solo per guardare od ascoltare tutta la “caciara” che vi è, diventa come far da spettatore ad una rappresentazione folcloristica. Tant’è che è possibile vedere girare tra i banchi del pesce frotte di turisti  a seguito della guida con la bandierina. Comunque, uno dei segreti per comprare a minor prezzo alla pescheria è quello di andarvi nella tarda mattinata, poiché i pescivendoli abbassano il prezzo per evitare di riportare in deposito la merce invenduta. All’apertura del mercato ovviamente i prezzi sono sempre più alti. Anche i pescivendoli hanno i loro trucchi per far apparire fresco il pesce che non lo è perché rimasto dai giorni precedenti. Dare consigli per individuarli è un’impresa molto difficile. Bisogna avere l’occhio clinico ed allenato!

Chiaramente tutto questo è valido per le cenette “fai da te”, con parenti ed amici più untimi. Ma se si è in vena di fare “una schiticchiata” (come usa dirsi a Catania per indicare una cenetta piacevole tra amici) con più persone, bisogna, giocoforza, ricorrere ai ristoranti che a Catania e nel suo entroterra sono numerosi ed anche molto specifici, compresi quelli che hanno un repertorio culinario diverso dal nostro. Non vi è che l’imbarazzo della scelta! Puoi scegliere tra quelli specializzati in pizze, oppure in pesce o carne; negli ultimi tempi sono venuti alla ribalta i ristoranti cosiddetti “vegani”, che è un po’ complicato spiegare, i ristoranti cinesi, indiani e di altri paesi orientali. Purtroppo i ristoranti a Catania e dintorni, in questi ultimi tempi non hanno lunga vita! Essi chiudono facilmente i battenti per meri motivi … fiscali. A citarne qualcuno si corre il rischio di non trovarlo più.  

Tuttavia insisto nella decisione di nominarne qualcuno tra quelli da me conosciuti. Per  mangiare del pesce alla mia maniera, cioè, “semplice, eletto”, vado a “Santa Maria La Scala” sotto la timpa di “Acireale direttamente al cosiddetto “Grottino”. E’ questo un piccolo ristorantino per poche persone, al quale bisogna prenotare prima la cena proprio a causa del suo limitato spazio. Aggiungo che non è facile trovarvi  posto! Qui puoi mangiare pesce alla griglia e spaghettate, naturalmente accompagnati con dell’ottimo vino bianco. A me piace questo posto non solo per il modo semplice di cucinare, la freschezza del pesce e la tranquillità, ma anche per  la sua posizione. Si tratta di un locale nato a ridosso della timpa, i cui muri rocciosi, lasciati al naturale, fanno parte dello scenario interno, con pochi tavoli senza orpelli e fronzoli e le finestre che sporgono sulla strada che costeggia il mare. Insomma una specie di  osteria marinara all’antica, dove ti senti a tuo agio godendoti il cibo, la tranquillità ed il profumo del mare. Prima di sederti al tavolo scegli il pesce, esposto all’ingresso, che viene pesato per stabilirne il prezzo, dando le istruzioni per la cottura. E’ un po’ come andare in pescheria con il vantaggio di poter scegliere con la certezza che la merce è veramente fresca senza la fatica della preparazione della cena. Se pensi invece di mangiare un’ottima zuppa di pesce di quelle con salsa e pesci d’ogni qualità del nostro mare, basta fermarsi ad Acitrezza in un ristorante non tanto appariscente quasi davanti al porticciolo, da cui forse partì per l’ultima volta la sfortunata paranza dei Malavoglia. Ecco a me piacciono questi posti semplici ed alla buona, perché son certo di trovarvi dell’ottima roba.

Un altro posto, dove mi piace andare è al “Braciere” di Milo, dove viene cucinata la carne alla brace alla maniera casareccia sui carboni ardenti  e, se la ordini prima, puoi anche mangiare “a stigghiulata”. Ma il ristorante che  prediligo per la sua semplicità è la trattoria casareccia di “Franchetto” in territorio di Castel di Jiudica. Qui tutto viene cucinato come a casa tua a cominciare dalla pasta, che se è al ragù non ha eguali. Come secondo viene portata una grigliata mista di carne, da quella di agnello a quella di maiale ed a quella di manzo, nonché di selvaggina  ed anche di “cotolette alla palermitana”. Forse cucinano anche del pesce, ma io qui non l’ho mai richiesto. E’ appunto un ristorante “campagnolo” specializzato  nella carne  e negli antipasti che sono rigorosamente casarecci, compresa la “ricotta fritta” ed altri prodotti di campagna. Pure il vino è nostrano ed offerto nelle “cannate”. Insomma un angolo di Sicilia veramente e stupendamente siciliano, anche nel paesaggio. Per raggiungerlo bisogna uscire dall’autostrada per Palermo ed immettersi nella vecchia strada. All’altezza di Sferro, prima di raggiungere la stazione, bisogna svoltare a sinistra, oltrepassare il passaggio a livello e procedere verso Castel di Jiudica, inerpicandosi per le colline che costituiscono i primi rilievi dei  monti Erei. Ad un certo punto si incontra “Franchetto”, un piccolo agglomerato di case intorno ad una chiesa di campagna in puro stile “liberty”. Si tratta di uno di quei villaggi rurali voluti dal passato regime fascista, che ancora resiste all’incipiente incalzare della nostra era. Dove l’occhio posa, possono notarsi i dolci clivi delle colline coltivate a grano e cosparse di radi casolari o fattorie ancora in piena efficienza produttiva. Un vero paradiso georgico in cui tutto, ma veramente tutto sa ancora di antico ed incontaminato. Lungo la strada si incontrano anche degli ovili, dove è possibile fermarsi per comprare la ricotta e la tuma od il “formaggio primo sale”. Sembra proprio che qui il tempo si sia fermato e così ci si può immergere in un mare di serenità, lontano dai fragori della città. Spinto dalla mia costante curiosità storica, ho appreso che il nome di questo comune è nato dal fatto che proprio qui, vennero internati non ricordo da quale passato governo degli Ebrei. Insomma quel Judica sta per Giudaica. Purtroppo questi benedetti giudei, a causa della cattiva nomea di essere stati gli uccisori del Cristo, anche in Sicilia non hanno trovato vita facile e sono stati sempre “ghettizzati” in posti remoti che però hanno saputo curare e rendere oltre modo  vivibili, piacevoli e redditizi.

Le “pizzerie” sono molto diffuse in tutto il territorio e più o meno si equivalgono tutte. Ma una la voglio proprio citare poiché costituisce (o forse costituiva?) una curiosità. Si tratta della pizzeria ad Acireale “CU C’E’ C’E’ di “BRIGANTONI” ovvero dell’omonimo Antonio Briganti. Chi è costui? Un cantautore siciliano ed anche italiano, un comico, se volete,  che ha avuto un modesto successo in un determinato periodo. Ha messo in atto questa pizzeria, che ha come caratteristica i muri tappezzati dalle imprese teatrali e televisive del prode Antonio, nonché di motti e di scritte dialettali in verità volgari, che alcuni ritengono originali. “De gustibus non sputacchiandum est!” , dice qualcuno storpiando il latino! Un’ orchestrina allieta i clienti con i motivi e le canzoni del Briganti e la serata passa. Insomma il nostro eroe ha trovato il modo di farsi pubblicità sfruttando la sua personalità. Tutto sommato è un’iniziativa da lodare! Pubblicità “Fai da te” ed a costo zero!

Sulla falsariga di questa pizzeria, cioè che sfrutta parole dialettali piuttosto spinte e volgarucce, e non soltanto parole ma anche immagini, ho conosciuto un altro locale, ma non a Catania. Non so se siete mai stati a Castelmola, quel paesetto che andando da Catania verso Messina sull’autostrada è possibile vedere appollaiato su di  un cocuzzolo al di sopra di Taormina. Invito tutti a visitarlo al di là di questa curiosità di cui vado a parlare. Giunti a Taormina, dove siete arrivati in macchina uscendo dall’autostrada dovete proseguire verso Castelmola seguendo le indicazioni stradali. Alla fine arriverete in una piazza che è un vero balcone sulla vallata, curatissimo nelle facciate  degli edifici e nel pavimento. In questa piazzetta, dove vi è pure una chiesa, vi è l’ingresso, che sembra molto modesto, del Bar TURRISI con annesso ristorante. L’interno del bar e del ristorante leggermente sopraelevato sono elegantemente addobbati e sfavillanti di luci. La prima cosa che vi colpisce salendo la breve scala è la presenza di due putti con le ali completamente nudi, ma ecco che procedendo vi accorgete che le rampe della scala, i pomelli e quant’altro sporge hanno la forma dell’organo sessuale maschile in erezione. Non vi dico quello che mostra il tavolo e le stesse sedie! Al di sopra, sui muri vi sono delle pitture apertamente lascive di uomini e donne in posizioni non certo angeliche, anche se la pittura ricalca lo stile classico. Ma la sorpresa non finisce qui! Appena seduti su quelle strane poltrone, arriva una gentile cameriera con delle tette a cocomero, che porgendovi alcuni libri di menù e tenendosi pronta a prendere appunti,  vi dice candidamente: “Ditemi che cazzo volete.” Aprendo il libro dei menù resterete ancora più sbalorditi! I piatti sono indicati, con termini prettamente riferiti agli organi sessuali ed ai loro rapporti espressamente intimi che nemmeno il Kamasutra è in grado di esprimere così apertamente. Sicché l’avventore è costretto a chiedere senza reticenze delle cose … molto piccanti che là sono scritte. Ovviamente, seguono, i rossori di qualche cliente femmina, i commenti ilari, le risate e le occhiate eloquenti … Insomma tutto diventa, come dire, sempre più spontaneo col procedere della cena anche perché il vino comincia a fare il suo effetto.  Alla fine, per chiedere il conto all’avvenente cameriera, avete anche licenza di dirle, alludendo, quanto “minchia” chiede per il servizio completo. Un po’ pesantuccia la cosa, specialmente se vi sono bambini, ma vi assicuro che il locale è molto frequentato. Almeno lo era quella volta che ci andai.

 

Ma di un altro locale che costituisce almeno per me una vera curiosità voglio parlarvi. Chi conosce VILLA TAVERNA di via Cristoforo Colombo a Trecastagni, alzi la mano! Si tratta veramente di un locale spettacolare, di quelli che mai avevo visto prima a Catania e dintorni. Ho avuto modo di essere ospite di questo ristorante in occasione della festa di quando sono andato in pensione. Non vi nascondo che l’ho visitato anche altre volte, tanto mi è piaciuto l’ambiente. Esso è nato, come mi raccontò lo stesso proprietario, da una sua passione per le cose antiche e da una sua idea geniale. La persona in questione, che purtroppo ormai non è tra i vivi, era un piccolo imprenditore, di quelli che si arrabattavano nel dopoguerra, a ricostruire Catania e dintorni. Giornalmente egli aveva il problema di portare in discarica il materiale di risulta delle vecchie case da demolire per ricostruirle secondo vedute più moderne. Tra le sue attività edilizie, aveva in progetto la costruzione di una grande villa a Trecastagni, in cui prevedeva di lasciare libero lo spazio del pianterreno per ricavarne dei garages. Ad un certo punto della costruzione, pensò intanto di accumulare in quello spazio tutto il materiale che poteva e proveniente dalle demolizioni. Incominciò a raccogliere di tutto, dai mattoni particolari, alle vecchie mattonelle dei pavimenti, alle ceramiche, agli stipiti delle porte in  pietra lava, alle cancellate, ai sedili in pietra, alle vecchie “ciaramite”, alle insegne  ed a quanto riteneva utile. Man mano che la villa veniva su, bella e maestosa, contemporaneamente, al posto dei progettati posti macchina, pensò di “ricostruire” parte degli angoli della città da lui stesso demoliti. A lavoro ultimato, si trovò ad avere la villa completata con nel sottostante pianterreno le ricostruzioni caratteristiche di alcuni punti di Catania, con targhe di strade, cancellate e sedili in pietra. A questo punto, pensò bene di cambiare attività. Trovato un arredamento in tono con l’ambiente ricreato e fornito il locale all’esterno di fornelli e cucina, non trovò di meglio che chiamare il posto  VILLA TAVERNA. Infatti all’interno risultava  ricostruita come una vecchia “putia” (osteria), del quartiere di San Cristoforo o  del vecchio San Berillo.  Gli bastò semplicemente mettere al lavoro nella cucina alcune popolane del suo ex rione, vestirle con i “mantali” (grembiuli delle massaie) e tirare  fuori vecchie ricette siciliane. Insomma alla fine era riuscito ad ottenere un ristorante tipico siciliano non solo nell’aspetto esteriore ma anche nell’anima. Debbo anche dire che non  costava molto! Adesso veramente non so! Oltre alla “pasta con le sarde”la vecchia “minestra, “i mussi e i carcagnoli bolliti e conditi”, “a trippa”, “u piscistoccu a ghiotta”, “u baccalaru frittu” “l’arrusti e mancia” e tanti altri piatti forti, potevi trovare in abbondanza i dolci tipici, quali “i cannoli, “l’alivuzzi ed i minni di Sant’Aita”, “a minnulata”, “u turruni di mennuli spicchiati e di gigiulena”. Ma quello che era troppo forte era alla fine l’offerta del “rosolio” nei bicchierini di una volta da parte del proprietario! Il “rosolio”, per chi non lo sapesse, è un liquore tipico fatto in casa ed in maniera artigianale dalle nostre donne secondo una prassi tramandata da madre in figlia. Da allora non ho più avuto il piacere di gustarlo. Oggi usano darti alla fine della cena “l’amaro” o il caffè!