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"Antichi miti e leggende di Sicilia"

di Pippo Nasca

 

Pippo Nasca

 

 

 

LE FAVOLE DEGLI ANTICHI MITI

E DELLE LEGGENDE IN SICILIA

 

 

 

 Ali di spazio tra le chiazze aguzze

 di rombi colorati d’altri tempi..

 

 

 

Presentazione

 

 

    Ai tempi dei tempi passati, molto tempo prima che il Creatore decidesse di mandare sulla terra il suo figlio prediletto, gli uomini, dimentichi di essere stati creati da Dio, come insegna la Bibbia, s’inventarono degli idoli da adorare e dai poteri superiori, che, in verità, non avevano.

Non avendo conoscenza del ripetersi dei fenomeni naturali, credettero che questi ultimi fossero la manifestazione della loro potenza.

   Questo fenomeno si verificò in ogni parte del mondo, allora conosciuto. In particolar modo in Grecia e in seguito nel mondo latino, questa tendenza a divinizzare la natura, dette luogo ai cosiddetti miti.

Giocando di fantasia gli antichi Greci immaginarono che tutto l’universo fosse da suddividere in quattro parti: il cielo, la terra, il mare, l’oltretomba.

A capo di ognuna di queste parti posero una divinità che aveva in dipendenza altre divinità. Insomma crearono un regno soprannaturale che stava al di sopra degli uomini, ma che somigliava alle loro abitudini.

Nacque così la “cosmogonia”, parola un po’ complessa che spiega come avvenne la creazione del mondo e l’insediamento degli Dèi a cui ho accennato prima.

Nonostante tutta la fantasia in proposito e i super-poteri degli Dèi rispetto agli uomini, tutti dovevano sottostare ai dettami del FATO, che altro non era se non il DESTINO, ossia una legge universale, che non consentiva di essere violata da chiunque. Cosa, questa che così non è, poiché come ha spiegato Sant’Agostino, sommo dottore della Chiesa Cattolica, l’uomo è stato creato da Dio libero di scegliere il bene o il male e che il suo destino altro non è che il frutto del suo operato nel mondo.

 

     Partendo dal presupposto che a dominare tutto l’universo, sempre esistito, fosse il mostro Cronos, che altri non era se non il tempo, sposato con Gea (la Terra), i Greci antichi si inventarono che Zeus, Iuppiter per i latini, (Giove) limitasse il suo potere insediandosi al suo posto.

Giove, nell’istituire il suo potere, si servi delle forze del bene (gli Dèi) sconfiggendo quelle del male (i Giganti).

Inoltre si creò tutta una corte di collaboratori per amministrare l’intero universo, di cui si riteneva il padrone assoluto. Esattamente come avviene tra gli uomini di questa terra.

Sposatosi con Era (Giunone), si riservò il potere del cielo che dominava dall’alto con i suoi fulmini e tuoni, affidando il regno del mare a Poseidone (Nettuno), quello della terra a Gea (Cerere), quello dell’aldilà ad Ade (Plutone).

Da tutto quest’apparato fantastico, vengono fuori i miti, in altre parole le favole che raccontano le imprese degli Dèi, del loro modo di vivere, dei rapporti con il genere umano e la natura, le quali, comunque, dagli antichi erano considerati fatti veri e oggetto della loro religione, chiamata, dopo l’avvento di Gesù, pagana.

 

Chiaramente, gli antichi Greci,non avendo le cognizioni tecniche necessarie e non conoscendo profondamente  le leggi che governano la natura, attribuirono a ogni fenomeno l’intervento di singole deità, arricchendo sempre più il mondo mitologico.

Molti di questi miti sono ambientati in Sicilia, allora denominata Trinacria, poiché i Greci rimasero abbagliati dalla sua bellezza naturale e pur considerando la reggia degli Dèi sul monte Olimpo in Grecia, pensarono che questi ultimi non trascurassero di frequentarla in maniera stabile.

A contribuire alla diffusione dei miti furono gli Aedi, predicatori poetici ispirati, tra i quali il più famoso fu Omero, autore dell'Iliade e dell’Odissea.

Anche il mondo romano accettò pienamente la religione pagana, e dette il suo contributo con i suoi poeti, tra i quali emergono Virgilio, autore dell’Eneide, e Ovidio, autore delle Metamorfosi.

Premesso quanto sopra, cercherò di descrivere in maniera, spero semplice, l’insieme di queste credenze, come ali di spazio tra le chiazze aguzze di rombi colorati d’altri tempi, considerate oggetto di religione; appunto, la religione pagana.

    Anche se forse, come temo, il mitico mondo di una realtà fiabesca quale quella degli antichi eroi e degli Dèi Greci, sia ritenuto tale da essere posto nel dimenticatoio, sotto la spinta della tecnologia incalzante che ha invaso la nostra attuale cultura, io spero che ricordare da parte mia gli antichi miti, possa giovare a ritrovare il vecchio mondo del sogno e della fiaba ed essere di giovamento per raggiungere un equilibrio sereno nel confronto tra l’antico e il moderno ed essere di stimolo alle nuove generazioni alla conoscenza dell’antico modo di vivere.

 

 

 Pippo Nasca

 

 

 

 

 

 

NOMENCLATURA  DEI PRINCIPALI  DEI

 

ITALIANO

GRECO          

FUNZIONI

La Notte                              

La Notte

Il buio assoluto

La Terra                                      

Gea

Figlia sella Notte

 Il Cielo                                    

Saturno

Figlio della Notte

Il Tempo                                                  

Cronos

Padre di Giove

La Natura                                     

Rea

Genitrice degli Dei

Giove                                         

Zeus

Re e padre degli Dei

Giunone                                        

Era

Moglie di Giove

Venere                                 

Afrodite

Dea dell’Amore

Minerva                                    

Atena

Figlia di Giove

Cerere                                  

Demetra

Dea delle messi

Vesta                                         

Iesta

Dea del focolare domestico

Apollo                                        

Febo

Il Dio indovino

Cupido                       

Eros

Dio dell’Amore

Diana                                   

Artemide

Dea della  delle selve

Bacco                                     

Dionisio

Dio del vino

Ade                                       

Plutone

Dio degli Inferi

Marte                         

Ares

Dio della Guerra

Proserpina                          

Persefone

Moglie di Ade

Nettuno                 

Poseidone

Dio del Mare

Mercurio                              

Hermes

Messaggero degli

Aurora                                           

Eos

Messaggera degli Dèi

Vulcano                       

Efesto

fabbro degli Dèi

I Giganti                                  

I Titani

Le forze del Male

 

 

 

 

 

 

COSMOGONIA

 

 

In principio era Notti

e la Notti era sula

senza luci e senza botti,

né lacrima ca cula …

Non c’eranu li lotti

 

Gli antichi Greci dicevano che in principio era la Notte, sola, scompagnata, eterna e ammantata dal buio più profondo e dal silenzio assoluto. Quando si stancò di essere sola, per avere un po’ di compagnia, tirò fuori dal suo seno due figli che chiamò Saturno e Gea.

Saturno era il Cielo e Gea la Terra.

Cielo e Terra generarono una gran quantità di figli e poiché il Cielo temeva di essere spodestato dai suoi figli, costrinse la Terra a tenerli prigionieri nei suoi meandri sotterranei, che costituivano l’Averno. Erano i Giganti, i Titani e i Ciclopi.

Solo due di essi, la Terra riuscì a tenerli fuori dall’Averno ed erano Cronos e Rea. Cronos era il Tempo e Rea la Natura.

Il Tempo conquistò il cielo uccidendo Saturno che fu fatto a pezzi. Le gocce di sangue di Saturno caddero sulla Terra e generarono le Erinni, che erano tre mostruose donne con serpenti in testa e nelle mani tizzi di carboni ardenti con i quali erano solite torturare l’umanità gridando orrendamente. Il corpo fu fatto a pezzettini e furono sparsi per tutto l’etere e diventarono stelle. Solo un pezzo del corpo di Saturno, il suo organo maschile, cadde in acqua e, nuotando raggiunse l’Isola di Cipro, dove approdò, emergendo dalla schiuma del mare con le sembianze di una bellissima donna, cui le Grazie donarono le loro virtù di flagranza eleganza e seduzione. Nacque così Afrodite (Venere), la più bella di tutte le Dee e che era la Dea dell’Amore.

Cronos, che era il Tempo, temendo come Saturno di essere spodestato del suo potere, costrinse la moglie a consegnargli i figli che nascevano per poi mangiarseli. La faccenda continuò così fino a quando la moglie non si fece furba e al posto dell’ultimo nato, Giove, gli presentò una grossa pietra, avvolta in un sacco, che il padre-mostro inghiottì senza accorgersi di nulla.

Affidò il neonato alle sue fidate ancelle della terra che lo allattarono con il latte della capra Amaltea.

Proprio Giove ebbe l’ardire di assalire il padre Cronos uccidendolo, e di sostituirsi a lui nel dominio del cielo e di tutto quando era venuto fuori da Saturno e Rea.

Quando Cronos fu ucciso da Giove, vomitò integri i figli che si era mangiati prima, ossia Giunone, Nettuno, Plutone, Cerere e Vesta.

Ma con la defenestrazione di Saturno e di Cronos, avvenne pure la liberazione dei Ciclopi, dei Giganti e dei Titani, i quali si opposero al potere di Giove e si organizzarono per abbatterlo, senza riuscirvi. Scoppiò una vera guerra tra Titani e Giganti da una parte (le forze del male) e Giove ed i suoi fratelli dall’altra. (le forze del bene).

Giove la spuntò, mettendo alla gogna i suoi nemici: Oceano venne condannato a sostenere sulle spalle il mondo intero, Sisifo a far rotolare verso l’alto un'enorme pietra, che raggiunta la cima precipitava in basso per essere nuovamente sospinta verso l’alto dal condannato e così in eterno, Prometeo a essere legato ad una rupe, dove un’aquila gli rodeva il fegato e, quando questo ricresceva, l’aquila tornava a mangiarselo e così in eterno, Tifeo a tenere a galla la Trinacria sul mare.

     Giove elesse come sua reggia stabile la cima del monte Olimpo in Grecia, da dove scrutava il mondo intero e dove riuniva in assemblea tutti gli Dèi per dettare la sua volontà.

Suddivise l’universo in settori: riservò a sé il Cielo che gli dava la possibilità di controllare ogni cosa, affidò a Nettuno il regno del mare, a Plutone quello degli Inferi, a Cerere la natura, a Vesta la gestione del fuoco del focolare domestico e infine sposò Giunone, che diventò la regina del cielo.

Giove incrementò le forze del bene avendo generato molti altri figli, sia con Giunone, sia con altre Dee e anche con comunissime donne mortali; dalle loro unioni  nacquero altri esseri divini e semi-divini (gli eroi) e tutti con incarichi speciali: Apollo, Dio del sole e della sapienza e Diana, Dea della caccia, entrambi gemelli, che ebbe con la Gigantessa Latona; Marte, Dio della guerra, Mercurio messaggero della sua volontà, Vulcano, il fabbro degli Dèi, Eolo che nominò re dei venti, Minerva, Dea della Sapienza che partorì direttamente dal suo cervello. Tutti questi Dei, a loro volta, imitando Giove, generarono altri Dei ed Eroi.

 

 

 

I MITI CHE INTERESSANO LA SICILIA

 

La Sicilia, che allora i Greci battezzarono Trinacria per la sua forma triangolare, colpì l’immaginario dei Greci a tal punto che vi ambientarono molti dei loro miti. Fermo restando che la Patria degli Dei restò sempre in Grecia, l’isola per le sue bellezze e per le sue caratteristiche particolari, divenne come una loro seconda casa. I Greci vi ambientarono molti dei loro miti dando libero sfogo alla loro fantasia ed arricchendo la loro già meravigliosa visione del mondo con elementi nuovi legati al mondo esoterico e religioso. Indubbiamente a sollecitare la loro fantasia contribuirono moltissimo, la forma dell’isola triangolare, ma anche l’Etna con il suo pennacchio, la lava che molto sovente trasformava il territorio, le insenature, gli anfratti delle coste, i tremori del territorio ed il realizzarsi di fenomeni di cui non si rendevano conto, oltre all’ubertosità della terra e la scoperta di reperti storici inspiegabili. In questo clima di fantasia creatrice tutta la mitologia greca, completò la sua veste variegata di immagini divine, successivamente ereditata dal mondo romano, che la completò con le sue antiche leggende italiche rivedute ed adeguate. Grazie, infatti, alla cultura romana la mitologia greca trovò il modo di adattarsi al nuovo mondo e perpetuarsi. Ricordo in proposito l’attività letteraria svolta dai poeti latini Ovidio e Virgilio. Il primo scrisse “le Metamorfosi” (i mutamenti della natura per opera divina) ed il secondo scrisse “L’Eneide” (il viaggio fantastico del mitico Enea per raggiungere il Lazio). Ancora oggi, pur essendo il nostro mondo religioso cambiato con l’affermarsi del nostro credo cristiano, contribuiamo a ricordare e diffondere i  miti greci, imitandone inconsciamente o forse furbescamente i riti nelle manifestazioni  religiose popolari. Alla luce di tali eventi non possiamo non ammettere che ancora nei nostri giorni i miti greci non facciano parte della nostra cultura, specialmente quella popolare.

 

 

Le origini della Sicilia

 

 

Se siete convinti che la Sicilia sia scaturita dalle vicende orogenetiche che hanno interessato il mar Mediterraneo e che l’Etna altro non sia se non il prodotto della lava fuoruscita da una frattura della crosta terrestre, come in effetti sembra sia avvenuto secondo alcuni presupposti scientifici, vi sbagliate di grosso!

Secondo la mitologia greca ben diverse sono le cause che fecero nascere la Trinacria, altro nome della Sicilia, e il vulcano Etna.

Il tutto ebbe origine da liti e beghe divine, legate alla cosmogonia messa in essere dal mito, come attualmente viene definito l’antico credo religioso greco.

Non appena Giove si insediò sul trono del cielo al posto di Cronos, i lontani parenti figli di Saturno, liberatisi dall’Averno, mossero guerra a lui e agli Dèi suoi fratelli e sostenitori per il possesso del mondo.

La guerra tra le due fazioni fu tremenda e senza quartiere. Da una parte vi erano tutti i Giganti figli di Gea e dall’altra parte vi era Giove con tutto il suo seguito di Dèi e Dee.

Con sagacia e perseveranza, come ho già detto, i Giganti vennero tutti neutralizzati per mano dello stesso Giove, unico a possedere l’arma fatale del fulmine, che lo rendeva padrone assoluto del cielo e della terra.

 

Come avviene in quasi tutte le guerre, c’è sempre qualcuno che parteggia per il nemico. Nella guerra tra Giove e i Giganti ce ne fu uno che parteggiò per Giove e fu da quest’ultimo risparmiato. Era il Gigante Encelado.

Ma un bel giorno Giove si accorse che Encelado, armato di tutto punto cercava di fare la scalata al cielo, non certo con intenzioni fraterne.

Giove non si scompose e non si preoccupò più di tanto. Dal posto dove si trovava sul monte Olimpo, con la sua possente mano, afferrò un cocuzzolo del monte e lo scagliò con forza contro Encelado che, colpito in pieno, piombò nel mare con le spalle sull’acqua e le braccia aperte come un crocifisso, mentre l’enorme pietra lo seppelliva. Quest’ultima caduta con tutto il suo peso sul suo corpo lo costrinse ad aprire la bocca sputando tutto il suo livore e il suo sangue rosso velenoso.

Alla fine sul mare apparve un’isola (la Sicilia) di forma triangolare che copriva tutto il gigante in quella sua scomoda posizione e con la bocca, laddove vi è il cratere dell’Etna.

Tutte le volte che Encelado cerca di cambiare inutilmente posizione, succede che avvengono i terremoti nell’isola e che la sua bocca, l’Etna, cominci a vomitare la rossa lava di fuoco e veleno represso.

 

 

 

 

Il mito di Aci e Polifemo

 

 

Una leggenda vuole che un rigoglioso fiume scendesse dalle pendici dell’Etna e sversasse le sue acque a delta nel mare Ionio a Nord di Catania, e che lo stesso venisse distrutto dalla lava eruttata dal vulcano.

In ossequio a tale leggenda, il territorio corrispondente prese il nome generico del fiume, che si chiamava Aci.

La leggenda, sicuramente frutto di un reale avvenimento, è supportata dagli attuali riscontri territoriali a Nord del vulcano, i quali denunciano una sua implosione che ha dato origine al cosiddetto vallo del Bove. Sicuramente su quella superficie vi era tutto un sistema idrico che raccoglieva le acque di scolo del vulcano convogliandole verso il mare. Il crollo del terreno, sicuramente, lo distrusse, costringendolo all’ingrottamento sotto la lava eruttata. È noto che dalla scogliera settentrionale di Catania, in alcuni punti, sgorgano nel mare dei flussi di acqua dolce.

Di questa antica vicenda si resero conto i primi Greci che giunsero in Sicilia o forse l’appresero dagli aborigeni Siculi. Tanto bastò loro per crearne un avvenimento divino o mitologico, come noi cristiani lo definiamo adesso.

In effetti, i Greci non pensavano affatto che le vicende fantastiche da loro messe in auge fossero frutto della semplice fantasia, poiché credevano nell’esistenza degli Dèi e delle loro beghe. Intendo semplicemente dire che tutto ciò che per noi oggi viene considerato mito, per i Greci era religione e oggetto di fede. Sicché come noi oggi crediamo in Dio e in tutto ciò che sta scritto nella Bibbia, allo stesso modo loro credevano ad una infinità di Dèi, le cui opere e vicende venivano tramandate oralmente dagli Aedi, veri profetici cantori delle gesta divine oltre che umane.

Ciò premesso, essi, alla vista del fenomeno eruttivo dell’Etna, mai visto prima in Grecia, attribuirono al luogo una manifestazione divina. Immaginarono che dentro l’Etna vi fosse un’officina a disposizione degli Dèi e che la lava altro non fosse che un fuoco divino.

Ovviamente credettero che a capo di questa officina vi fosse un Dio, Vulcano, sul quale costruirono tante vicende di sapore fantastico, e pensarono pure che vi fossero dei lavoranti con doti e fattezze superiori ai comuni mortali: i Ciclopi, immensi giganti con un solo occhio in fronte, dediti alla pastorizia.

Anche la leggenda dell’unico occhio dei Ciclopi ha un addentellato storico. L’aver trovato nell’isola dei grossi teschi con un solo foro centrale, fece pensare che esistessero un tempo degli uomini di grossa corporatura con un solo occhio. In effetti si trattava di teschi di elefanti nani, un tempo esistiti in Sicilia, come ampiamente dimostrato dai posteri.

Ebbene, uno di questi Ciclopi, assurse alla fama della celebrità per essere stato citato da Omero nella sua Odissea. Tutti ricorderete che Polifemo venne accecato da Ulisse e che in preda al dolore scagliò contro le navi del fuggitivo delle enormi pietre, che ancora adesso fanno bella mostra di sé ad Acitrezza (i Faraglioni).

Appunto la figura di Polifemo, reso celebre dall’episodio omerico, divenne oggetto di altre storie … divine, tra le quali, la fine del fiume Aci, di cui vado a parlare.

 

Secondo la religione di allora anche i fiumi erano da considerare delle divinità e non solo quelli, anche i laghi, le fonti e quant’altro la natura offriva ed era di supporto all’attività umana. E siccome anche gli Dèi, come gli uomini andavano soggetti alle passioni umane (tanto che c’era un Dio, Eros, figlio di Venere, preposto a fare innamorare tutti scagliando frecce d’oro), il nume del fiume Aci, un bel giorno si innamorò di una giovane ninfa, Galatea, imparentata con Nereo, uno dei cortigiani del Dio del mare Nettuno.

Questa giovane fanciulla, che viveva in riva al mare ed era di una bellezza rara, ogni giorno soleva risalire le acque del fiume Aci e lì, prima di raggiungerne la fonte, si incontrava con il di lui nume. Ovviamente, anche lei si era innamorata di Aci.

Così come avviene tra gli esseri umani, Aci e Galatea, non restavano inerti guardandosi negli occhi. Forse così fecero per la prima volta ma, successivamente, la passione scoppiò con tutti i risvolti amorosi che le circostanze imponevano.

Là, in quel punto, le acquee limpide di Aci al contatto con il sapore salmastro di Galatea, cominciarono a fare ghirigori e mulinelli, piccoli saltelli spumeggianti e il frusciare armonioso del contatto amoroso e cristallino si spandeva nell’aria fino a raggiungere le nubi in cielo e anche le orecchie di Polifemo.

Nell’udire quei melodiosi canti, più di una volta, Polifemo (certamente prima di essere stato accecato da Ulisse) si svegliò e quando si rese conto della loro origine vedendo i due innamorati fare le fusa, rimase conquistato delle stupende forme della ninfa che volteggiando tra le onde mostrava tutta la sua bellezza. Gli prese un desiderio folle di possedere Galatea e di sostituirsi ad Aci.

Pensando che ciò era possibile solamente eliminando l’avversario, non appena la ninfa si allontanò per ritornare a mare, diede di piglio ad una enorme pala e incominciò a buttare sul povero Aci badilate di lava prelevata dal vulcano.

Il povero fiume si dissolse in aria come vapore al contatto con il fuoco, che cessò solamente quando ormai il suo letto rimase secco e invaso dalla lava.

Fu la fine di Aci, sul cui corpo, ormai nero e non più acquoso a grandi passi, Polifemo raggiunse Galatea a mare e, un po’ violentandola, un po’ amandola, la fece sua.

A Galatea non rimase che subire lo sfogo amoroso di Polifemo, ma infine riuscì a fuggire e a rifugiarsi tra le onde del mare, dove partorì il frutto di quella violenza, dando alla luce un bimbo che chiamò Galati e che allevò nella sua cultura marina lontano dal padre Polifemo. Nella spiaggia antistante sorse dopo una città che si chiamò Galati per ricordarne il nome.

Analizzando questo mito, appare evidente il compor-tamento maschilista di Polifemo nei confronti di Galatea, e come lo stupro fosse considerato un fatto normale non solo tra gli uomini, ma anche tra gli Dèi e accettato dalle donne come un accadimento previsto dalla vita.

In sostanza appare evidente la supremazia del sesso maschile su quello femminile in auge nell’antica Grecia e che, in pratica, la donna era considerata la preda del più forte. Del resto anche nell’Odissea, Briseide, Criseide, Elena, Andromaca e altre eroine omeriche, altro non erano che schiave alla mercé dei vari uomini vincitori di altri uomini. Esse erano state destinate a subire tale trattamento, che finirono per considerarlo  di normale amministrazione.

Ma ciò che voglio evidenziare non è questo fatto eclatante, ormai quasi scomparso nei tempi moderni, nonostante il persistere dei cosiddetti femminicidi, ma la questione del solito “triangolo” di natura amorosa nelle vicende umane e che venne e viene tutt’oggi evidenziato nei lavori teatrali e cinematografici e che mi piace definire con questa caratteristica frase del dialetto napoletano : “Issu, issa e u mal’omme.” ( Lui, Lei e il cattivo uomo).

In questo triangolo, non è mai la donna quella che tradisce. Ella subisce sempre e, fatto emblematico, non viene nemmeno uccisa. È uno dei due contendenti maschi ad essere ucciso e il vincitore si gode “la preda.”

Nel caso di Polifemo e Galatea è Aci, il buono, a subire la morte ed è Polifemo, il cattivo, a trionfare. Il tutto suona come l’esaltazione dell’ingiustizia, della violenza, della forza bruta nei rapporti tra gli uomini e in particolare nei rapporti amorosi.

Chiaramente questa chiave di lettura, se andava molto bene per la mentalità greca, stonava con la mentalità siciliana, dove deve essere sempre il giusto a trionfare sull’ingiusto e che a soccombere, alla fine deve essere il cattivo e non il buono, per il bene della famiglia su cui sono poggiati i cardini del vivere civile.

Fu per questo che, alla fine, in Sicilia, questa vicenda a tre venne rovesciata.

Il mito venne modificato nel seguente modo.

Polifemo e Galatea erano sposi felici.

Polifemo era il capo della famiglia che manteneva con il suo lavoro, rispettando la moglie Galatea che amava e che gli aveva dato un figlio, Galati, luce dei loro occhi.

Il cattivo era Aci, un giovane imperbe, vagheggino che incominciò a gironzolare attorno a Galatea per costringerla a tradire il marito.

“Issu e issa” erano Polifemo e Galatea e il “mal’omme” era Aci!

Tutte le volte che la ninfa entrava nel fiume e a risalirlo per raggiungere il marito, Aci usava tutti i mezzi per corromperla, girandole intorno con le sue acque, sommergendola e accarezzandola tutta. Accortosi di queste lubriche maniere Polifemo, colto dall’ira giusta e sacrosanta, uccise l’attentatore alla sua tranquillità coniugale.

Insomma l’uccisione di Aci “delitto d’onore” fu.

Nessun provvedimento punitivo fu preso dal marito nei confronti di Galatea, anche se sembrava un poco coinvolta dalle manovre di Aci.

Pur continuando la donna a essere considerata un oggetto, possesso del marito o di qualunque altro uomo, non deve essere per niente toccata, perché è debole e anche se cede e tradisce, deve essere sempre rispettata e amata; la colpa è del “mal’omme”, ossia, del cattivo, che la induce a peccare. Quest’ultimo sì, deve pagare il fio della sua colpa, perché la famiglia è sacra e le donne degli altri non devono essere nemmeno guardate.

A questo proposito mi piace ricordare la vicenda di Menelao, che nonostante il tradimento della moglie Elena, che seguì Paride a Troia, alla fine, distrutta la città, se la riprese come moglie senza nemmeno torcerle un capello.

Questa rielaborazione del mito è la giustificazione evidente di quello che poi nel codice Rocco viene definito delitto d’onore, che però coinvolge entrambi gli amanti fedifraghi.

In ogni caso emerge chiaramente da questo mito dal duplice aspetto, che la vita della donna, in caso dei cosiddetti “triangoli”, non andava toccata, anche se colpevole. Successivamente, con il subentrare dei periodi storici della romanità, del primo cristianesimo e dell’islamismo l’eventuale colpevolezza della donna doveva essere sempre punita, anche con la morte. Naturalmente un modo diverso di trattare la proprietà! Nel primo caso prevaleva la conservazione del bene, nel secondo caso prevaleva la sua totale eliminazione.

Alla luce della considerazione che talvolta anche i miti antichi vengono rielaborati a seconda delle modalità di pensiero del momento, mi chiedo, in futuro, quando ormai l’amore tra uomo e donna non sarà motivo di violenta colluttazione per la liberalizzazione assoluta dei costumi, come potrebbe essere rielaborata la vicenda tra Polifemo, Aci e Galatea!

 

 

 

 

 

Il mito di Europa

 

Anche l’Europa, oggi oggetto di grandi programmi politici, che ruotano intorno a progetti di unione, di solidarietà e di economia, è stata materia di un mito da parte dei greci antichi.

Qualcuno potrebbe obiettare che non vi è nulla di nuovo sotto il sole, poiché anche oggi l’Europa unita, in parte realizzata, costituisce un mito da raggiungere. Ma il mito greco di cui intendo parlare è ben altra cosa di questo mito moderno, poiché altri erano allora i problemi e altre le finalità a cui si mirava.

Il problema fondamentale allora era quello di rendersi conto dell’aspetto geografico delle terre emerse dal mare, di conoscerne la estensione e le origini e inoltre di catalogarle in riferimento alle loro caratteristiche.

Tutto questo fecero i Greci antichi alla luce delle loro cognizioni, basate su concetti piuttosto fantasiosi che scientifici.

È pur vero che essi avevano una profonda cultura nel campo di tutto lo scibile, ma è anche vero che mescolavano le informazioni acquisite con l’elemento fantastico, costituito dall’esistenza soprannaturale di Dèi immortali che sovrastavano l’umanità e governavano ogni aspetto della realtà.

Qualcuno potrebbe obiettare che vi erano tendenze filo-sofiche a non considerare vera l’esistenza del soprannaturale. Pur confermandolo, ritengo che fossero appannaggio di pochi e che il grosso del popolo invece seguisse l’andazzo della credenza religiosa, che con il tempo e il maturare degli eventi storici, scientifici e anche religiosi venne considerata materia di fantastici miti.

Gli antichi Greci, circondati com’erano dal mare, furono portati a esplorare i luoghi che si stendevano al di là della massa acquorea e ne scoprirono l’estensione e anche la forma. Notarono una certa relazione tra il profilo di quelle terre e la figura di una donna a cavalcioni di un toro. Ciò dette la stura alla fantasia, tenendo conto che il toro era uno dei simboli di Giove, il padre dell’Olimpo e degli uomini.

Immaginarono, dunque, che sulle sponde dell’Asia, nei pressi della città di Tiro, vivesse una principessa, di nome Europa, amante del mare e degli animali. Essendo di una bellezza rara, un bel giorno Giove la notò, e siccome il padre degli Dèi e degli uomini in materia di donne era abbastanza sensibile, pensò di farla sua.

Naturalmente non poteva presentarsi alla donna in tutta la sua prestanza divina, perché ne sarebbe rimasta accecata. Pensò di conquistarla con l’inganno, sfruttando il suo amore per gli animali, senza ricorrere alla sua onnipotenza.

Si trasformò in toro dalle robuste corna e dai magnifici lombi, e silenzioso attese sulla spiaggia la principessa, senza dare nell’occhio.

Quando Europa giunse, notò il toro che si accovacciò docilmente ai suoi piedi, lo accarezzò, colpita da tanta mitezza e provò il desiderio di cavalcarlo. Lo fece con grande naturalezza. Allora il toro si alzò pacatamente e cominciò a trotterellare sulla spiaggia, quasi per farle piacere, fintanto che non raggiunse il mare, dove entrò nuotando con quel suo fardello sul groppone.

Nuotò silenziosamente spinto dal fratello Nettuno, Dio del mare, e accompagnato anche dall’ingannevole canto delle ninfe, fino a raggiungere l’isola di Creta, dove approdò e si rivelò a Europa, dichiarando il suo amore e facendola sua.

Anche se avesse voluto, la fanciulla non avrebbe potuto opporsi alla volontà del sommo Dio.

Dopo aver conquistato il cuore della principessa, Giove non restò sull’isola di Creta in compagnia di Europa. Le sue incombenze di padre degli uomini e degli Dèi gli imponevano dei doveri improrogabili, e poi Giove era fatto così: una volta conquistato il cuore della donna che al momento gli piaceva, correva a soddisfare altrove i suoi bisogni alla ricerca di altri … bocconcini!

Era questa una prerogativa o una tendenza del carattere di Giove. Essendo padre degli Dèi, nonché degli uomini, nonché padrone del mondo, contribuiva materialmente a popolarlo con figli suoi diretti, assumendo gli aspetti ora di cigno, ora di pioggia dorata o di altro per conquistare le ignare fanciulle della terra.

La povera Europa rimase sola a Creta, dove mise al mondo Minosse, frutto del suo amore divino, che diventò re di Creta e non si sentì felice. Anzi diciamo che restò con il desiderio di cavalcare ancora una volta il toro per raggiungere a nuoto quella terra che scorgeva al di là del mare e che immaginava bellissima e ubertosa come in effetti lo era. Ma Giove non ripeté per lei il miracolo di trasformarsi nuovamente in toro e per questo motivo, la terra agognata dalla principessa Europa, prese il suo nome per simboleggiare il suo vano sogno di raggiungerla.

Chissà! Forse in questo mito può evidenziarsi l’aspirazione del mondo orientale a voler raggiungere con ogni mezzo l’Europa.

In questo senso, oggi possiamo dire che tale mito, alla luce delle correnti migratorie attraverso il mare di gente degli altri continenti contigui, abbia trovato riscontro, non certo tramite la solida schiena di Giove-toro, ma le misere e fragili imbarcazioni che il più delle volte sono cause di naufragi e di morte.

 Probabilmente, anzi certamente, gli antichi Greci non pensarono mai alla BREXIT, che sostanzialmente nella figura emblematica del toro simboleggiante l’Europa, cancella l’immagine della fanciulla sul suo groppone, corrispondente alla Gran Bretagna.

Mi si potrebbe obiettare cosa c’entri con la Sicilia il mito d’Europa. Ne ho parlato perché dall’amore di Giove-toro ed Europa, nacque Minosse, che , come dirò  in appresso ebbe dei legami importanti con la Sicilia

 

IL RATTO DI PROSERPINA

 (e miti connessi)

 

 

C’era na vota na picciotta schetta

De’ parti di Enna, la liggenda voli,

di na Dea figghia sula prediletta

ca ‘nta nu pratu arricuggheva violi.

                                                             Pippo Nasca

                (dal libro “C’era na vota nta l’antica Grecia”)             

                                                                                                                           Era Proserpina, la figlia prediletta di Cerere, sorella di Giove, protettrice delle messi che viveva in Sicilia ed anche figlia naturale dello stesso Giove. In materia di donne, Giove era un poco libertino e non distingueva in amore se fossero consanguinee, donne comuni oppure Dee. 

Così come si conviene alle fanciulle di nobile rango, questa giovinetta viveva felice circondata dalle sue ancelle, delle quali le più intime erano Menta e Ciane.

Le ancelle erano delle giovani donne d’aspetto e natura divina, chiamate Ninfe e avevano il compito di servire Cerere per tutto quanto lei operasse nella natura.

A quel tempo le Dee e le Ninfe, esattamente come gli esseri umani, si innamoravano, si fidanzavano e si sposavano anche con uomini comuni e mortali.

La ninfa Menta era fidanzata con Plutone, il Dio degli Inferi e la ninfa Ciane con un pastorello del luogo chiamato Anapo.

La Dea Proserpina, invece, non aveva alcun fidanzato, amico o corteggiatore. Viveva libera e felice e trascorreva le sue giornate a raccogliere fiori per i campi agghindati dalla madre, e a giocare con le sue fidate ancelle lungo le rive di una vasta piscina che la madre aveva fatto costruire per lei. Era quello specchio d’acqua azzurro come il cielo che oggi è chiamato il lago di Pergusa.

La vita scorreva beata per tutti, sotto l’occhio vigile di Cerere, che andava in giro con il suo falcetto al fianco, e l’atmosfera era quella di un’eterna primavera, dove il giorno veniva illuminato dal sole, trainato dal carro guidato dal Dio Apollo, e la notte da Selene, la luna, che splendeva bianca tra le stelle.

Di tanto in tanto, Plutone veniva fuori dal sottoterra di un monte nella località che oggi viene chiamata Adrano, il cui significato è, appunto, luogo da dove esce Ade, nome greco di Plutone.

Vi era qualche tremore della terra, un leggero frastuono e non più di tanto, quando andava a trovare la sua bella, la Ninfa Menta. Dopo, tranquillo tornava a occuparsi del suo regno.

Ma un giorno Plutone, mentre girava con il suo carro nei pressi del lago di Pergusa alla ricerca dell’amica del cuore, vide Proserpina che felice nuotava nelle acque e impudicamente mostrava le sue membra innocenti. Punto da un attacco di passione e d’insano amore nei confronti della fanciulla, senza indugio si avvicinò col suo carro alla riva e allungando il suo enorme braccio adunco la sollevò sul carro e spinse i cavalli a correre in direzione di Adrano per tornarsene nel suo regno.

Invano Proserpina cominciò a gridare e a chiamare la madre. Le ancelle sulla riva rimasero impietrite e nessuna osò ostacolare l’opera malefica del Dio dell’Inferno. Solo la fidata ninfa Ciane, intervenne appigliandosi al carro di Plutone, cercando di impedirne la corsa e di strappare l’amica dalle sue mani.

Stava per riuscire nel suo disperato tentativo, ma il tremendo Dio gli assestò in testa un colpo del suo orrendo scettro e lei lasciò la presa sciogliendosi in un rivolo d’acqua vorticoso che continuò a scorrere senza opporre alcuna resistenza verso il mare.

 

 

Anapo e Ciane

 

 

Mentre Plutone continuò la corsa con il trepido fardello piangente sul suo carro, fino a scomparire sottoterra, Anapo, che aveva assistito all’orrida scena senza poter intervenire contro il mostruoso Dio, incominciò a correre per il campo dietro Ciane disciolta in acqua, cercando di fermarla, ma nulla poteva con il suo incedere di un passo che era umano. Allora si inginocchiò e chiese pregando la Dea Diana, in grado di correre lestamente all’inseguimento delle prede durante la caccia, di aiutarlo a fermare la sua amata Ciane che correva verso il mare.

La Dea, mossa a compassione, lo trasformò in fiume, le cui acque rincorsero subito quelle di Ciane e nel tentativo di fermarla si fusero insieme precipitando nel mare nei pressi dell’attuale città di Siracusa nel luogo dove ancora adesso abbracciati, raggiungono le onde marine.

 

 

La nascita del golfo di Trapani

(Drepano)

 

 

Le Ninfe rimasero sbalordite dall’apparizione di Plutone e dall’immagine della loro principessa tra le braccia del Dio, mentre Ciane si scioglieva in acqua corrente verso il mare. Rimasero mute dallo spavento e non osarono raccontare l’accaduto a Cerere per paura di riceverne una punizione da parte del mostruoso Dio.

La Dea, non vedendo più la sua diletta figliola giocare nel lago, incominciò a cercarla per ogni dove nell’isola.

Nessuno le disse che era stata rapita e che si trovava già nel Regno dei Morti.

Quando, alla fine, non la trovò, pensò che la fanciulla avesse voluto fare una gita al di fuori della sua normale abitazione.

Allora spiccò il volo verso il cielo in direzione della vicina Africa, ma in quel preciso momento si sciolse la cintura che tratteneva il falcetto, a lei tanto utile per le messi, il quale precipitò in mare con immenso fragore restando attaccato al punto estremo della Sicilia dove adesso sorge la città di Trapani, Drepano in greco. Fu così che nacque quel meraviglioso porto a forma di falce.

Ritornata dall’Africa a mani vuoti, Cerere incontrò la Fama, una Dea di allora che aveva il compito di far conoscere a tutti i fatti che accadevano nel mondo, la quale le disse chiaramente che Proserpina era stata rapita da Plutone e trattenuta nel mondo degli Inferi. Pensate un po’. Il “passa-parola”, la diceria, il “sentito dire” nel mondo mitologico prende la veste di una divinità: la Fama.

Cosa poteva fare la povera Cerere se non rivolgersi alla massima autorità divina, che era Giove, fratello suo e padre di tutti gli Dèi, compresa Proserpina, da lui generata?

Salì fin sopra le balze dell’Olimpo e si prostrò ai piedi del suo trono, chiedendogli di fare ritornare sulla terra la sua Proserpina.

Giove si trovò in difficoltà. Certamente non poteva non accontentare la sorella Cerere che, sempre servizievole, badava alla produzione dell’ambrosia e del nettare di cui si cibavano gli Dèi ma, al tempo stesso non poteva dispiacere al fratello Plutone che lo aveva aiutato a vincere i Giganti e i Titani, lontani parenti che rappresentavano le forze del male.

Giove, sapendo dalla Fama, che Plutone, mai e poi mai avrebbe rinunciato a Proserpina, incominciò a nicchiare. Allora Cerere, per convincerlo ad aiutarla, pregò Apollo di non portare a spasso per il cielo con il suo cocchio il sole. Il cielo si oscurò, il freddo incominciò a ferire la terra e la natura sembrò cessare ogni attività. Già anche tra gli Dei spesse volte si ricorreva a ricatti, larvate minacce e proteste come avviene tra gli uomini per costringersi a vicenda a fare o non fare qualcosa.

A questo punto Giove si mosse e convocò Plutone, che dichiarò apertamente di non voler lasciare Proserpina e di volerla sposare e farne la regina degli Inferi.

Giove decretò salomonicamente che Proserpina restasse durante tutti gli anni a venire per sei mesi con lo sposo sottoterra e per sei mesi con la madre sopra la terra.

Che fare, se non accettare la volontà di Giove?

Mica era come oggi che non sempre la volontà di chi governa viene osservata. Con Giove non si scherzava, egli aveva in mano l’unica arma per farsi rispettare da tutti: il fulmine.

Fu così che per sei mesi sulla terra Cerere manifesta il suo dolore con la cattiva stagione in assenza della figlia (Autunno – Inverno) e che per sei mesi fa gioire la natura per la presenza della figlia sulla terra (Primavera – Estate).

 

 

Il mito di menta

 

 

La Fama strombazzò ai quattro venti la decisione di Giove: Proserpina era diventata moglie di Plutone e regina degli Inferi e Cerere, volente o nolente, era diventata la suocera di Plutone

Le ninfe ancelle di Proserpina, che diventarono mute dopo il ratto improvviso della loro amica e principessa, accettarono la decisione di Giove e si adeguarono al dolore semestrale di Cerere, piangendo insieme a lei per la triste sorte toccata a Proserpina e all’allegria degli altri sei mesi.

Ma tra di loro ve ne fu una, che non restò muta e anzi parlò e parlò troppo non certamente per ricordare il suo affetto per Proserpina. Tutt’altro!

Era la Ninfa Menta, la quale, essendo stata abbandonata dal Dio, perse per sempre la speranza di poter diventare la moglie di Plutone, che era il suo fidanzato.

La gelosia la ferì nel petto, lacerò il suo cuore e sciolse la sua lingua. Incominciò a parlar male di Proserpina, che con quella faccia pulita e da santarellina, le aveva rubato il fidanzato.

Disse di Proserpina peste e corna, accusandola di essere una megera e di aver circuito la buona fede di Plutone, di averlo attirato con le sue arti magiche e di essere una poco di buono.

Certamente se fosse andata vestita in modo più castigato, non avrebbe attirato l’attenzione del suo Plutone, che era stato  provocato.

Tutti questi discorsi, sparsi al vento e dettati dalla gelosia, furono ripetuti dalla Fama a Cerere che non li gradì e, per punirla, la trasformò in una insulsa e anonima erbaccia,  crescente lungo gli argini dei laghi e dei fiumi, che con le loro acque disperdessero quelle parole malefiche.

Il “povero” Plutone, diventato sposo di Proserpina, un bel giorno pensò di andare a trovare la vecchia fidanzata, così, per distrarsi un poco, e quando la vide ridotta in quello stato, chiese a Giove che sciogliesse il maleficio di Cerere e restituisse alla Ninfa la sua bellezza.

Giove, che pur sempre era accomodante, con la sua divina famiglia, gli disse che non poteva disfare l’operato di Cerere, che già si era sorbito il rospo d’aver perso la figlia per sei mesi. Tuttavia una cosa poteva farla, così, in silenzio, senza tanta pubblicità e per accontentarlo trasformò quella insulsa erbaccia in una pregiatissima erba dal sapore gradevole e stuzzicante, così che lui e chiunque altro potesse goderne gradimento nel portarla alla bocca.

Plutone si accontentò di quel poco che gli fu concesso e così Menta diventò quell’erbetta prelibata che ancor oggi cresce nei luoghi umidi e serve a rendere prelibati i cibi cui si accompagna.

 

 

Il mito di Anemone

 

 

La povera Proserpina dovette abituarsi alla  sorte di moglie del Dio degli Inferi e restarsene per sei mesi con lui sottoterra per poi godersi la vita e la natura con la madre per gli altri sei mesi rimanenti dell’anno.

Ancora oggi tutte le volte che esce dalle grotte degli Inferi, è uno scoppio di colori, di sole e di gioia in tutta la Sicilia.

Proserpina, prima di raggiungere la madre e abbracciarla, si sofferma lungo le strade, i monti e le valli, piena di vita e raccoglie i fiori appena sbocciati e appoggiando lo sguardo su quanto di bello si offre alla sua vista.

Ecco che durante una di queste ricorrenze annuali, Proserpina, ancora avvolta dalla caligine infernale, scorge un giovane uomo e, assetata com’è di novità, se ne innamora e pensa già di divorziare da Plutone e sposarlo. Scusate l’illazione. Allora non c’era il divorzio, ma era possibile il ripudio e la possibilità di andare a nuove nozze. Inoltre anche allora era usanza ricorrere alle classiche corna dei nostri giorni, comunque andassero le cose.

La faccenda non era facile, anche perché quel giovane aveva tutta una storia che implicava l’interesse di Giunone, moglie non del tutto soddisfatta di Giove.

Sentite la sua storia.

Nell’isola di Cipro, dove Venere apparve splendente dalla schiuma del mare, la giovane principessa Mirra, colpita inavvertitamente da una freccia d’oro scoccata da Cupido in visita alla madre, si innamorò del padre. Essi si amarono e dal loro amore nacque un bambino, bellissimo, chiamato Anemone, che a rispetto delle leggi promulgate da Giunone in persona, doveva essere soppresso e immolato alla Dea, che era la protettrice del matrimonio.

Per inciso, agli Dèi era concesso accoppiarsi tra loro senza il rispetto della parentela, ma agli uomini questo non era concesso e ad impedirlo provvedeva Giunone, la Dea che presiedeva alle nascite, intervenendo con punizioni ed in ogni caso con la morte del neonato, da immolare a lei.

Il bimbo fu posto sull’ara per essere offerto alla Regina del cielo ma, a vederlo, quest’ultima si commosse e all’ultimo momento del sacrificio lo sostituì con un porcellino che venne bruciato vivo.

Giunone accolse tra le sue mani il bambinello tutto tremante, lo coprì con il suo mantello e lo condusse con sé affidandolo alle ninfe della Sicilia, dove crebbe, giovane, bello e forte, coccolato e istruito anche da Diana in persona, che ne fece un bravo cacciatore.

Giunone non smise di seguire Anemone e man mano che cresceva, lei si sentiva attratta da lui, al punto tale che decise di tradire lo stesso Giove.

Fu a questo punto della sua decisione che Proserpina, uscita fresca fresca dall’Inferno, si innamorasse di Anemone, suscitando la gelosia di Giunone.

Le due Dee arrivarono al punto di tirarsi i capelli, e poco ci mancò. Giunone disse apertamente a Proserpina che si levasse dalla testa quel giovane, che era cosa sua.

Proserpina piangente si rivolse alla madre per fare recedere Giunone dal suo proposito.

Cerere ricorse a Giove, prospettando il buon diritto di Proserpina a godere dell’amore di Anemone, dopo essere stata rinchiusa nelle fredde stanze dell’Inferno e costretta a sposare Plutone, che l’aveva rapita e lei non amava, ed espose a Giove che sua moglie Giunone osava opporsi alla felicità della figlia impedendo che i due si amassero.

Naturalmente non disse quale fossero le effettive mire di Giunone, prospettando che lei si opponeva quale madre putativa di Anemone. Non poteva mica dirgli apertamente che Giunone tentava di cornificarlo con quel bel giovane.

Il povero Giove, che non ne poteva più del fastidio che gli procurava la faccenda del ratto di Proserpina e di tutte le conseguenze che lo avevano infastidito, prese la sua solita decisione salomonica.

Decise che il giovane venisse trasformato in fiore e che durante l’inverno venisse affidato alle amorevoli cure di Giunone, sua madre adottiva, e che all’inizio della buona stagione, quando Proserpina fosse solita uscire dall’Inferno, fiorisse per essere amato e posseduto dalla figlia di Cerere.

È questa l’origine del bellissimo fiore Anemone, che tutti conosciamo. Galeotto fu il  ratto di Proserpina!

 

 

LA NASCITA E IL MATRIMONO DI VULCANO

 

Quando un bel giorno Giunone si rese conto che suo marito Giove la tradiva facilmente, si incavolò per davvero.

Poco mancò che si lanciassero addosso l’ambrosia e il nettare assieme ai piatti e le anfore a tavola durante il pasto serale.

Tuttavia molte volte aveva fatto finta di non saper nulla, ma da quel  giorno che Giove rapì la principessa Europa, la sua rabbia divenne incontenibile e per dimostrargli che avrebbe potuto fare a meno di lui, si chiuse in un angolo di cielo nascosto tra le nubi e dette alla luce un bambino, concepito senza l’opera di Giove e di alcuno.

Gli disse chiaro e tondo che anche Lei era capace di   generare un altro Dio da sola, esattamente come lui aveva fatto con Minerva, nata dal suo cervello.

In questa occasione nacque Vulcano. La Dea lo guardò e rimase insoddisfatta. Non le piacque proprio. Aveva gli occhi e le orecchie troppo grossi, i capelli ispidi e di colore strano. Non parliamo della bocca che sembrava un forno a legna e tutto il corpo sembrava fosse un mostro che sapeva di animalesco. Ecco, le sembrò una specie di gorilla bruttissimo e sgraziato.

Disgustata del risultato prese quel bambino per un piede e sporgendosi dalla nube dove si trovava, lo lanciò giù verso terra. Il povero Vulcano, inconsapevolmente e senza difesa, precipitò giù come un sacco di patate e quando toccò terra, proprio in Sicilia alle falde dell'Etna, nell’impatto con la nera lava, si ruppe una gamba ma restò miracolosamente vivo.

In verità non tanto miracolosamente, poiché essendo nato da Giunone che era immortale, anche lui lo era. Ciò non impedì al Dio di aver compromesso la funzionalità della gamba. In sostanza restò zoppo per tutta la vita.

Al fatto che era brutto e malfatto, si aggiunse quest’altro grave difetto di essere claudicante.

Il neonato buttato via da Giunone, fu accolto dalle ninfe, che curarono alla meno peggio la sua gambetta ed ebbero cura di lui.

Furono le ninfe a dargli il nome Vulcano avendolo trovato dolorante proprio sopra l’Etna, che era un vulcano.

Vulcano, crebbe così a contatto con l’Etna e, cercando di vincere la sua disistima, pensò di specializzarsi nell’arte di lavorare il ferro. Aveva a disposizione una immensa fucina, ricca di fuoco senza fine che gli consentiva di riprodurre qualunque cosa volesse e poi aveva anche la collaborazione dei Ciclopi, i mostri con un occhio solo in fronte, che vivevano sull’Etna.

Con non poca fatica e con molta buona volontà cercò di sopperire alla sua bruttezza e al suo difetto fisico, riuscendo a diventare il fabbro ufficiale di tutti gli Dèi. La sua officina situata in un antro dell’Etna, era frequentata da tutte le divinità. Il più assiduo era Marte, il Dio della guerra, a cui piaceva menare le mani intervenendo personalmente nelle battaglie. Per questo andava da Vulcano ora per farsi riparare l’elmo, ora lo scudo, ora la spada … Addirittura alla Dea Teti aveva costruito le armi per il figlio Achille, per farlo ritornare a combattere, e la stessa cosa fece per Venere, forgiando le armi di Enea.

Ma ecco che un bel giorno gli si presentò anche Giunone in persona, la quale, arrabbiatissima con Giove, che si era addirittura trasformato in cigno per conquistare la bella principessa Leda, pensò di snobbarlo facendosi costruire un trono più sfarzoso del suo. Pensò che l’unico a poter fare questo lavoro fosse proprio Vulcano.

Immemore del torto fattogli, la Dea altezzosamente si presentò a Vulcano, che si mostrò rispettoso e ossequiante, covando in petto una vendetta che già assaporava. Ascoltò la richiesta di Giunone e si mise a lavorare con gran lena. Quando finì la sua opera, si recò dalla madre presentandole un trono maestoso, che superava di gran lunga quello di Giove. Non chiese nulla alla Dea per quel suo lavoro e quest’ultima nemmeno lo ringraziò.

Appena Vulcano andò via, Giunone si assise maestosa sul trono per provarlo, ma ecco che scattò una trappola che l’ingegnoso Vulcano aveva preparato. La Regina del cielo rimase inchiodata senza più riuscire ad alzarsi. Un maledetto marchingegno l’aveva imprigionata sul suo trono.

Le grida si levarono nel cielo e il pianto della Dea incominciò a inondare la terra, al punto tale che Giove disturbato da quello strepito intervenne per sapere cosa diavolo avesse. Constatato lo stato della moglie sul trono, cercò di liberarla, senza riuscirvi, nonostante la sua forza e la sua magnificenza.

A questo punto pregò Vulcano, anzi gli ordinò di volergli liberare la moglie da quella scomoda posizione. Ma Vulcano rispose picche dicendogli chiaro e tondo che quella era la sua punizione per essere stato abbandonato dalla madre e per essere diventato zoppo oltre che brutto. Grazie a Lei adesso lui era costretto a vivere da solo, perché nessuna Dea era disposta a sposarlo.

Giove che con i suoi Dèi sottoposti era sempre stato accomodante, gli disse: - Guarda che facciamo: tu liberami Giunone, così la smette di strillare e di turbare la pace del cielo ed io ti prometto di farti sposare la più bella di tutte le Dee.-                                                                                          – Intendi dire Venere? - rispose Vulcano.

-Sì, Venere - ribatté Giove.  - Accetto e credo nella tua promessa - rispose Vulcano, che consegnò a Giove la chiave per disinnescare la trappola.

Giunone ritornò libera di alzarsi dal trono e Giove chiamò Venere, manifestandole il desiderio di vederla accasata con un Dio a modo, lasciando quel fidanzato che aveva, un poco turbolento e sempre in giro a combattere. Intendeva Marte, poiché la Dea in quei giorni aveva una storia con lui.

Le disse Giove, che a lei necessitava un marito tranquillo e lavoratore e per questo aveva pensato di farla sposare con Vulcano, persona tranquilla, lavoratore e ben voluto da tutti gli Dèi e da tutti gli uomini. Era zoppo, ma aveva il fuoco nelle vene, il fuoco dell’Etna fonte d’amore e di felicità.

La Dea nicchiò un poco ma alla fine accettò di sposare il Dio sciancato per accontentare il Padre di tutti gli Dèi, ma continuò a vedersi con Marte di nascosto e un bel giorno Vulcano, accortosi dell’infedeltà della moglie, li colse in trappola mediante un suo marchingegno che scattò sui due mentre si baciavano sul letto. Nonostante tutto Vulcano perdonò Venere e continuò a essere sposato con lei, nonostante l’avesse umiliata davanti al mondo intero.

 

 

 

 

IL MITO DI MINOSSE

 

 

La leggenda vuole che Minosse, morisse in Sicilia e che avesse avuto la sua prima sepoltura nella grotta della Gulfa, nel territorio dell’attuale comune di Alia.

 

Prima di raccontarvi questa storia, è bene che vi dica chi fosse Minosse e il mito che lo riguarda, legato un poco a un’avventura di Giove.

Un bel giorno il padre degli Dèi stava correndo verso le coste dell’Asia per assistere a un sacrificio in suo onore, quando vide lungo la riva del mare, la giovane principessa Europa, che distesa sulla spiaggia, prendeva il sole. Alla vista di quella fanciulla, si dimenticò del sacrificio e, trasformatosi in un toro dalle robuste corna e dagli occhi rotondi, si accovacciò accanto alla giovane fanciulla, guardandola solamente con i suoi occhi ammaliatori. Europa, che amava gli animali, lo accarezzò e cominciò a giocare con lui, che la lasciava fare. A un certo punto ella si mise a cavalcioni del toro, che sollevatosi incominciò a trotterellare in direzione del mare e, raggiuntolo, incominciò a nuotare e a grandissima velocità, in men che non si dica, spinto anche da Nettuno, raggiunse l’isola di Creta. Qui giunto, rivelò a Europa chi fosse e che si era innamorato di lei e che aveva deciso di averla come seconda sposa e di farne la Regina dell’isola.

Chiaramente la giovane Europa fu lusingata dalle attenzioni del Re del cielo e accettò questo suo ruolo, che la rendeva superiore a tutte le altre donne e anche alla stessa Giunone. Ma si ingannò, poiché Giove, occupatissimo nelle faccende del mondo intero, assillato dalle bizze della moglie Giunone e da tanti problemi che gli creavano uomini e Dèi, trascurò la povera Europa, la quale, messo al mondo Minosse, figlio di Giove-Toro, passò la sua vita solitaria, guardando all’orizzonte quella striscia di terra che vedeva lontano e che per questo fu chiamata Europa, dal suo nome.

Minosse, con l’aiuto di Giove, crebbe giovane e forte e diventò il Re di Creta, ma non un re qualsiasi, come tanti a quei tempi.

Egli impose il suo dominio anche su Atene, parte della Grecia e anche su tutta la Sicilia. Per questo motivo ci teneva ad avere i favori del Dio Nettuno che lo aiutasse nelle sue avventure marine e anche al padre Giove, cui sacrificava giornalmente un animale dell’armento reale.

Per avere maggiori favori, memore dell’impresa del padre Giove, pensò di sacrificargli il toro più bello del mondo. Per questo pregò Nettuno di fargli approdare nell’isola un bellissimo toro, degno delle sue aspettative. Nettuno lo accontentò e una bella mattina Minosse trovò sulla spiaggia un superbo esemplare di toro.

Appena lo vide fu felice di accoglierlo nelle stalle reali, ma “dimenticò” della preghiera fatta a Nettuno e non pensò più di sacrificare quel meraviglioso animale al padre che, sicuramente si sarebbe accontentato di un sacrificio più modesto, mentre il suo toro sarebbe diventato il capostipite di una razza pregiata.

Lo mostrò alla moglie Parsifae e di comune accordo decisero di allevarlo e di coccolarlo come fosse un principe di sangue reale.

Se Giove non s’incavolò della scelta di Minosse e di sua moglie, non conoscendo la promessa del mancato sacrificio, Nettuno, invece ci restò male e mise in pratica un sortilegio che colpisse entrambi per la mancata promessa.

Fu così che la moglie di Minosse, a causa del toro, rimase incinta e dopo i nove mesi di gestazione, dette alla luce un bambino con la testa appunto di toro. Un mostro che Nettuno gli impose d’allevare per punirlo della sua mancata promessa.

Il povero Minosse, per nascondere la vergogna di quella sua cattiva azione e tenere segreta la figura di quel mostro, che tra l’altro, crescendo, si cibava di carne umana, ordinò al suo architetto personale, Dedalo, di costruire un labirinto dal quale non potesse mai venir fuori.

Il mostro in questione, altri non era se non il Minotauro, il cui cibo, costituito di giovani uomini veniva fornito periodicamente, come tributo dalla città greca di Atene.

La città, cara alla dea Minerva, oberata da questo triste tributo da versare, pensò, cosa non facile, di dover uccidere quel mostro e far cessare quel tributo di carne umana.

Scelse il giovane eroe Teseo e lo inviò come una delle vittime sacrificali, con l’incarico di uccidere il Minotauro. Cosa veramente poi non tanto difficile, ma l’impresa ardua era quella di venir fuori dal labirinto.

Teseo partì, insieme agli altri giovinetti, con una nave dalle vele nere e per rincuorare il padre Egeo, che piangeva, gli assicurò che sarebbe tornato vincitore e, per anticipargli la gioia di ritornare vivo, promise che al ritorno, avrebbe cambiato la velatura della nave sostituendo il nero con il bianco.

Giunto a Creta, in attesa del turno di essere introdotto nel labirinto, conobbe la giovane figlia di Minosse, Arianna, che si innamorò di lui e avendo a cuore che lui uscisse vivo dal labirinto, dopo aver ucciso il Minotauro, gli dette un rocchetto di filo, da distendere lungo il percorso fin dall’entrata e così poterne uscire percorrendolo a ritroso.

Quando giunse il suo turno, Teseo fu introdotto nel labirinto che egli percorse srotolando il filo del rocchetto fino a raggiungere il mostro. Appena lo incontrò, grazie alla sua forza erculea, ebbe la meglio sul Minotauro, che lasciò stecchito. Ripercorrendo il filo, uscì dal labirinto, dove lo attendeva Arianna.

La seconda fase del piano prevedeva la fuga di Teseo e Arianna verso la Grecia. Ma appena la nave giunse a Nasso, Teseo fece sbarcare Arianna lasciandola sulla spiaggia soletta e abbandonata. Indi proseguì felice e contento verso Atene, ma dimenticò di cambiare la velatura della nave.

Sicché il vecchio padre Egeo, vedendo a distanza la velatura nera, interpretò che il suo amato Teseo, non ce l’avesse fatta e fosse stato mangiato dal Minotauro. In preda alla disperazione e al dolore egli salì su una rupe alta sul mare e si lasciò andare tra le onde annegando.

In ricordo di questo fatto, così ricco d’amore filiale, quel mare fu chiamato Egeo.

Ed Arianna, che fine fece?

Non le rimase che piangere lungo la riva del mare e maledire quel mascalzone di Teseo, per il cui amore aveva tradito suo padre.    Ma la storia non fini lì.                                                                                                   

Proprio nell’isola di Nasso, in quei giorni era arrivato Bacco, il Dio del vino, in occasione di un sacrificio in suo onore. Aveva partecipato alla festa ed era ubriaco fradicio.

In preda ai fumi del vino si recò lungo la spiaggia e scorta Arianna piangente, la consolò, e dopo la portò con sé, in Sicilia, sui monti Nebrodi, in un paesetto a ridosso di Messina, che oggi si chiama Fiumedinisi, (Fiume di Dionisio[1]).

Questo luogo, dove oggi vivono poco meno di mille abitanti, ricca di alberi secolari, costellata di un mucchio di casette lungo gli argini di questo fiumiciattolo, quasi privo di acque in estate e percorso da torbide correnti spumeggianti in inverno è proprio l’ideale per trascorrere un sereno riposo pregustando prodotti agricoli del posto, nonché salumi annaffiati da vini locali.

In questo posto Bacco condusse Arianna e non l’abbandonò, se non dopo aver ottenuto di trasformarla in un brillante sciame di stelle, che ancora oggi brilla in cielo.

 

Per ritornare al nostro Minosse, Re di Creta, dominatore della cultura pre-ellenica, bisogna dire che, dopo la morte del Minotauro, egli se la prese non solo con la figlia, che lo aveva tradito, ma soprattutto con Dedalo che non aveva reso sufficientemente sicuro  il labirinto. In poche parole, divenne più diffidente e dispotico e così senza tanti complimenti rinchiuse Dedalo e suo figlio Icaro nel Labirinto per punirlo di colpe che non aveva.

Dedalo, che era un ingegnoso scienziato, oltreché architetto, costruì con le penne degli uccelli, legate insieme con la cera prodotta dalle api, due coppie di ali e ne applicò una sulle spalle del figlio e una sulle sue. In questo modo, evasero dal labirinto e spiccarono il volo nel cielo alla ricerca di nuovi lidi più sereni.

Raccomandò al figlio di non avvicinarsi troppo al sole, perché altrimenti  la cera si sarebbe sciolta e sarebbe precipitato nel mare. Icaro non ascoltò il consiglio del padre e si avvicinò al sole come per sfidarlo. La conseguenza fu che la cera si sciolse, le piume delle ali si dispersero nell’aria e lui cadde nel mare perdendo la vita.

Dedalo continuò il suo volo verso la Sicilia e tenendosi lontano dal sole, atterrò nei pressi di Alia, nel palermitano, dove viveva un re che si chiamava Eaco, e aveva due figlie da marito. Egli accolse nella sua reggia Dedalo, colmandolo di onori, essendo stato preceduto dalla fama del suo ingegno. Le due figlie furono felici di quell’arrivo e ognuna, per proprio conto, sperava di poterlo sposare.

Intanto Minosse, che non aveva digerito la fuga di Dedalo, lo cercò in ogni dove, con la speranza di riportarlo a Creta. Gli fu riferito che Dedalo era approdato in Sicilia e che era stato ben accolto da Eaco, un suo vassallo.

In effetti, Minosse aveva esteso il suo potere fino in Sicilia, e i re delle varie città erano suoi sudditi, compreso Eaco.

Avuta la notizia, Minosse si recò in Sicilia e andò a trovare Eaco, che lo accolse con tutti gli onori.

Le due figlie, avendo saputo il motivo della venuta di Minosse, che era quella di riportarsi in Creta Dedalo, non gradirono il suo arrivo, perché vedevano svanire la speranza di non restare nubili.

Loro due, diabolicamente, versarono sull’ospite, mentre faceva le abluzioni prima di andare a letto, una grossa pentola di acqua bollente che provocò la sua morte. 

Nonostante fosse stato sepolto con tutti gli onori nella grotta, che oggi si chiama Gulfa, scoppiarono delle sommosse in Sicilia, dove vi era anche una nutrita storia di oppositori a Minosse. Il suo corpo venne riesumato e restituito a Creta. Così fini la dominazione della civiltà minoica in Sicilia.

La Gulfa, era una grotta naturale, che in verità, non si chiamava così. Nonostante la leggenda dica che quella fosse la tomba di Minosse, questa grotta, molto tempo dopo, venne utilizzata dai saraceni come magazzino e fu chiamata con il nome di Gulfa che, appunto, in arabo significa Magazzino, deposito.

 

IL MITO DI SCILLA E CARIDDI 

                                                                                                                         Di questo mito se ne occupò ampiamente Ovidio nelle sue Metamorfosi e riguardano due punte estreme dello stretto di Messina, allora Zancle. Scilla è sulla costa Calabra e Cariddi su quella sicula. La turbolenza che vi è in quel punto dello stretto dovette impressionare molto gli antichi Greci. Tant’è che il povero Ulisse,  durante il suo  viaggio di ritorno ad Itaca, ebbe la disavventura d’incapparvi perdendo tutte le sue navi ed i suoi compagni e restare naufrago sulle rive del territorio dei Feaci, che, poi, lo condussero nella sua patria. Racconta Ovidio che Scilla fosse una bellissima fanciulla, figlia  di Ecate, la quale era solita passare in allegria le sue ore di riposo in riva al mare. Un giorno, mentre guardava le onde, vide emergere uno strano essere che disse di essere il Dio marino Glauco e che si era innamorato di lei. La fanciulla, spaventata dall’apparizione fuggì e rifiutò il suo amore.-                                                                      Racconta Ovidio che Glauco, in veste di pescatore, un bel giorno vide i pesci da lui pescati e poggiati sull’erba, saltellare e tuffarsi redivivi allegramente in mare. Stupito dal sortilegio, pensando che causa di quello evento fosse l’erba su cui erano stati messi, ne raccolse una buona quantità e la ingoiò. Seduta stante sentì il bisogno di tuffarsi in mare come avevano fatto i pesci ed inoltre sentì spuntarsi addosso le squame e le pinne. La Dea Teti, regina delle Ninfe marine, lo accolse fraternamente e completò la sua trasformazione in pesce, facendolo diventare, anzi, il Dio marino Glauco. Quando Glauco vide la fanciulla Scilla sulle rive del mare, se ne innamorò, come  allora capitava non solo agli uomini, ma anche agli Dei. Purtroppo ne ricevette il suo netto rifiuto e, siccome al cuor non si comanda, pensò a come fare per conquistare questo suo terreno amore. Si recò nuotando nell’isola di Eea, dove vi era la Dea Circe, specializzata in filtri amorosi. La pregò di approntargliene uno per la sua Scilla . La maga gli rispose che lui non era più un uomo, ma un Dio e, quindi, non aveva bisogno di alcun filtro. Doveva soltanto prenderla e farla sua, volente o nolente e lei, in quanto donna mortale avrebbe dovuto … accondiscendere.    – Giammai! – rispose Glauco – Io l’amo e non farò mai una cosa simile perché sarebbe come tradirla e mancarle di rispetto. Ciò detto, se ne tornò rassegnato nel suo  mare.    La Maga Circe, ci rimase veramente male e stupita che una donna mortale fosse stata capace di rifiutare un amore divino, , ne ebbe gelosia, non solo come Dea, ma anche come donna. Non ammetteva, inoltre, che una donna mortale potesse rifiutare l’amore di un Dio. Pensò dunque di punirla. Preparò un filtro particolare e con la sua barca andò nel punto dove Scilla era solita fare il bagno e  lo sversò nelle onde abbondantemente. Quando l’inconsapevole Scilla entrò in acqua per farsi il bagno, improvvisamente  sentì trasformarsi in un mostro con sei teste e dodici zampe, che le impedirono di uscire dall’acqua, facendo girare intorno a se vorticosamente l’acqua. Per non annegare non le restò che chiedere aiuto a Cariddi, la donna che le stava di fronte, prigioniera nell’antro, costretta a risucchiare le acque ed a vomitarle. Quel loro connubio rimase in eterno. Lei, Scilla pronta a dilaniare chiunque le si avvicinasse e Cariddi a respingere le onde che venivano prima risucchiate.                                                                       Anche quest’ultima si trovava in quel posto a causa di un sortilegio, che racconto pure.  Cariddi era la figlia di re Forco, la quale ebbe l’ardire di rubare i buoi di un certo Gerione, nel cui affare, pare fosse immischiato anche Eracle o, come lo chiamavano i latini, Ercole. Questa sua avventata   azione suscitò l’ira di Giove che la scagliò in terra insieme ad un fulmine uccidendola. Un’altra versione del mito dice che ne fosse Ercole l’uccisore. Sta di fatto che finì di vivere. Allora il padre Forco, per intercessione divina, o forse Giove, la richiamò in vita, condannandola, però, a bere continuamente grandi quantità di acqua e rigurgitarle in eterno. Ancora adesso Scilla e Cariddi sono sulle opposte sponde della Calabria e della Sicilia ad ostacolare il passaggio dei navigli in quel punto ed il povero Glauco ancora oggi è costretto ad assistere allo scempio di quel suo infelice amore. I navigli  di passaggio, vengono dal rigurgito ondoso di Cariddi spinti contro le membra rocciose di Scilla.                                                                                                    Veramente ai nostri giorni ciò non accade perché le navi non sono deboli come quelle di quei tempi e sono tecnicamente più idonee a resistere alle correnti ed alle intemperie del mare.

 

 

 

Il MITO DEI FRATELLI PII, ANAPIA ED ANFINOMO                                                        

 

Questo  mito leggendario è legato alle eruzioni dell’Etna e tende a voler evidenziare la Pietas dei figli nei riguardi dei genitori, il cui spirito venne colto da Virgilio, che nell’Eneide ne traslò l’immagine, quando Enea fuggendo da Troia in fiamme si pose sulle spalle il genitore Anchise salvandolo dalla morte. Questa leggenda è ambientata e ricordata    in occasione di una eruzione dell’Etna, probabilmente avvenuta ai tempi in cui si formò il cosiddetto Lago di Nicito a Catania, o forse prima, quando la corrente di lava prorompente a valle ebbe uno strano percorso che risparmiò alcuni tratti di territorio. Non nascondo che ancora adesso, ai nostri giorni, esiste in proposito la credenza, chiamatela pure mito o leggenda, dell’intervento divino nelle eruzioni dell’Etna con la esposizione del famoso velo di Sant’Agata. Per ritornare al nostro antico mito dei fratelli Pii, vi racconto che due fratelli catanesi, contadini e montanari, abitanti sul  fianco del nostro vulcano, chiamati Anapia ed Anfinomo, un bel giorno, anzi un brutto giorno, furono costretti ad abbandonare la loro casa perché incalzati dalla lava prorompente a valle. Avevano il modo di salvarsi facilmente, potendo precedere agevolmente il fiume di fuoco che li incalzava, ma il loro procedere risultò lento ed accidentato, poiché furono costretti a caricarsi sulle spalle i loro vecchi genitori non in grado di poter camminare, esattamente come Virgilio descrive l’operato di Enea con il padre Anchise. Pur procedendo con solerzia e sforzo massimo, il fronte della lava stava per raggiungerli. Per salvarsi bastava lasciare lì i loro genitori e correre verso la salvezza, ma non lo fecero. Continuarono il loro cammino con caparbia costanza, decisi a salvarsi o morire tutti insieme. Fu a questo punto che avvenne il miracolo. Il fiume di lava si aprì in due direzioni  diverse, lasciando al centro uno spazio di terreno dove i due fratelli con il loro prezioso carico continuavano ad avanzare lentamente, portando in salvamento i loro genitori. Il fatto fu risaputo e suscitò molto scalpore, tanto che quel tratto di terreno salvato dalla lava venne chiamato il Campo dei fratelli Pii.   La leggenda o mito non parla di interventi di un Dio in particolare. Chissà! Forse Giove o forse Vulcano o forse la stessa lava, stupita da tanto ardore ed amore filiale E’ stato tramandato il fatto oralmente fino ai nostri giorni, così come avvenne ed a perenne ricordo sui fianchi dell’Etna è rimasto, indenne nel tempo da colate laviche, il   Campo dei fratelli Pii.                                                                                                                           

 

 

I FIUMI DI SICILIA ED IL MITO   DEI FIUMI FANTASMA                                     

 

 Sul versante Nord-Est del nostro vulcano vi è il monte Mojo, famoso per essere il cocuzzolo di un cratere spento e perché da esso trae origine il fiume Alcantara, che affonda il suo percorso tra le gole rugose delle rocce laviche, probabilmente effuse dallo stesso cratere. Stupendo l’effetto scenico dell’acqua che scorre negli anfratti rocciosi. E’ da dire che forse questo è l’unico fiume che scendendo dalle balze dell’Etna sia riuscito a restare indenne ed a cielo aperto fino al mare, restando vincitore nei confronti del vulcano e della sua lava distruttrice. E’ noto infatti  che L’Etna è un noto assassino di fiumi. L’elenco è abbastanza folto: Aci, Amenano,  Longane, Fiumefreddo.                                                        

 Il primo, l’Aci, è letteralmente scomparso. Come già precedentemente detto scendeva lungo il pendio Nord-orientale del vulcano e sversava le sue acque a delta nel mar Jonio a Nord di Catania. Tale bacino  doveva essere abbastanza vasto, poiché oggi tale zona è stata suddivisa in parecchie località chiamate tutte ACI: Aci Reale, Aci Bonaccorsi, Aci Catena, Aci San Filippo, Aci Sant’Antonio. Molto probabilmente ad ogni località corrispondeva un ramo del delta. Si presuppone che il suddetto fiume, di cui esiste solo il ricordo mitologico, estendesse il suo percorso  in una zona dell’Etna che sia implosa in tempi remotissimi, e che corrisponda all’attuale immenso terreno di Vallo del Bove.                            

Gli altri tre fiumi continuano a scorrere, ma sottoterra.      Le vicende del fiume Amenano sono molto note. Catania sorgeva fin dai tempi più antichi lungo le sue rive, a ridosso del mare. Si ritiene che esso nascesse nei pressi dell’attuale cittadina di Randazzo e parzialmente coperto dalla lava, abbia dato luogo, prima di attraversare Catania, ad un lago, detto di Nicito, successivamente scomparso a causa di una successiva eruzione. Attualmente tale zona risulta intensamente abitata e  coperta da civili abitazioni ( Piazza Santa Maria Di Gesù, via Lago di Nicito e dintorni.) Il lago si chiamava di Nicito per ricordare Nike, la Dea della vittoria, poiché in quel lago si svolgevano delle gare marittime con delle vittorie assegnate ai vincitori. Il fiume venne definitivamente fatto scorrere sottoterra in occasione del terremoto del 1669. Esso sfociava a delta nel mare Jonio in tre rami: Zia Lisa, Piazza Duomo e Piazza Federico Di Svevia. Attualmente il solo ramo di Piazza Duomo  si fa vivo nel monumento “Acqua o linzolu” per finire definitivamente e sommessamente a mare. Talvolta il fiume, pur essendo ormai sotterraneo, tracima ed invade via Etnea, che si trasforma per alcuni giorni in un torrente turbolento.                                

L’altro fiume fantasma di Catania è il Longane. Esso nasceva alla Barriera, dove ha inizio via Due Obelischi, attraversava il cosiddetto Piano di Leucatia, dando luogo al Canalicchio proseguendo fino ad Ognina e sfociando ad estuario nell’attuale piazza Mancini Battaglia. Tutte queste zone sono ormai quartieri di Catania, avendo la lava coperto tutto il percorso del Longane, che zitto, zitto ha continuato a scorrere sotto la lava solidificata Infatti le acque della costa di Ognina sono dolci e si mescolano con quelle del mare. E’ da ricordare che l’estuario del Longane era grandissimo e costituiva il porto naturale di Catania. La cronache ricordano che era in grado di contenere tutte le navi della flotta spagnola.                                                                                      Del tutto ignoto è ormai il percorso del Fiumefreddo, essendo stato parecchie volte investito dalla lava. Tuttavia egli scorrendo sotto la roccia sfocia sicuramente presso la cittadina di Fiumefreddo, così chiamata perché le acque della costa sono fredde, mischiate a quelle provenenti dall’Etna.                                                          

 

 

 

 

I FRATELLI PALICI

 

Lu mitu voli ca lu patri Giovi,

quannu s’acchiappava cu’ Giunoni,

muggheri anticchia tinta e gnurriusa,

facissi scappateddi nta lu celu,

circannu di sfugari la so’ raggia.

                                                       

In uno di quei giorni antipatici per Giove, avvenne che egli, arrabbiatissimo, lasciasse in asso la moglie sull’Olimpo e affidandosi a una nuvola che guidava come fosse una motoretta, se ne andasse a trovare la sorella Cerere, indaffarata a raccogliere le messi biondeggianti nella piana di Catania, ma mentre girava lo sguardo intorno, scorse a distanza la ninfa Thalia che sola soletta sulle falde dell’Etna, se ne stava a raccogliere fiori.

Così, tanto per distrarsi e fare un dispetto a Giunone, scese dalla nuvola e la raggiunse cingendola con le sue enormi braccia. La povera Thalia non resistette all’attacco amoroso del padre degli Dèi e si abbandonò al suo impeto. Si lasciò amare teneramente pur temendo le ire della moglie ingannata, ovvero di Giunone.

Infatti, Giunone sbirciando dal suo trono la scena, nulla potendo contro il marito che, se avesse voluto, avrebbe potuto annientarla, fece nei confronti della povera Thalia un gesto più che eloquente per farle capire che gliela avrebbe fatta pagare cara.

Appena Giove la lasciò andare per ritornare a godersi un po’ di serenità, lontano sempre da sua moglie, la povera Thalia, tutta tremante e paurosa, corse a ripararsi nelle viscere della montagna e di là, per vie sotterranee, giunse in un luogo dove sicuramente Giunone non l’avrebbe mai trovata e lì rimase nascosta.

Intanto l’amore con Giove incominciò a dare i suoi frutti. Thalia si accorse di essere in dolce attesa. Questo fu un motivo in più per restare nascosta e farsi dimenticare.

Alla fine ecco che nacquero non uno ma tanti figli, tutti scalpitanti e desiderosi di venir fuori dalla terra e godersi il sole e l’aria salubre della Sicilia. Erano i Fratelli Palici, così chiamati perché il loro aspetto, a forza di restare sotto terra, era di un pallore mortale che metteva i brividi a chiunque li guardasse.

La povera Thalia fece di tutto per trattenerli sotto terra con lei, ma non vi riuscì. Alla fine, questi suoi figli, attraverso delle pieghe del terreno si affacciarono all’aria trepidanti e spandendo intorno un sopore sulfureo cominciarono a venir fuori a intermittenza, dando luogo a dei prodigi mai visti prima. Poi come per incanto scomparivano e ricomparivano in un altro punto come fantasmi puzzolenti ed evanescenti. La zona fu denominata per questo motivo la terra dei Fratelli Palici.

Ma che fine fece Thalia? Non usci più dalle viscere della terra e pare che ancora adesso vi resti nascosta e timorosa di dover incontrare Giunone.

 

A causa di questi strani fenomeni, la zona diventò impraticabile e corse la fama che quella fosse una zona maledetta, dove regnavano degli spiriti maligni, appunto i fratelli Palici.

Per questo motivo diventò la sede di tutti gli antichi schiavi che si ribellarono a Roma. Infatti, la gente aveva paura di avventurarsi in quei luoghi ritenuti maledetti ed essi lì vivevano sicuri che nessuno venisse a cercarli.

In quel luogo, dove ormai queste esalazioni sono scomparse arricchendo la terra di fosfati e altri componenti azotati, oggi sorge la cittadina di Palagonia, dedita in particolar modo alla coltivazione degli agrumi.

 

 

 

NARCISO ed Eco

 

 

Eco era una Ninfa siciliana, che volendo gareggiare in bellezza con Giunone, fu punita dalla Dea a far sentire la sua voce senza avere più la possibilità di mostrarsi.

Per questo vagava tra i boschi, nelle profonde valli, tra i monti verdeggianti, facendo sentire la sua voce ammaliatrice e nostalgica senza mai mostrare il suo viso.

Un giorno, mentre se ne stava serena a ripetere le sue lente litanie al vento, un bellissimo giovane di nome Narciso andava per boschi alla ricerca di qualcosa che lo potesse eccitare.

Narciso si guardava attento d’intorno con tutti i sensi pronti a captare ogni immagine e ogni rumore. Ad un tratto udì una voce dolcissima che lo ammaliò, volse lo sguardo, ma non vide nessuno, anzi nessuna, poiché la voce era femminile.

Allora gridò con tutta la sua forza: «Dove sei? Da dove vieni?» Si senti rispondere da una voce lontana. «Vieni, vieni, vieni …»

Narciso corse verso la direzione da dove veniva la voce lontana e non trovando alcuna persona, ripeté la domanda e la stessa voce rispose ancora: «Vieni, vieni, vieni …»

Corse ancora senza vedere la persona che lo invitava.

Era la voce di Eco, che innamoratasi del bellissimo Narciso, continuava a ripetere quel vieni che poi altro non era se non l’ultima parola della domanda di Narciso. Alla fine stanco e assetato, si fermò a bere in uno specchio d’acqua stagna.

Chinatosi vide riflessa nell’acqua la sua immagine, che lui credette essere quella della donna che lo chiamava e la trovò così bella che se ne innamorò.

Tale fu l’emozione di cui fu colpito, che improvvisamente egli si trasformò in un fiore bellissimo che ancora oggi si riflette ad ammirare se stesso lungo gli argini degli acquitrini di acqua stagna e si chiama Narciso.

 

 

 

 

 

     LE PUNIZIONI DI GIUNONE

 

 

Certamente Giunone non era una Dea-donna molto accomodante. Tutte le volte che riteneva di aver subito un torto, rispondeva sempre per le rime e con molta cattiveria. Per questo motivo Thalia temeva la moglie di Giove.

Quando si sposò con Giove, avendo invitato tutte le Dee e gli Dèi del mondo, che giunsero puntuali per assistere all’avvenimento, vi fu una sola Ninfa che si presentò in ritardo e con molta umiltà le chiese scusa e perdono per quel suo ritardo. Era Chilona che, poverina, era stata costretta ad arrivare in ritardo perché soleva portare sempre con sé la casa dove abitava.

Sapete cosa fece Giunone per tutta risposta? Le disse semplicemente: «Brava Chilona per essere venuta. Accetto le tue scuse e ti perdono. Perciò da oggi ti premio, facendoti diventare la più lenta di tutte le Ninfe.» Così dicendo la trasformò in tartaruga.

Un’altra volta una bellissima Ninfa Aracne che, attorno al focolare domestico di Vesta, aveva appreso l’arte del ricamo, si permise di dire che era più brava della stessa Giunone in quella sua arte e osò anche sfidare la Dea a una gara di ricamo, aggiungendo che ne sarebbe uscita vincitrice.

Per avere solamente pensato e detto una simile cosa, Giunone senza pietà la trasformò in ragno, costringendola a tessere ragnatele negli angoli più remoti delle case. E ancor oggi nei vecchi casolari disabitati, Aracne continua a tessere ragnatele in eterno.

Già vi ho detto che per fare un dispetto a Giove, Giunone concepì  da sola il Dio Vulcano, che poi buttò via dal cielo.

Non vi dico poi del pandemonio che combinò per ostacolare l’arrivo nel Lazio di Enea, fuggitivo da Troia.

Vi ho anche parlato dei dispetti fatti a Proserpina, che si era innamorata del giovinetto Anemone, costringendo Giove a trasformarlo in fiore.

Anche il povero Narciso subì le conseguenze del sortilegio di Giunone nei confronti della Ninfa Eco.

Uno dei dispetti più famosi fu quello che fece a un certo Dafni e che ancora dura.

Era Dafni il figlio unico del Dio Mercurio, che per quanto ladro e lazzarone e anche un po’ furbetto oltre al consentito, si innamorò perdutamente di una bella fanciulla siciliana e la sposò pure. Dal loro amore nacque Dafni, un giovane a modo, rispettoso del prossimo e osservante delle regole del buon vivere. Insomma era un galantuomo, molto diverso dal padre, cui piaceva anche rubare e ingannare gli altri Dèi con scherzi un poco pesantucci.

Dafni, che tra l’altro conduceva una vita serena e gioiva della natura girando per i campi suonando il flauto, che a lui aveva donato il Dio Pan, dalle sembianze di un uomo con le zampe da caprone, incontrò un bel giorno una fanciulla, Echemenide, figlia di Giunone, ma non certo di Giove, di cui egli si innamorò perdutamente.

Sapendo che era figlia della Dea Giunone, andò a inginocchiarsi ai suoi piedi chiedendole di concederle in sposa la diletta figliola.

Giunone arricciò il naso perché non si fidava di Dafni, essendo figlio di quel birbante di Mercurio, che ne aveva combinato di cotte e di crude.

Dafni disse chiaramente che lui era molto diverso da suo padre e giurò che mai e poi mai avrebbe tradito Echemenide, che amava più di se stesso. Alla fine Giunone acconsentì al matrimonio della figlia e cosi Dafni e d Echemenide si sposarono.

Egli si rivelò un marito perfetto e nonostante le mille tentazioni cui fu sottoposto a causa della melodia del suo strumento.

Ma un giorno fu invitato a suonare il suo flauto dal vecchio re Zeno per far dilettare la moglie Climenide. Era costei una moglie scontenta del suo matrimonio con il vecchio re e ascoltando il dolce suono del flauto di Dafni, perse la testa per lui.

Dafni non cedette alle lusinghe di Climenide e allora la regina, in assenza del marito ubriacò con il vino e il miele il povero Dafni, che in preda ai fumi dell’alcool si abbandonò tra le braccia di Climenide.

La Fama raccontò per filo e per segno tutto a Giunone, che si riprese la figlia e la nascose alla vista del marito, il quale però poteva sentirne la voce.

E da allora Dafni cominciò a suonare disperatamente inseguendo la voce della moglie perduta e ancora oggi si può sentire il sibilo del suo flauto, quando il vento percorre le valli dei monti che sorgono in Sicilia per ogni dove, urlando come un lupo affamato disperatamente piangendo il suo amore perduto.

Giunone non gli perdonò mai quel tradimento di Dafni, che inconsapevolmente cedette alle lusinghe di Climenide.

 

 

   Alfeo e Aretusa

 

 

Anche Venere, come Giunone, talvolta un po’ per divertimento, un po’ per imporre la sua legge fondata sull’amore, ogni tanto combinava qualche piccolo guaio, che però si risolveva con il trionfo dell’Amore, grazie alle frecce d’oro del suo figliolo  Cupido (Eros).

Sentite cosa avvenne una volta, grazie all’opera fattiva di Venere.

Viveva in Grecia un giovane uomo, che era figlio della Dea del mare Teti. Si chiamava Alfeo e, pur essendo un uomo virilmente valido e bello oltre ogni dire, non andava alla ricerca di nessuna donna da sposare. A lui piaceva la caccia, e per questo si era donato anima e corpo a Diana, perché lo assistesse un ogni sua impresa di caccia.

Le ninfe, un po’ offese dal fatto di essere snobbate e un po’ dal desiderio vivo di sposarselo, si rivolsero a Venere, affinché quella bellezza non sfiorisse cercando solamente animali da uccidere e che consentisse almeno a una sola delle Ninfe di godersi quel bel pezzo d’uomo.

Venere promise alle Ninfe che avrebbe fatto di tutto per far avverare quanto cedevano.

Scesa dall’Olimpo scorse Alfeo che, come un Dio, maestoso e forte, inseguiva una colomba, che era una sua ancella sotto quell’aspetto per catturarla. Invano con il suo arco cercava di colpirla, ma la colomba evitava le frecce del suo arco girandogli attorno e quasi sfiorandolo con le ali.

Era la Ninfa Aretusa, cara a Diana e a Cerere, alle quali aveva deciso di offrire la sua verginità.

Questo giochetto tra Alfeo e la colomba, si protrasse per parecchio tempo. A interromperlo fu proprio Venere, che impose al figlio Eros di appostarsi dietro un albero di carrubo e di scagliare due frecce d’oro: una contro Alfeo e l’altra contro l’incolpevole colomba.

Per prima, colpì la colomba che si trasformò in una fiorente fanciulla dai capelli rossi come il fuoco e gli occhi malinconici ma desiderosi d’amore; la seconda freccia colpì Alfeo, che alla vista di quella fanciulla improvvisamente si innamorò di lei.

Quella freccia, lanciata nel momento giusto, gli fece cadere la benda dagli occhi e lo rese desideroso di amare la fanciulla. Ma la colomba, colpita dalla freccia d’oro e trasformata improvvisamente in una bella donna, non vide come prima cosa Alfeo, ma la natura che le stava davanti, bella e rigogliosa e più che mai si sentì infastidita dall’interesse amoroso di Alfeo e cominciò a fuggire velocemente.

Ma ecco che Alfeo stava per raggiungerla e cingerla con le sue braccia vigorose. La poveretta sentitasi perduta implorò Diana di trasformala in fiume per poter sfuggire a quel forsennato. Diana l’ascoltò e la trasformò subito in un fiume ratto e veloce, che continuò la corsa della fanciulla verso il mare, dove si tuffò velocemente correndo verso la Sicilia. Alfeo non si perse d’animo. L’amore che gli aveva inculcato Eros era infinito. Pertanto si rivolse alla madre Teti, implorandola di trasformarlo in fiume per raggiungere la sua amata anche in capo al mondo. Teti accontentò quel suo figliolo e lo trasformò in un impetuoso ruscello che incominciò a rincorrere Aretusa.

Alfeo era più veloce di lei e la raggiunse subito dopo il tuffo nel mare. Egli mischiò le sue acque con quelle di Aretusa, ed entrambi uscirono dal mare abbracciati, esattamente a Siracusa, dove cresce il papiro.

Pare che alla fine Alfeo l’abbia spuntata su Aretusa riuscendo a farla innamorare. Infatti, l’acqua che scorre nella cosiddetta fontana di Aretusa a Siracusa, scorre dolcemente e invita all’amore chiunque la vede.

 

     I figli di Deli

 

 

C’era una volta una Ninfa, chiamata Deli, di una bellezza straordinaria e cara a Venere, che la proteggeva come se fosse figlia sua. Di lei nulla si sapeva e delle sue origini. La Fama andava dicendo che fosse figlia di Marte, il Dio della guerra, il quale andava spesso a Erice, dove la Dea Venere era venerata dal popolo.

La fanciulla era nel fiore dei suoi anni, quando la notò Plutone che, dopo il ratto di Proserpina e il matrimonio con lei, non disdegnava di uscire di tanto in tanto dall’inferno per spassarsela con qualche ninfa.

Insomma, appena scorse Deli, Plutone cercò di ripetere lo stesso ratto che aveva fatto con Proserpina. Uscì con il suo cocchio tirato dai cavalli infernali e con sorpresa piombò sulla povera Deli.

Ma quest’ultima appena vide che le stava piombando addosso come un falco, pregò Venere, il padre Marte e Nettuno di intervenire e salvarla.

I tre si attivarono prontamente, anche perché Plutone, oltre alla cattiva reputazione che si era procurata con quel suo insano gesto nei confronti di Cerere, non era tanto amato dagli altri Dèi.

Marte sguainò la sua micidiale spada, Venere cercò di confonderlo mostrando l’avvenenza del suo corpo e Nettuno spinse Deli sul mare allontanandola dalla riva in modo che i cavalli infernali non potessero arrivare a lei.

In questo modo Deli si salvò ed evitò di essere portata agli Inferi, com’era successo con Proserpina.

Tuttavia Plutone ebbe il tempo di soddisfare i suoi istinti perversi su Deli, che rimase incinta e spinta al largo dalla terra ferma, dette alla luce due splendidi figli, che ancora mostrano la loro bellezza sotto l’aspetto di isolotti che ancora esistono e insieme alla madre, sono baciati dalle onde di Nettuno, quasi per proteggerli dal nefasto Dio dell’Inferno.

Essi sono gli isolotti di Marettimo e Levanzo, insieme alla loro madre Favignana che, ovviamente, altri non è che la ninfa Deli.

 

 

Priveto, Galera e Galiotta

 

Quando Nettuno diventò il re del mare, si circondò di sirene, stupende creature che erano per un po’ donna e per un po’ pesce.

Le sirene vivevano nel mare e attiravano i marinai con il loro incantevole canto, con l’intento di farli affogare.

Omero ci racconta che Ulisse volle sentire quel loro canto meraviglioso e per vincere l’istinto di buttarsi tra le onde per raggiungerle, si fece legare all’albero della nave e impedì di far ascoltare ai suoi compagni quel canto ingannevole tappando le loro orecchie con della cera.

Ma non furono le sole sirene ad allietare la reggia di Nettuno. Si circondò anche di meravigliose e bellissime ninfe che vivevano nel suo regno e lo servivano splendidamente come si conviene a un re. Erano dunque delle vere e proprie ancelle, simili a quelle terrestri, che affidò alla cura della Dea Teti.

Ma chi era la Dea Teti, che nella storia greca e in particolare nella guerra tra gli Achei e la città di Troia ebbe una parte importante?

Era appunto una meravigliosa Dea del mare a servizio di Nettuno. Nonostante la sua grandissima attività di quasi sovrana del mare, Teti s’innamorò di un mortale. Sì, di un uomo, anzi di un eroe, che si chiamava Peleo, re della terra dei Mirmidoni, che oggi corrisponde all’attuale Macedonia, a Nord della Grecia.

Fu proprio lei che aiutò Peleo a diventare il re della Macedonia fornendolo di un esercito di numerose formiche, ossia dei Mirmidoni che sono appunto sinonimo di formiche.

Peleo a capo di un esercito di formiche trasformate in guerrieri, ebbe la possibilità di conquistare il suo regno.

Si racconta che le nozze tra Teti e Peleo furono le più favolose che si ricordino. Furono invitati tutti gli Dèi e tutte le Dee del Regno di Giove, ma fu impedita la sua presenza a Temi, la Dea della discordia, semplicemente non invitandola. Con questo, si voleva mettere in chiaro che con quelle nozze si celebrava un rito di pace tra il mondo divino e quello umano.

Ma il mancato invito non impedì alla Dea Temi di presentarsi con tutto il suo livore. Nel centro del banchetto, buttò sul tavolo del desco una mela tutta d’oro con la scritta a chiare lettere “ALLA P BELLA”.

Tutte le Dee intervenute posero la loro candidatura, ma si ritirarono tutte, davanti alla concorrenza di tre di esse, che erano, manco a dirlo, le più potenti dell’universo: Venere, Giunone e Minerva. La prima era la Dea dell’amore, la seconda era la moglie di Giove e Minerva la figlia scaturita dal cervello di Giove. Nessuna delle tre intese ritirarsi dalla contesa e pretese di ricevere la mela d’oro. Come al solito, Giove si trovò in difficoltà e se ne usci elegantemente decretando che a stabilire l’esito della contesa avrebbe dovuto essere l’uomo più bello della terra.

La Fama precisò che in quei tempi era considerato il più bello degli uomini il Principe Paride, figlio di Priamo, re di Troia.

Fu fatto arrivare Paride, che scelse di dare la mela d’oro a Venere proclamandola la più bella, lusingato dalla Dea di fargli sposare la donna più bella del mondo. – Giunone e Minerva si attennero al giudizio, ma diventarono nemiche mortali di Paride e di Troia.

Avvenne che, grazie ai favori di Venere e del figlio Eros, Paride si innamorasse, corrisposto, di Elena, figlia di Giove–Cigno e di Leda, nonché sposa diletta di Menelao, re di Sparta e considerata la donna più bella del mondo.

Paride rapì la bella Elena e scoppiò la famosa guerra, che durò dieci anni, tra gli Achei e Troia e si concluse con la distruzione della città.

Ma tornando al matrimonio di Teti e Peleo, bisogna aggiungere che dalle nozze dei due nacque Achille, l’eroe greco per eccellenza che partecipò alla guerra di Troia, dove rimase ucciso proprio da Paride, che lo colpì con una freccia in un piede, l’unica parte del suo corpo soggetto alla morte. Questo perché Teti, appena nato lo immerse nudo nelle acque del fiume infernale Stige, rendendolo immortale e l’unica sua parte vitale era rimasto il calcagno, che non poté essere bagnato dalle acque infernali, perché Teti lo teneva per di là nella sua immersione.

Ma ritornando a descrivere le caratteristiche del Regno di Nettuno, bisogna dire che non solo Sirene e Ninfe, altri esseri, oltre ai pesci, vivevano nel mare e avevano interferenze divine: Erano i Tritoni, un vero esercito a disposizione di Nettuno, delegati a difendere i confini del suo Regno e assolvere tutte le incombenze dell’ordine.

Se volete, potete paragonarli al corpo scelto dei nostri carabinieri o dei nostri poliziotti. Essi giravano intorno alle isole e nelle profondità abissali armati di arpione e di altre armi idonee a difendere il regno dagli estranei.

Com’è facile capire, non sempre le cose filavano lisce nel mondo di Nettuno, ed erano proprio i Tritoni a intervenire a torto o ragione.

Erano quindi frequenti piccoli scontri, liti, tafferugli, contraddizioni, scontri e diatribe tra gli esseri marini.

Particolare rilievo avevano gli scontri tra le ninfe e i tritoni. Vista la loro diversa natura e anche il diverso modo di intendere la vita, capitava spesso che venissero a diverbio, usando le loro armi. In particolare vi era un gruppo di Ninfe, figlie del Dio marino Nereo, che si era ribellato al padre e creavano problemi di ogni genere, per cui i Tritoni dovevano intervenire per mettere ordine.

Non sempre il povero Nettuno aveva la possibilità di intervenire a tempo per sedare gli animi. In questo era più bravo Giove. Chissà, forse la turbolenza delle onde, forse la diversa natura del suo regno o non so che, Nettuno aveva più difficoltà che Giove e spesso lasciava correre.

Ma a pagare le spese di queste turbolenze non sedate e delle diverse soluzioni marine erano gli incolpevoli uomini, costretti a frequentare le acque marine per i loro bisogni e per il loro sostentamento. Erano i pescatori che gettavano in mare le loro reti per pescare e giravano intorno alle isole con le loro imbarcazioni. Talvolta si arrendevano alla turbolenza delle onde e finivano in fondo al mare, vittime dei Tritoni, che li consideravano degli intrusi.

Fu proprio in occasione di una turbolenza creata tra i Tritoni e le figlie ribelli di Nereo, che un giovane pescatore si trovò in difficoltà con la sua barca. Nonostante gli sforzi e il tentativo di imbrigliare le vele e di tappare la falla apertasi nello scafo della sua barca, cadde in mare e trascinato dalle onde nel fondo,  dove trovò i Tritoni pronti ad arpionarlo e spedirlo sulla barca di Caronte. Ma la regina delle Nereidi “buone” si mosse a compassione per quel giovane uomo che continuava a lottare contro i marosi agitati dai Tritoni e dette ordine a una squadra addestrata al soccorso, di intervenire per salvarlo. Il loro intervento fu efficace perché mentre alcune lo proteggevano con gli scudi dagli attacchi dei Tritoni, riportandolo sulla superficie del mare, un altro gruppo di tre Ninfe emerse dal fondo, sollevandosi sul livello dell’acqua, offrendo all’uomo un sicuro rifugio tra gli anfratti delle loro rive.

L’uomo si salvò e le tre Ninfe, finite le turbolenze, stavano per rientrare nei loro rifugi marini ma, a questo punto, visto l’ottimo esito dell’intervento, Nettuno e lo stesso Nereo, ordinarono alle tre Ninfe di non ritornare nel fondo del mare e di restare perennemente emergenti per essere sempre pronte a offrire un rifugio ai pescatori, che in quel tratto  venissero investiti dalle turbolenze marine.

Fu così che nacquero gli attuali scogli di Nereo, chiamati Priveto, Galera e Galiotta, i quali sono ancora oggi un sicuro rifugio per le imbarcazioni che hanno la disavventura di incappare nelle turbolenze marine, frequenti in quel tratto di mare.

 

 

 

 

    I FARAGLIONI DI ACITREZZA

 

 

Quando finì la guerra di Troia, con la distruzione della città, tutti i Greci se ne tornarono a casa felici e contenti, ma uno di loro, Ulisse, ebbe non poche difficoltà a ritornare in Patria, cioè a Itaca di cui era re e dove lo attendeva la moglie fedele Penelope.

Il motivo delle avversità che lo costrinsero a peregrinare in mare per lungo tempo, pare che fosse stato un torto che l’eroe greco aveva fatto al Dio Nettuno.

Tralasciando tutte le sue disavventure, voglio ricordarne una che è stata fondamentale per la nostra Sicilia e in particolare dei luoghi a nord di Catania.

Racconta Omero che Ulisse, giunto alle falde dell’Etna, fece la conoscenza con Polifemo, che abitava in quei luoghi.

Polifemo era uno dei discendenti di Urano gigantesco, con un solo occhio nella fronte, molto cattivo, che aveva anche ucciso il pastorello Aci per gelosia. Insomma un vero emblema delle forze del male.

Ulisse, preso prigioniero dal mostro, riuscì ad accecarlo e a uscire dall’antro raggiungendo la nave e i suoi compagni.

Non appena si trovò lontano dalla riva, cominciò a motteggiare Polifemo vantandosi di essere stato lui ad accecarlo e non Nessuno come gli aveva detto di chiamarsi.

A questo punto Polifemo, impotente per non poter vedere le navi, ma individuando la provenienza della voce, con le sue enormi mani scagliò verso il mare dei cocuzzoli di pietra lavica asportata dall’Etna lanciandoli nel mare. Per fortuna di Ulisse queste enormi pietre non colpirono la nave di Ulisse, che riuscì a fuggire, ma esse rimasero lì a testimoniare l’episodio.

Essi sono i Faraglioni di Acitrezza.

                                                                                                                                                                                                                    

                                                                                                                                                                                                                                                                                                    

  LE LEGGENDE  DOPO QUELLLE GRECHE   

 

 

Parlare dei miti e delle relative leggende che riguardano l’antico mondo greco in Sicilia, per me è stato molto facile, trattandosi di fatti fantastici ormai cristallizzati nel tempo e limitati ad una determinata epoca. Non ho avuto la pretesa di averli elencati tutti. Sicuramente alcuni mi saranno sfuggiti oppure fanno parte della mia poca conoscenza  sull’argomento.                                                                  Parlare dei miti e delle leggende che riguardano le ere successive a quella greca, è un’impresa molto ardua poiché essi non sono più narrazioni di natura religiosa unica, ma veri racconti storici e folkloristici ampliati dalla fantasia e per di più sparsi e plasmati in un territorio ed in un lasso di tempo molto complessi con la  introduzione di fattori etici e filosofici molto variegati rispetto alla raggiunta staticità del mondo greco-latino, ormai standardizzato.

Tuttavia, mi sforzerò di accennare a quei fatti che maggiormente hanno influito nell’immaginario comune di questo mondo siciliano, così ricco di storia e di fermenti trascinanti nell’ambito di ambienti sempre più vari e disparati.                                                                              Voglio ricordare in proposito che, mentre il problema religioso interno al mondo pagano non esisteva, nel senso che tutto veniva accettato e creduto senza alcuna diatriba dogmatica, nel nostro mondo cristiano, purtroppo, ciò non si è realizzato, essendo intervenuti correnti di pensiero e vicende del tutto diverse e variegate.. Sicché nelle leggende, subentra la necessità di diversamente indirizzare la fantasia a seconda della filosofia o religione che si intende seguire. Nei miti antichi greci ciò non avveniva perché quella realtà religiosa descritta veniva accettata e non imponeva ricerche di altre verità.

Premesso quanto sopra cercherò di  evidenziare le leggende,  perché di leggende si tratta e non più miti, che maggiormente vengono ricordate o che fanno parte di una mia maggiore attenzione.

 

 

LE LEGGENDE DELL’ANTICO MONDO IN SICILIA

 

Le leggende, diversamente dai miti legati alla cultura greco-romana, che hanno la parvenza di credenze religiose, altro non sono che la ricostruzione fantastica di fatti storici tramandati dalla tradizione per evidenziare pregi, virtù ed usanze ormai passate, ma che sono di esempio per le future generazioni. Fatti veri, dunque, ma rivestiti dalla fantasia popolare.

E’ doveroso aggiungere che molte leggende sono false e vengono propinate al popolo per indirizzare la sua opinione su determinati argomenti. Esse sono chiamate, per questo, “leggende metropolitane”. Purtroppo, di esse se ne fa largo uso e consumo nella propaganda politica, approfittando del fatto che chiunque  ascolti ignori la realtà dei fatti.                  Per questo motivo le leggende metropolitane, non hanno storia e durano pochissimo nel tempo, anche se, talvolta riescono a gettare panico od entusiasmo tra la gente.

 

Per comodità espositiva ho  approntato un elenco delle più rinomate  Leggende antiche, suddividendole in Leggende dell’Etna, Leggende dei Castelli, Leggende relative alle città.

 

 

LE LEGGENDE DELL’ETNA

 

Molte leggende in Sicilia, sono legate all’Etna, grazie a quel suo spettacolare aspetto geografico, che evidenzia un legame con il mondo al di là di quello reale.

Questo vulcano, detto familiarmente “a Muntagna” o anche “Mungibeddu”, che domina la Sicilia, già ai tempi dei Greci fu oggetto di miti fantastici;  nel mondo post-ellenico ha continuato a essere oggetto di leggende legate a personaggi e fatti famosi.

Il fuoco che vien fuori dalla terra, le sue esalazioni sulfuree, i tremori della terra intorno al vulcano, il suo aspetto ingombrante, hanno sempre stimolato non solo la fantasia, ma anche il desiderio di conoscere la causa di tutto ciò.

Nel riportare le leggende  che maggiormente ricordo, preciso che ve ne sono ancora molte altre. Quasi in ogni paese che sorge sulle falde dell’Etna ve ne  sono  di ogni tipo e genere legate alla Montagna.

Le leggende intorno all’Etna hanno dato modo di evidenziare i più grandi sentimenti di umanità, com’è avvenuto per la leggenda dei fratelli Pii di cui ho parlato. A mio avviso, mai le più recenti leggende intorno all’Etna hanno superato la costruzione fantastica creata dalla mitologia greca, dove orrore, paure dell’inconscio e rispetto verso le divinità sono una costante stupenda e insuperabile.

 

 

LA LEGGENDA DEL MONTE MOJO

 

In Sicilia vi è un monte, chiamato Mojo da cui nasce il fiume Alcantara. Esso altro non è che un vecchio cratere spento dell’Etna e la sua storia è legata ad un fantastica fiaba popolare.

Dice la leggenda che in quel luogo vivevano due fratelli dediti al lavoro dei campi e che, tra l’altro, erano anche  soci. Lavoravano insieme e poi, alla fine, dividevano tra loro il raccolto, consistente generalmente in granaglie e legumi, facendone due cumuli uguali.

Avvenne che uno dei due, pur essendo in grado di lavorare e produrre, perse il dono della vista. Insomma diventò cieco.

Ciò non fu di ostacolo al suo lavoro, ma non gli consentì di verificare la paritaria divisione del prodotto a fine anno, effettuata dal fratello. Quest’ultimo, colse l’occasione per lucrare alle sue spalle. In affari mai fidarsi della parentela!

Sperimentò un sotterfugio per ingannarlo. Come al solito gli disse che avrebbe fatto due mucchi della produzione: uno per ciascuno. Di volta in volta faceva constatare al fratello l’avvenuto deposito della merce facendogli tastare la pienezza dei due moggi. Prima il suo e poi quello del fratello. Dal momento che quest’ultimo era cieco e non poteva distinguere visivamente i due cumuli, quel birbante del suo congiunto, li versava entrambi nel suo cumulo senza, per altro aggiungerne nell’altro. Pertanto dei due cumuli, uno, il suo, cresceva sempre e l’altro, del fratello, invece restava a zero. Il furbastro pensava che, in questo modo, tutto il raccolto sarebbe toccato a lui, dal momento che il fratello non era in grado di potersi accorgere dell’inganno. Quando alla fine si ebbe una buona quantità di raccolto, evidenziata da un solo grosso cumulo, gli Dèi si incavolarono veramente, o forse ad arrabbiarsi  fu solo Giove che, stomacato, prese uno dei suoi strali infuocati e lo scagliò contro quel grosso cumulo che prese fuoco, dando luogo a un cocuzzolo di carboni ardenti trasformati in pietra, che fu chiamato il monte Mojo, per ricordare questa leggenda.

Rammento che “u moju”  in dialetto siciliano significa moggio o staio, ossia la misura che serve alla conta del raccolto dei legumi.

 

Il MITO DEI FRATELLI PII

ANAPIA ED ANFINOMO

 

I fratelli Pii, Anapia e Anfinomo, erano due contadini e montanari, che abitavano su un fianco dell'Etna.

Un giorno furono costretti ad abbandonare la loro casa perché stava per essere travolta dalla lava.

Avevano il modo di salvarsi facilmente, potendo precedere agevolmente il fiume di fuoco che li incalzava, ma il loro procedere risultò lento e accidentato, poiché furono costretti a caricarsi sulle spalle i loro vecchi genitori, che non erano in grado di camminare.

Pur procedendo con solerzia e sforzo massimo, il fronte della lava stava per raggiungerli.

Per salvarsi bastava lasciare lì i genitori e correre verso la salvezza, ma non lo fecero. Continuarono il loro cammino con caparbia costanza, decisi a salvarsi tutti o morire insieme.

Fu a questo punto che avvenne il miracolo.

Il fiume di lava si aprì in due direzioni diverse, lasciando al centro uno spazio di terreno dove i due fratelli con il loro prezioso carico continuavano ad avanzare lentamente, portando in salvo i loro genitori.

Il fatto fu risaputo e suscitò molto scalpore, tanto che quel tratto di terreno salvato dalla lava fu chiamato il Campo dei fratelli Pii.

La leggenda non parla di interventi di un Dio in particolare. Chissà! Forse Giove o forse Vulcano o forse la stessa lava, stupita da tanto ardore e amore filiale

È stato tramandato il fatto oralmente fino ai nostri giorni, così come avvenne e, a perenne ricordo, sui fianchi dell’Etna è rimasto, indenne nel tempo da colate laviche, il Campo dei fratelli Pii. La gente crede che mai e poi mai la lava invaderà e distruggerà quel campo nei secoli dei secoli.

 

 

 

 

LA LEGGENDA DI EMPEDOCLE

 

Empedocle è uno dei personaggi storici realmente vissuto in questa nostra terra di Sicilia, allora chiamata Trinacria. La sua fama è legata alla sua costante ricerca della conoscenza, Era un filosofo, uno scienziato, un mago, con una sete smodata di conoscere il mondo in cui viveva ed i fenomeni che si manifestavano nel territorio.

Vedendo quell’eterno pennacchio fumoso dell’Etna e le frequenti sue eruzioni di lava ed i tremori che si accompagnavano a questi fenomeni, decise di scoprirne le cause.

Allora non si conosceva quanto adesso sappiamo e, cioè, che il centro della terra è costituito da una massa incandescente in continua ebollizione e che i vulcani altro non fossero che fratture della crosta terrestre.

Quei fenomeni venivano giustificati con l’intervento degli Dei. Ma ciò non bastava alla mente indagatrice di Empedocle, che, un bel giorno decise di ascendere il vulcano fino alla sommità del cratere ed avere  l’ardire di scendere dentro il cratere stesso per rendersi conto del mistero. Non solo questo, ma pare che Empedocle vivesse sul vulcano per osservare da vicino i suoi movimenti. A ricordo di quest’ultimo fatto sull’Etna esiste la cosiddetta “Torre del filosofo” che si dice sia stata la casa di Empedocle. Ho impropriamente detto “esiste”. In verità esisteva, poiché la suddetta torre venne distrutta da una delle tante colate laviche

Sicuramente Empedocle, scendendo dentro il cratere, avrà scoperto qualcosa in merito al vulcano, ma non è mai venuto a raccontarcelo, poiché scesovi dentro  non è tornato mai più indietro a raccontarci l’esito della sua ricerca.

La leggenda però tramanda che il cratere. di Empedocle sputò fuori solo i calzari e che il suo corpo venne inghiottito totalmente ed è per questo che l’Etna viene considerato anche la culla del sapere umano, quello acquisito proprio da Empedocle. Ovviamente, i calzari vennero espulsi perché superflui al sapere.

Non bisogna pensare che Empedocle fosse uno sprovveduto. In effetti la sua decisione fu frutto della sua filosofia. Infatti egli riteneva che tutto il mondo fosse costituito da quattro elementi: la Terra, l’Aria, l’Acqua ed  il Fuoco  e che anche l’uomo lo fosse in quanto parte di esso. Pertanto il fuoco dell’Etna, mai e poi mai avrebbe potuto danneggiarlo. Egli con la sua discesa nel cratere si prefiggeva di dimostrare la veridicità della sua teoria. Purtroppo per lui, l’Etna fu di diverso avviso. Secondo la sua teoria, pur non ritornando dal cratere per essersi fuso con l’elemento Fuoco, in ogni caso ciò gli avrebbe consentito di ritornare in vita sotto altro aspetto. Sostanzialmente credeva nella trasmigrazione delle anime, possibile attraverso la ricongiunzione degli elementi costituitivi di tutta la realtà.

Vera o non vera che sia la teoria di Empedocle, è da dire che una Guida dell’Etna, a distanza di molti secoli dopo, è riuscito a calarsi dentro il cratere dell’Etna, ritornando vivo e vegeto. Tale guida, che si chiamava Nicolosi, per questa sua impresa, suscitò molto clamore e venne considerato dai più il redivivo Empedocle. In ogni caso, bisogna comunque sapere che il Nicolosi discese nel cratere protetto da una tuta di amianto e ne ritornò con l’assistenza tecnica di gente che sapeva come addomesticare il Fuoco.

 

 

 

 

 

 

 

LA LEGGENDA DEI FIUMI FANTASMA  DELL’ETNA

 

 

Sul  versante Nord-Est del nostro vulcano vi è il monte Mojo, famoso per essere il cocuzzolo di un cratere spento e perché da esso trae origine il fiume Alcantara, che affonda il suo percorso tra le gole rugose delle rocce laviche, probabilmente effuse dallo stesso cratere.

Stupendo l’effetto scenico dell’acqua che scorre negli anfratti rocciosi. È da dire che forse questo è l’unico fiume che, scendendo dalle balze dell’Etna, sia riuscito a restare indenne e a cielo aperto fino al mare, restando vincitore nei confronti del vulcano e della sua lava distruttrice.

È noto che L’Etna è un noto assassino di fiumi. L’elenco è abbastanza folto: Aci, Amenano, Longane, Fiumefreddo.

Il primo, Aci, è letteralmente scomparso. Come detto in precedenza, scendeva lungo il pendio Nord-orientale del vulcano e sversava le sue acque a delta nel mar Jonio a Nord di Catania.

Tale bacino doveva essere abbastanza vasto, poiché oggi tale zona è stata suddivisa in parecchie località chiamate tutte ACI: Aci Reale, Aci Bonaccorsi, Aci Catena, Aci San Filippo, Aci Sant’Antonio, Aci Castello, Aci Trezza, Aci Platani. Molto probabilmente a ogni località corrispondeva un ramo del delta.

Si presuppone che il suddetto fiume, di cui esiste solo il ricordo mitologico, estendesse il suo percorso in una zona dell’Etna che sia implosa in tempi remotissimi, e che corrisponda all’attuale immenso terreno del Vallo del Bove.

Gli altri tre fiumi continuano a scorrere, ma sottoterra. Le vicende del fiume Amenano sono molto note. Catania sorgeva fin dai tempi più antichi lungo le sue rive, a ridosso del mare. Si ritiene che esso nascesse nei pressi dell’attuale cittadina di Randazzo e parzialmente coperto dalla lava, abbia dato luogo, prima di attraversare Catania, a un lago, detto di Nicito, successivamente scomparso a causa di una eruzione.

Attualmente tale zona risulta intensamente abitata e coperta da civili abitazioni (Piazza Santa Maria Di Gesù, via Lago di Nicito e dintorni.)

Il lago si chiamava di Nicito per ricordare Nike, la Dea della vittoria, poiché in quel lago si svolgevano delle gare marittime con delle vittorie assegnate ai vincitori.

Il fiume fu definitivamente fatto scorrere sottoterra in occasione dell’ultimo terremoto che sconvolse circa 350 anni fa la Sicilia Orientale.  Esso sfociava a delta nel mare Jonio in tre rami: Zia Lisa, Piazza Duomo e Piazza Federico Di Svevia.

Attualmente il solo ramo di Piazza Duomo si fa vivo nel monumento “L'acqua a linzolu” per finire definitivamente e sommessamente a mare.

Talvolta il fiume, pur essendo ormai sotterraneo, tracima e invade via Etnea, che si trasforma per alcuni giorni in un torrente turbolento.

L’altro fiume fantasma di Catania è il Longane. Esso nasceva alla Barriera, dove ha inizio via Due Obelischi, attraversava il cosiddetto Piano di Leucatia, dando luogo al Canalicchio proseguendo fino a Ognina e sfociando a estuario nell’attuale piazza Mancini Battaglia.

Tutte queste zone sono ormai quartieri di Catania, avendo la lava coperto tutto il percorso del Longane, che zitto zitto ha continuato a scorrere sotto la lava solidificata. Infatti, le acque della costa di Ognina sono dolci e si mescolano con quelle del mare. È da ricordare che l’estuario del Longane era grandissimo e costituiva il porto naturale di Catania. Le cronache ricordano che era in grado di contenere tutte le navi della flotta spagnola.

Del tutto ignoto è ormai il percorso del Fiumefreddo, essendo stato investito dalla lava parecchie volte. Tuttavia, scorrendo sotto la roccia, sfocia sicuramente presso la cittadina di Fiumefreddo, così chiamata perché le acque della costa sono fredde, mischiate a quelle provenienti dall’Etna.

 

 

IL LAGO DI NICITO DI CATANIA

 

A Catania, nei pressi di Piazza Santa Maria di Gesù, esiste una via che si chiama esattamente Via Lago di Nicito. Vi posso assicurare che in quel posto non vi è alcun lago, ma case ed anche una sezione dell’Ospedale Garibaldi. Quella indicazione viaria ha una motivazione storica.

Si racconta che quando Catania era poco più d’un villaggio  e le sue mura di cinta erano molto più a Sud di quella zona, tutta l’attuale Piazza Santa Maria Di Gesù e dintorni fosse un laghetto meraviglioso che i Greci colonizzatori chiamarono “Lago di Nike” , ossia Lago della vittoria, per il semplice motivo che in esso si svolgevano delle gare che oggi possiamo chiamare di canottaggio  ed altri giochi ginnici d’acqua. Quella parola Nicito è un termine dialettale riferito quindi a quello  greco Nike. La tradizione vuole che, anteriormente, in quel luogo scorresse liberamente il corso del fiume Amenano. In seguito ad una delle molteplici eruzioni dell’Etna si formò una diga che fu la causa della formazione del lago. Una successiva eruzione più recente della precedente, invase il lago costringendo le acque affluenti e defluenti a trovare una via di sbocco sotto la lava e laddove prima vi era il corso del fiume trasformato in lago, adesso vi è un pianoro grande che è stato fagocitato dalla città in via di espansione.

 

LA LEGGENDA DELLA PANTOFOLA DELLA REGINA ELISABETTA D’INGHILTERRA

 

Questa leggenda lega l’Etna, a questa superba regina ed anche alla triste fine dell’Ammiraglio Nelson, nonché il castello di Maniace.

Si racconta che la sanguinaria regina Elisabetta, rea d’aver fatto uccidere Maria Stuarda e di altri misfatti durante il suo regno, alla fine della sua vita sia stata prelevata direttamente dai Diavoli, e spedita direttamente all’Inferno attraverso il cratere dell’Etna. In quell’occasione una pantofola della regina nei pressi dell’attuale Maletto, sfuggi dal piede della regina e cadde   nella vicina “Rocca Calanna”  La leggenda vuole inoltre  che, addirittura da viva ella amasse visitare l’Etna in veste di spirito malefico, esplorandola in lungo e in largo e godendo del male, che vedeva fuoriuscire dal suo cratere.

Si racconta che la pantofola venne trovata da un pastorello, che appena la toccò resto con le mani scottate. Trovando la cosa molto anomala, venne chiamato un frate esorcista, che dette luogo al rito per scacciare gli eventuali demoni. La pantofola  rispose fuggendo via in volo ed andando a depositarsi in un angolo del Castello di Maniace a Bronte e da allora non si seppe più nulla.

Come è ricordato dalla storia, il castello di Maniace a Bronte  nel 1799 venne donato dai Borboni ad Orazio Nelson per i suoi servigi resi alla corona. Si racconta che in occasione della  cessione della suddetta Ducea, avvenuta con grande sfarzo a Palermo, una misteriosa signora in nero consegnasse a Nelson un cofanetto contenente la famosa pantofola  di Elisabetta di cui si erano perse le tracce. La signora in nero precisò a Nelson di non farla vedere a nessuno. Il giorno che qualcuno l’avesse vista sarebbe stata la fine per lui. Nelson, che era anche un poco credulone, rispettò la volontà della signora in questione, ma lady Hamilton, amante gelosa di Nelson, avendo assistito alla consegna del pacco, fece di tutto per trafugarlo e vedere cosa contenesse.  Constatato il contenuto di quel regalo lo ripose al suo posto. Avvenne che dopo alcuni giorni a Trafalgar, nonostante la vittoria della flotta inglese comandata da Nelson, una palla di cannone colpì Nelson, che morì. Così nacque questa leggenda della pantofola di Elisabetta, , che mai più venne vista  e che quando si mostra preannuncia catastrofi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LA LEGGENDA DI BRONTE

 

Un’altra leggenda, collegata ad Horatio Nelson, vuole che la cittadina di Bronte si chiamasse così per la circostanza che quella località, ancor prima che arrivassero i Sicani ed i Siculi,

fosse abitata, come ho già detto, dai Ciclopi, di cui uno, il maggiore collaboratore del Dio Efesto, notoriamente fabbro degli Dei, fosse proprio il ciclope chiamato Bronte, che altro non sarebbe se non il  “rimbombo” del martello. Gli altri due Ciclopi collaboratori di Efesto erano i suoi fratelli, Sterope, che significa “lampo”del fuoco e Piracmon, che altro non era se non “l’incudine”.

Horatio Nelson a causa della sua prematura morte non ebbe l’opportunità di potersi godere il possesso della Ducea di Bronte, ma a coloro i quali, inglesi, la  ereditarono, questo nome della cittadina piacque molto. Tanto da aggiungerlo ai loro cognomi. 

 

 

 

 

 

LA LEGGENDA DELL’ALBERO DEI CENTO CAVALLI

 

Sulle falde dell’Etna, esiste un paesetto, chiamato Sant’Alfio, ricco di alberi d’alto fusto molto vetusti e maestosi. Tra essi ne spicca uno sia per la sua vecchiaia, sia per la sua immensità . Si tratta di un albero di castagno, chiamato “L’arvulu  de’ centu cavaddi”, poiché la tradizione vuole che la Regina Giovanna I d’Angiò in visita in Sicilia, vi trovò rifugio insieme ai suoi cento cavalieri di scorta.

A parte il fatto che proprio 100 cavalieri non ci stanno sotto la pur immensa chioma, sembra che la Regina in questione non abbia mai messo piedi in Sicilia, dal momento che il nonno Roberto d’Angiò ne fu molto tempo prima cacciato fuori dagli Aragonesi, con la ribellione dei famosi Vespri siciliani.

Tuttavia giungeva fama che la suddetta Regina fosse talmente dissoluta, da portarsi sempre d’appresso almeno cento cavalieri serventi. Era quello il modo per offendere quella lontana principessa angioina.

Ma un’altra leggenda interessa quest’albero. Si dice a Sant’Alfio, che se una coppia di novelli sposi vuole avere dei figli maschi, cosa una volta molto importante in Sicilia, deve passare la prima notte del matrimonio sotto le fronde di quest’albero. Non è specificato se sotto una tenda oppure in una amaca tra due rami. Questo non è stato mai chiarito. Basta anche che ci si sieda su due sedie, sotto i rami ad attendere che si faccia giorno.

 

 

 

 

La leggenda di lu Suggiu

 

Questa è una leggenda che, in un certo senso, trae origine anche  essa  dal mondo mitico, il quale era solito attribuire ad ogni fiume un nume tutore. Insomma un protettore , un santo  patrono che assicurasse l’esistenza e la salute del fiume, curando le correnti ed il regolare decorso delle acque.

Anche i fiumi che nascono dall’Etna, quali il Simeto ed i suoi affluenti Gornalunga e Dittaino, l’Alcantara, lo stesso Amenano ed altri fiumiciattoli scomparsi come il Longane ed il Fiumefreddo, nonché l’Aci, tutti quanti avevano dei mitici patroni.

Con l’avvento del cristianesimo, venne meno tale credenza, tuttavia si continuò a pensare che ogni fiume nascondesse nelle proprie acque delle creature sconosciute che non erano più i patroni delle acque, ma sicuramente delle  figure demoniache di esseri nefasti ed ambigui somiglianti a rettili, pesci od anche grosse  bestie talvolta dall’aspetto umano, Ogni fiume in Sicilia aveva il suo (o i suoi) “Suggi” .

Il popolino piuttosto, credulone e sconoscente della realtà della vita e della natura, non poteva dimenticare i mitici personaggi e con la sua fantasia li aveva sostituiti con esseri che divini non erano, ma ritenuti molto vicini a belzebù. Li immaginava come dei rettili, di cui la Bibbia riteneva fossero espressioni demoniache e quindi non solo animali striscianti, squamose, velenose e ributtanti alla vista, oltre che feroci, ma anche veri demoni. Dette loro anche un nome generico:“i suggi”. Ogni fiume aveva il suo suggiu ed anche più di uno, ma nessuno ne ha visto mai qualcuno pur raccontandone gli effetti deleteri o ,se dice d’averlo visto, non ne ha mai dimostrato le prove.

Qualcuno moriva annegato nel fiume? “Fu u suggiu, ca ci tiravu i peri.” Scompariva qualche bestia? Era stato “u suggiu”, il quale aveva il potere di vivere nelle acque del fiume, ma anche capace di scorazzare per i campi, fare razzie e ritornarsene tranquillo nella sua tana. Un lontanissimo giorno dei primi del novecento, sul greto del ponte Saraceno, un affluente del Simeto, venne trovato il corpo di un uomo crivellato di colpi a palline sparato sicuramente da un “frisciò”. (fucile a canne mozze)

Era avvenuto che una delle due guardie campestri, avendo scorto qualcosa che si muoveva sulla riva del fiumiciattolo, avendolo scambiato per il famoso “suggiu” che da tempo si diceva si aggirasse nei paraggi, imbracciò il fucile e sparò a colpo sicuro. Quale non fu la sua sorpresa quando si accorse che si trattava di un pescatore di anguille che in quel punto era solito mettere le sue reti. A trarlo in inganno fu il giaccone nero (a bunaca) che il malcapitato indossava.

Accortosi dell’errore commesso, tirò avanti silenziosamente come se nulla fosse successo, senza dire nulla all’altra Guardia campestre, che, sentito lo sparo si avvicinò al posto e scoprì il cadavere del malcapitato ancora caldo.

Intervennero i carabinieri che interrogarono le due guardie campestri e, per questo, li condussero immediatamente in caserma. Il maggiore indiziato era colui che aveva scoperto il cadavere, che venne subito arrestato, lasciando in libertà il vero colpevole. A nulla valsero le dichiarazioni dell’indiziato d’aver trovato solamente l’uomo morto e d’aver dato subito l’allarme. Non fu creduto. Dallo approfondimento delle indagini, ci si accorse che il fucile in dotazione dell’arrestato non risultava di aver sparato mai. Per sua fortuna era all’inizio del suo lavoro di guardia campestre e non aveva ancora usato l’arma avuta in dotazione e che le munizioni  corrispondevano alla quantità ricevuta in consegna insieme al fucile. Ovviamente le indagini coinvolsero l’altra guardia giurata, il quale dichiarò di aver sparato solamente perché aveva visto un “suggiu” che stava saccheggiando le culture  e che era fuggito scomparendo dalla zona senza averlo colpito. Messo, infine alle strette, dichiarò come effettivamente erano andate le cose, scagionando l’altra guardia campestre che venne rilasciata.

Fu quello il periodo in cui  il “suggiu” ebbe la sua massima celebrità, da occupare le cronache giudiziarie di quei tempi.

Tutti dicono, ancora oggi, che questa bestia famelica, u suggiu, esiste veramente. Qualcuno giura di averlo visto e che è un incrocio tra il serpente ed una bestia squamosa con la tasta che sembra un uomo, capace di inghiottire anche un cavallo, ma nessuno è stato in grado di dimostrarne l’esistenza come il famoso mostro inglese di Loch Ness.

In verità trattasi di una reminiscenza popolare del tempo in cui esseri soprannaturali si credeva  abitassero le contrade del vulcano, considerate, dopo l’avvento del cristianesimo, delle figure del maligno.    

 

 

 

 

 

Le fantastiche Piramidi dell’Etna

 

 

In alcune zone dell’Etna  sono state rinvenute delle strane piramidi prive di cuspide,  costituite da scatole dalla base quadrata,  sovrapposte in volumi decrescenti e composte con blocchi di pietra lava a forma di parallelepipedo di piccola dimensione.  Sicché ognuna di queste scatole è ottenuta con blocchetti di lava sovrapposti come dei veri mattoni, che hanno un nome ben preciso: “intoste”. Alla fine se si unisce con una retta immaginaria i vertici superiori di tali scatole, si ha la sensazione di avere una piramide a base quadrata ma mozza. Inoltre si è potuto notare che da un piano all’altro delle scatole esistono delle scale realizzate sempre con delle “intoste” come quelle costituenti le scatole.

Sia i solidi a forma di scatola, che le scalette da un piano all’altro, sono costituiti dai relativi blocchetti non murati ma sovrapposti a secco e facilmente asportabili.

La forma perfettamente angolata con base quadrata di ogni singolo solido o scatola e le relative scale di accesso ai piani superiori, hanno fatto pensare a delle grosse are, sulla cui cima  siano stati eseguiti nell’antichità dei riti di natura religiosa.

Dei veri altari sparsi in varie parti del vulcano a servizio di una religione sconosciuta e precedente a quella dei miti greci.

A questo hanno pensato gli scopritori di queste strane piramidi, che, generalmente sorgevano in montagna, ognuna,  al limitare di  ampi spiazzi di terreno.

Sulla scorta delle piramidi egiziane e dei nuraghi sardi, sono nate molte teorie intorno alla piramidi dell’Etna, lasciando spazio alla fantasia e cercando, soprattutto, di trovare una relazione tra la civiltà egizia ed un mondo esoterico siciliano.

In effetti, non mi sembra che vi sia una certa relazione tra le piramidi egizie e codeste primitive e strane piramidi sicule. Infatti mentre quelle dei Faraoni erano costituite da grossi blocchi di pietra ed al proprio interno avevano dato luogo a delle stanze per un’altra vita da vivere dopo la morte, quelle sicule erano costituiti da piccoli blocchi facilmente asportabili e non murati con della malta tra di loro ed inoltre ogni costruzione non dava luogo al suo interno ad alcuna cavità. Un’altra sostanziale differenza era costituita dal fatto che le piramidi egizie erano state costruite in attinenza con gli astri del cielo, mentre quelle siciliane sorgevano senza un ordine prestabilito, se non quello di trovarsi al limitare di qualche pianoro.

Il mio parere personale è che le piramidi siciliane, facessero parte di accumuli di materiale lavico da impiegare in edilizia, ottenuto dallo spietrare le rocce di una qualunque zona da impiegare in agricoltura. Sostanzialmente, sarebbe avvenuto che i coloni greci oppure precedenti popolazioni, per cercare di trovare coltivabili alcune zone dell’Etna, si sarebbero peritati di ricavare degli spazi pianeggianti. Che cosa farne del materiale  asportato? La cosa migliore, secondo me, sarebbe stata quella di conservare il materiale ricavato per poterlo utilizzare . Ovviamente il materiale conservato, doveva essere facilmente asportabile per edificare le proprie case. Per poter fare ciò la forma piramidale con diversi piani e con le scale, si prestava al prelievo ad incominciare dai solidi più alti a quelli più bassi.

Alla fine il lavoro dava sfogo a due tipi di cultura per lo sviluppo dell’economia: l’agricoltura e l’edilizia. La mia teorica considerazione si basa sulla costatazione che fino dall’inizio del secolo scorso, quando ancora non c’era il cemento armato, le costruzioni delle case nel catanese, venivano realizzate con blocchetti di pietra lava squadrata come quelle trovate nelle piramidi dell’Etna, con una tecnica che prevede l’impiego anche dei mattoni. Sostanzialmente il muro di una casa era costituito da un filare di blocchetti lavici, dette “intoste”, con sovrapposto un filare di mattoni e successivamente uno strato nuovamente di  intoste …

Col tempo, essendosi evoluta la costruzione degli edifici con il cemento armato, è avvenuto che tali depositi di “intoste” siano rimasti abbandonati e non abbiano alcun recondito motivo rituale   od esoterico.

Solo un ricordo, dunque della laboriosità di antiche popolazioni.

In conclusione, secondo me, non si tratta di altari votivi, ma di depositi ordinati di materiale edilizio, rimasto inutilizzato nel tempo per essere stato sostituito dall’impiego di materiale tecnicamente più facile da impiegare.

 

 

 

 

 

 

LE LEGGENDE DEI CASTELLI

 

  

Per una questione storica che si è ripercorsa sulla nostra Sicilia, ma anche un po’ dappertutto nell’Europa, quasi in ogni paese o città sono sorti dei Castelli, la cui proprietà apparteneva alla famiglia nobile del luogo.

Per questo motivo i castelli nell’immaginario del popolino, vengono considerati dei posti fuori dal comune e da lì a scivolare nel leggendario il passo è facile.

Ovviamente i nobili hanno una vita differente dai popolani per la diversa posizione economica e sociale. Questo fatto determina il galoppo della fantasia su fatti del tutto umani fino a sconfinare nell’esoterico. Infatti, ogni castello in Sicilia ha il suo fantasma o i suoi fantasmi. Ne ricordo i più famosi.

 

 

 

 

CASTELLO URSINO

Catania

 

 

Chiamato “Ursino” perché il Castello del Seno (Casteddu o Sinu), fu immaginato dal popolo preda dei giganti Ursini, ostili a Federico II che lo costruì.

Giganti perversi che ostacolavano il buon governo dell’imperatore, chiamato non a caso, lo “stupor mundi”.

Ma questi esseri cattivi non potevano averla vinta. Ecco apparire la leggendaria figura del paladino Uzeda, che combattendo, con la sua invincibile spada, li affrontò uno a uno, e dopo averli uccisi, restituì libero all’imperatore il suo castello.

Storicamente, mai esistiti i giganti Ursini e tanto meno il paladino Uzeda, semplicemente frutto della fantasia popolare, miranti a glorificare la figura di Federico II.

Ancor oggi c’è chi sostiene che delle strane figure vivono nel castello, dove a volte si sentono delle strane voci.

Una leggenda, inoltre, vuole che il Castello Ursino sia protetto dalla Patrona di Catania, Sant’Agata, per essere rimasto indenne dopo che la lava invase il seno di mare su cui si ergeva e dopo i bombardamenti dell’ultima guerra.

Questa leggenda trae origine dal fatto che, quando la lava dell’Etna coprì la baia, ormai piazza Federico di Svevia, la popolazione chiese a gran voce che venisse esposto il velo di Sant’Agata a fronte del suo inesorabile avanzare. Il velo della Santa fu esposto con grande pompa davanti al fronte della lava, che si fermò risparmiando il castello.

 

 

 

IL CASTELLO DI LEUCATIA

Catania

 

 Al Castello di Leucatia è legata la storia del fantasma della bella Angelina. Si racconta che esso è abitato da una bella fanciulla che fa la spola tra il castello e il cimitero.

Un ricco commerciante catanese d’origine ebrea, decise di costruire un castello per farne dono di nozze alla figlia Angelina. Scelse il piano di Leucatia dove  - ai tempi degli antichi romani - pare sorgesse un cimitero cristiano,  fuori le mura di Catania. Per questo motivo già il castello era indiziato come posto frequentato da fantasmi.

Tuttavia il piano di Leucatia si prestava a diventare la magione di una ricca famiglia. Pertanto il proprietario passò sopra questa diceria popolare e non esitò a costruirvi il castello. Quest’ultimo, con il suo alto torrione e le sue robuste mura, era in fase di ultimazione quando, a sua insaputa, Angelina fu promessa in sposa a un’alta personalità catanese. Al tempo le cose andavano diversamente dai nostri giorni. Quando un uomo decideva di accasarsi, ancor prima di corteggiare la futura sposa, si rivolgeva direttamente al padre della prescelta. Se la proposta era accettata, si stilava prima un rogito notarile con promessa di matrimonio e dote e dopo se ne dava comunicazione all’interessata che, per rispetto al genitore, era tenuta ad accettare.

Così andarono le cose anche tra l’Angelina, il padre e il futuro sposo. Purtroppo, si dava il caso che la fanciulla fosse innamorata di Alfieddu, un suo lontano cugino, per niente ricco e nobile.

Non potendosi opporre alla volontà del padre, Angelina salì sul torrione del castello in costruzione e si buttò giù sul selciato. Naturalmente morì e il matrimonio non si celebrò e il padre di Angelina, venduto il castello, con il denaro ricavato s’illuse di poter perpetuare l’immagine della figlia, facendone mummificare il corpo, che fu allocato in una cappella del cimitero di Catania.

C’è chi giura, che durante la notte la bella Angelina, con il suo abito da sposa, lascia il cimitero e ritorna al Castello alla ricerca di Alfieddu, che non può incontrare perché deceduto di morte naturale.

La tradizione popolare vuole che i defunti di morte violenta rimangano erranti in questo mondo, mentre quelli   di morte naturale raggiungano la sede loro stabilita dalla giustizia divina. Pertanto essi non potranno mai incontrarsi e il fantasma di Angelina pare che continui ancora a fare la spola tra il castello e il cimitero.

Inoltre, nonostante durante l’ultima guerra il castello fosse sede di una guarnigione tedesca e che le bombe non risparmiassero le case attorno, il castello non subì alcun danno. Ciò avvalorò la tesi che esso fosse protetto dai fantasmi, che si presero la briga di deviare anche il percorso in caduta delle bombe.

 

 

Il CASTELLO DELLA ZISA

Palermo

 

 

Questo castello, sorto nel 1165 a opera di Guglielmo I, detto il Malo e completato dal suo successore Guglielmo II detto il Buono, volle essere una glorificazione della conquista normanna della Sicilia sugli Arabi.

Il nome La Zisa, trae origine dal termine arabo Al-Aziz e richiama il genere di architettura araba, con le opportune correzioni imposte da quella normanna.

Dichiarato Patrimonio dell’umanità da parte dell’Unesco, ospita fin dal 1991 il museo d’arte islamica, ma è stato anche famoso per aver ospitato il tribunale della Santa inquisizione e pertanto gode la fama di essere infestato dei fantasmi di quanti furono processati, torturati e uccisi nelle sue carceri.

In verità, in Sicilia la Santa Inquisizione non fu così feroce come in altre parti d’Italia, ma essendo stato il castello della Zisa sede del suddetto tribunale e richiamando le sue indecifrabili incisioni e sculture arabe l’islamismo, considerato opera del demonio, è nata nel popolo cristiano la leggenda di essere infestato appunto da demoni e fantasmi.

C’è chi giura di aver sentito, visitando le celle dei condannati, le loro urla di dolore e di aver visto danzare i diavoli nell’attesa di accogliere i dannati per condurli all’inferno.

Inoltre si dice a Palermo che la Zisa sia stato costruito in un luogo dove è stata nascosta una  “truvatura”, ossia un tesoro protetto dagli spiriti, che ancora nessuno è riuscito a scovare, poiché essi fanno buona guardia ed addirittura non si sa esattamente quanti essi siano. Questo perché i diavoli  che sono esposti sul frontespizio, che altro non sono se non lettere arabe, risultano sempre di numero differente a seconda di chi e quando li si  osservi. Questa diceria è nata perché vi fu un tempo in cui i palermitani erano soliti  recarsi alla Zisa per fare lo schiticchio e schiticchiando, schiticchiando mandavano giù qualche bicchiere in più di vino, con la conseguenza che con la mente annebbiata dai fumi dell’alcool non riuscivano mai ad indovinare il numero esatto delle lettere esposte sul frontespizio dell’edificio.

 

 

 

 

 

La Leggenda del castello di Maletto

 

Maletto è uno dei paesetti che nascono sulle falde dell’Etna e che gode del primato di essere il comune più alto della Sicilia a circa mille metri sul livello del mare.

Diversamente da tutti gli altri paesetti che sorgono sull’Etna, recenti scavi eseguiti tra il 1987 ed il 1988 hanno rilevato che la zona fosse abitata addirittura nel Neolitico medio e che la colonizzazione greca si sia estesa fino a codesti luoghi, dove, intorno ad un vecchio rudere, nell’anno 1283 , una donna, parente di Federico II, tale Manfredi Marietta, detta Maletta, non fece costruire un suo castello. Dalla tradizione orale ed anche dalla modifica del suo nome da Marietta a Maletta, sembra non fosse un tipo molto  raccomandabile. Si dice, sostanzialmente, che fosse una crudele brigantessa, che a capo di una masnada di gente cattiva da questo castello, che scelse come sua sede, esercitasse un’attività nefasta in quei luoghi.

 Proprio a causa di questa sua cattiva fama, il suo soprannome Maletta, passò al luogo che venne chiamato “ U Malettu”, anche perché, dopo la sua morte, la leggenda vuole che il suo fantasma si aggirasse e continui ancora a manifestarsi,  tra i ruderi di questo castello, che solo nel 1440 vide nascere intorno a sé il comune chiamato Maletto.

C’è, anche ai nostri tempi, gente che giura di averla vista torva ed armata, aggirarsi tra le vie deserte ed innevate del paese in alcuni periodi dell’inverno e mischiare all’urlo del vento le sue grida minacciose.  Tuttavia, il paese è molto frequentato, visitato e rinomato per la produzione del famoso pistacchio, che in nessuna altro luogo dell’Etna cresce così bene.

 

 

 

 

IL CASTELLO DI CACCAMO

 

 

Questo fortilizio, nato forse intorno all’anno 480 a.C. nei pressi di un villaggio di Sicilia, ai tempi del Re Guglielmo I detto il Malo, era di proprietà di un nobile che si chiamava Matteo Bonello, molto inviso al sovrano.

Si racconta anzi che abbia congiurato nei confronti del suo Re, macchiandosi anche del delitto di un alto dignitario di corte.

Il re in questione, chiamato appunto il Malo, che in latino significa cattivo, andò per le spicce. Fece catturare il Bonello e nel suo stesso castello lo sottopose a torture indicibili e alla morte.

La leggenda vuole che il suo fantasma si aggiri ancora nel castello e che durante la notte è possibile sentire ancora i suoi lamenti e le sue grida.

Sembra inoltre che non sia l’unico fantasma ad aggirarsi tra le mura del castello, poiché vi è anche quello di una monaca uccisa per aver tradito la sua fedeltà a Cristo, essendosi invaghita di un uomo. La leggenda vuole che, ella venne punita con la morte insieme al suo amante, e che la sentenza  venne eseguita nel castello.

 

 

 

IL CASTELLO DI CARINI

 

Ancora più famoso del precedente è il castello di Carini per la sua leggenda di morte, testimoniata da un’impronta di mano insanguinata (quella di una donna) che appare sulla parete di una stanza. La donna in questione, certa donna Laura, una fanciulla di appena quattordici anni, andò sposa per volere del padre al vecchio Barone di Carini, senza esserne innamorata. Avvenne che Donna Laura s’innamorasse dopo di un certo Ludovico Vernagallo, forse un paggio o un precedente fidanzato. La faccenda venne all’orecchio del padre della fanciulla, che personalmente uccise la figlia cogliendola in flagrante nella stanza, dove ancora è possibile vedere l’impronta della sua mano insanguinata sul muro. La leggenda vuole che ancora adesso la baronessa di Carini, in veste di fantasma si aggiri lungo le stanze che la videro in vita sposa infelice, martire del suo grande amore e vittima del padre.

 

 

 

 

LA LEGGENDA DI JANA DI MOTTA S.A.

 

 

Nell’entroterra catanese, vi è un castello antichissimo, attorno al quale nacque la cittadina di MOTTA SANTA ANASTASIA. Il paesetto in questione, molto ridente conserva ancora nella popolazione la vecchia suddivisione medioevale di Arti e Mestieri ed inoltre è sede di manifestazioni che ricordano il suo storico passato. Chiaramente, oggetto della sua fama è il Castello, che a quei tempi aveva una importanza strategica e militare nei confronti di Catania. Chiunque avesse il possesso di questo castello poteva essere un ottimo difensore della città di Catania, ma nel caso contrario anche un pericoloso nemico.

A quei tempi avvenne una famosa leggenda. La Sicilia era in mano agli Aragonesi, i quali avevano sancito in un primo momento che la sede del loro regno non fosse in Spagna, ma in Sicilia, scegliendo come capitale proprio la città di Catania, che ne fu orgogliosa. La reggia degli Aragonesi a Catania era in quello che oggi viene chiamato palazzo Platamone ed è sede di attività artistiche. – Solo successivamente gli Aragonesi decisero di spostare la capitale da Catania a Palermo, che risultava più vicina ai territori spagnoli.

In ogni caso la leggenda di cui parlo avvenne quando ancora Catania era capitale del Regno degli Aragonesi. Avvenne pure che il re morì ancora giovane per cause naturali, lasciando come erede la povera moglie Bianca di Navarra, che si rifugiò nel suo dolore trovando consolazione nell’affetto delle suore del vicino convento. Ma la morte del Re e l’età ancora giovanile della Regina suscitò tutta una serie di pretese, aspettative ed appetiti da parte di molti, che aspiravano a diventare sovrani. Nessuno osò, in ogni caso,  avanzare proposte coercitive nei confronti della Regina, tranne uno, un certo Chiabrera, conte di Modica, “Gran Giustiziere del Regno”, tra l’altro malvisto dal popolo che lo considerava un assassino del popolo, uno sgherro ed un masnadiero. Al netto rifiuto della Regina, egli si arroccò con le sue milizie proprio nel castello di Motta S.A. e di la faceva delle  incursioni piratesche nel territorio antistante le porte di Catania, che sorgevano nelle vicinanze dell’attuale Fortino, allo scopo di costringere la Regina a cedere. Bianca di Navarra non cedette e trovò il modo di poter eliminare l’insulso suo pretendente. Si accordò con una certa Dama di Motta SA, passata alla storia con il nome di Jana. Costei, entrata in confidenza con il Chiabrera, lo convinse che la Regina Bianca era disposta ad accettarlo come marito, ma pretendeva di conoscerlo bene prima e pertanto si fece ambasciatrice di un incontro tra i due futuri sposi, a condizione che il loro incontro avvenisse in maniera molto discreta e segreta. Per il Chiabrera era un grosso problema, poiché uscendo dalla porta del Castello, doveva per forza di abitudini essere sempre accompagnato dalla scorta. Si lamentò con Jana di essere schiavo dei suoi stessi sgherri e non sapeva come fare per evitarli. La perspicace Jana rispose che la cosa era possibile. Bastava uscire dal Castello calandosi da una finestra dall’esterno con una corda ed andare via liberamente. Ella avrebbe provveduto a fargli trovare un cavallo già sellato. Il ritorno al castello non era un problema.

Il Chiabrera si convinse e nel giorno stabilito si calò dalla finestra con una corda per raggiungere il suo cavallo già pronto. Ma ecco la sorpresa. Ad accoglierlo non fu il cavallo, ma una rete a mezz’aria, opportunamente preparata, che gli impedì di muoversi. Quattro robusti armigeri lo posero addosso al cavallo legato come un salame e lo condussero a Catania, dove venne imprigionato, accusato di lesa maestà e giustiziato. Questa ricostruzione dell’evento cozza con quanto ho appreso durante una visita al castello, dove mi fu indicato il posto dove il Chiabrera venne imprigionato e giustiziato. In ogni caso è vera la vicenda del tentativo del Chiabrera di impossessarsi del regno degli Aragonesi, cercando di sposare volente o nolente Bianca di Navarra ed è altrettanto vero che gli andò buca, rimettendoci la testa.

 

 

 

 

 

LA LEGGENDA DI FRANCAVILLA

 

Secondo la leggenda di Gammazita, che giustifica la cacciata dei Francesi dalla Sicilia, con la ribellione dei famosi Vespri, sembra che essi fossero tutti cattivi e malvisti. Ma in effetti non fu così, poiché a Sperlinga, ad esempio,  non furono odiati. Tutt’altro!   Molte donne piansero per la perdita dei loro mariti francesi ed inoltre vennero esposte al pubblico ludibrio, rapandole a zero, esattamente come avvenne con le donne italiane della seconda guerra mondiale che sposarono dei soldati tedeschi.                                     

Questa leggenda che segue ne è la conferma.

Nei pressi di Castiglione di Sicilia vi era un castello, dove viveva la bella castellana Angelina, che si era innamorata del Delfino di Francia. Quest’ultimo, che l’adorava, a causa dei Vespri, fu costretto ad imbarcarsi per Napoli e lasciare la Sicilia, ma promise alla bella Angelina che sarebbe tornato clandestinamente per portarsela in Francia. Egli sarebbe arrivato dal mare e, sbarcando di nascosto, l’avrebbe portata sulla sua nave e condotta in Francia. Era necessario però che lei accendesse permanentemente  un falò sul punto più alto del castello per essere da guida a lui, che sarebbe arrivato di notte. Il principino partì  e da quel giorno la bella Angelina dette ordine alla sua ancella Franca di accendere ogni sera il falò del segnale convenuto, raccomandandogli di vegliare per avvisarla dell’arrivo. “Franca vigghia”, le disse, “Mi raccomando Franca vigghia” (veglia)  Dopo molti giorni, finalmente il principe arrivò e la fida ancella avvisò la bella Angelina, che poté così prendere il volo ed andare in Francia con il suo principe. Quando, poi, i Francesi ritornarono in Sicilia chiamarono quel castello “Francavilla” (Francavigghia) per premiare la costanza dell’ancella. Intorno al castello sorse una cittadina che ancora esiste e si chiama appunto Francavilla di Sicilia.

 

 

 

 

 

LEGGENDE LEGATE AD ALCUNE CITTA’ DELLA SICILIA

 

 

Le leggende su questo argomento sono moltissime e doverle riferire tutte è un’impresa molto ardua. Accennerò alle più famose o per lo meno a quelle che maggiormente mi hanno colpito.

 

 

 

LA LEGGENDA DEL  COCCODRILLO DI PALERMO

 

Un bel giorno un negoziante della “Ucciria” di Palermo, allo scopo di fare pubblicità al suo negozio, espose un coccodrillo imbalsamato. Intorno a questa figura del coccodrillo imbalsamato, successivamente conservato come una reliquia, nacquero le leggende più disparate. Anche ai nostri tempi c’è chi giura di aver visto il suo fantasma saltare fuori alcune volte dalla fontana, girare per la città e ritornarsene là da dove era venuto. Furono fatti degli studi, interpellati maghi e scienziati ed alla fine si giunse alla conclusione che quel coccodrillo, preso ed imbalsamato, fosse giunto direttamente dalle acque del Nilo in Egitto, attraversando a nuoto un ramo del suo delta , il Papireto, che attraversando tutto il mare mediterraneo veniva a sboccare proprio a Palermo.

A questo punto bisogna precisare che la città di Palermo, fu fondata dai Fenici molto tempo fa con un altro nome in un tratto di terreno compreso tra due fiumi: il Kemonia ed il Papireto, molto adatto all’attracco dei navigli di allora. Quando vi arrivarono gli Arabi, la battezzarono Balam, che significa città tutto porto. Il termine in questione nel tardo latino medioevale diventò Balermus ed infine in italiano Palermo. Forse furono proprio gli Arabi ad alimentare la leggenda che i due fiumi sopraddetti fossero due propaggini del delta del Nilo, per giustificare il loro possesso della Sicilia.

I due fiumi che ho citato sono ormai scomparsi , sepolti dalla sempre crescente urbanizzazione. Tuttavia il nome di qualche via li ricorda. Cito  ad esempio via Oreto, che altro non è se non la deformazione di Papireto.

 

 

 

LA LEGGENDA DEL FANTASMA DEL POLITEAMA A PALERMO

 

Dice una leggenda, tuttora in auge che il teatro Politeama di Palermo, che si erge superbo e spettacolare al centro dell’omonima piazza, sia infestato di fantasmi, ma che uno in particolare continua a mostrarsi nei momenti più impensati per terrorizzare la gente e creare scompiglio e disordine anche durante le manifestazioni teatrali.

C’è chi giura di averlo visto girare in varie occasioni dentro il locale, tra le scene, nei palchi e nei corridoi  in veste di una suora.

Alla base di questa leggenda vi è il fatto che l’attuale teatro pare sia sorto sull’area precedentemente occupata da quattro chiese, le quali, un tempo servivano anche da cimiteri. Si dice che per l’occasione venne profanata la tomba di una suora appena sepolta, la quale continua fino ad ora ad aggirarsi tra i meandri del teatro, ancora incavolata per avere avuto turbato il suo sonno eterno.

 

 

 

 

LA LEGGENDA DEI BEATI PAOLI DI PALERMO

 

E’ questa una leggenda legata al rifiorire di associazioni segrete nel periodo in cui nacque l’impulso illuministico della fratellanza massonica d’origine francese, in cui elementi religiosi venivano mischiati ad interessi prettamente umani. Anche in Sicilia si ebbero questi impulsi e queste manifestazioni al fine buono di spegnere nel popolo la sete di giustizia e d’eguaglianza fraterna.

Si racconta che a Palermo nacque una società segreta, chiamata appunto dei Beati Paoli, perché ispirata a San Francesco di Paola. In effetti sembra trattarsi di una setta segreta i cui adepti erano devoti a questo santo, indicato come simbolo non solo di santità , ma di giustizia. Essi si riunivano in antri sotterranei della città vestiti da monaci con il saio  francescano e giudicavano pure chi andasse punito per i suoi misfatti, indipendentemente dalle autorità statali. Sulla bontà e sulla buona fede di questa fantomatica associazione non è dato sapere o conoscere alcunché. Per alcuni essa è da annoverare come la prima associazione in Sicilia di stampo mafioso, per altri è stata fonte di ispirazione di fatti e racconti dell’epoca, in cui vengono esaltati i principi umani del vivere sociale.

Ormai  I Beati Paoli fanno parte di un passato remoto, forse fantasioso, ed alcuni episodi di vita legati ad essi, costituiscono solo delle vicende romanzate.

 

LA LEGGENDA DELLA GIUSTIZIA DI CARLO V°  A

PALERMO

 

 

Chi visita Palermo , in piazza Bolognini  si trova al cospetto di una statua dell’imperatore Carlo V°  nella posizione in piedi di mostrare la mano destra aperta con il braccio teso all’altezza della vita. Tale statua venne eretta intorno al 1630 per celebrare  la sua visita a Palermo , avvenuta nel 1535  e nello stesso tempo esaltare la sua figura di grande sovrano su cui il sole non tramontava mai.

Quella positura della statua e quella mano aperta, ha dato luogo a molte illazioni e commenti. C’è oggi chi dice, ad esempio, che l’imperatore intendesse dire che a Palermo l’immondizia è alta tanto quanto mostra, ma, a detta della maggior parte della gente, la leggenda dice che l’imperatore, in occasione della sua venuta a Palermo, fece giustizia di cinque, proprio cinque,  giudici corrotti. Tutto ciò per essere di monito contro i cattivi amministratori della giustizia.

Si racconta che vivesse a Palermo un giovane, che rimasto orfano di genitori benestanti in tenerissima età, fosse stato ridotto in povertà dal suo tutore impossessatosi dei suoi averi. Il giovane denunciò il suo tutore, ma il tribunale, composto da cinque giudici, opportunamente corrotti, gli dettero torto. Il giovane propose ricorso alla sentenza senza alcuna speranza, ma saputo della presenza dell’imperatore a Palermo, si presentò a lui e raccontò il suo caso, precisando la data in cui il tribunale avrebbe dovuto decidere il ricorso, che sicuramente sarebbe stato respinto. L’Imperatore, nel giorno stabilito, vestitosi da frate, andò ad assistere al giudizio. Nell’atto in cui i cinque giudici stavano per emettere la sentenza sfavorevole al giovane, Carlo V si fece riconoscere, contestò loro il reato di corruzione e li condannò ad essere scorticati vivi, tutti e cinque come indica la statua con la mano aperta.

Pare che in verità Carlo V non abbia fatto  scorticare nessuno, ma è vero il fatto che emise, durante il suo potere, degli editti per arginare il fenomeno della corruzione abbastanza fiorente a Palermo. La statua quindi ha lo scopo di dire al popolo di aver fiducia nelle autorità preposte. Nel caso specifico all’imperatore Carlo V.

 

 

 

 

La leggenda di Colapesce

 

 

Sulla falsariga delle favole mitologiche, si innesta la leggenda di Colapesce, raccontata da Calvino, ma già nota da molto tempo prima e interessante la Sicilia.

Nicola da Messina era un pescatore famosissimo ai tempi dell’imperatore Federico II, per la sua bravura nell’esplorare il fondo marino in apnea, come suole dirsi da quando sono state inventate le attrezzature per i palombari.

La sua fama raggiunse l’imperatore, che andò a Messina per metterlo alla prova. Egli lanciò a mare un cofano pieno di preziosi e ordinò al pescatore di recuperarlo.

Colapesce si tuffò e riemerse con in mano il cofanetto. Allora l’imperatore prese la sua corona e la buttò in un punto, dove il mare era più profondo e gli ordinò di ripescarla.

Il pescatore si tuffò nuovamente e dopo un poco riemerse con la corona che consegnò al sovrano. A questo punto Federico II si sfilò dal dito il suo anello e lo buttò in un punto dello stretto ancora più profondo, rinnovando l’ordine di riportaglielo.

Colapesce si tuffò nuovamente e nel ripescare l’anello si accorse che, dei tre pilastri situati ai punti estremi della Sicilia, quello che sorgeva sullo stretto stava per crollare e far venire meno il sostegno a tutta l’isola, che rischiava così di venire inghiottita dalle acque.

Decise così di sostituirsi al pilastro cadente e di non riportare l’anello all’imperatore. La leggenda vuole che egli sia ancora lì a impedire che la Sicilia sprofondi nel mare.

Come tutti i miti e tutte le leggende, anche questa ha subito una piccola modifica a Catania, secondo la quale i fatti si svolsero proprio a Catania e non a Messina e che l’imperatore Federico II abbia richiesto a Colapesce di spegnere il fuoco che ardeva sotto l’Etna. La leggenda vuole che Colapesce abbia eseguito l’incarico, dicendo chiaramente che sarebbe rimasto bruciato dal fuoco e che non sarebbe mai più emerso dal mare.

Egli si tuffò portando con sé un grosso bastone di legno, spense il fuoco sotto il vulcano rimanendovi coinvolto e a prova della sua opera, emerse dal mare il suo bastone tutto annerito e bruciacchiato.

Uno dei quattro candelabri che sono stati in epoca recente posti nella piazza Università di Catania (ex Piano degli Studi) ricorda il mito di Colapesce, che pur non appartenendo alla mitologia greco-romana ha con quest’ultima un filo conduttore, che esalta la fantastica forma triangolare dell’isola, rappresentata dal mitico triscele, nonché la costituzione territoriale legata al mare e al vulcano dell’Etna.

Una più sottile metafora di questo mito è legata alla regale figura di Federico II, stella del firmamento storico dell’Europa e in particolare della Sicilia, il quale si guadagnò il titolo di “stupor mundi” per la sua ampiezza di idee aperta al progresso e alla pace. La figura di Colapesce rappresenta quella del suddito fedele, laborioso ed eroico, capace di sacrificare se stesso in ossequio alla volontà imperiale, che solamente la salvezza della sua terra poteva impedire.

Parlando della leggenda di Colapesce, che è relativamente recente, mi va di ricordare che essa, nata, ovviamente per esaltare la grandezza d’animo dei siciliani, anche quando esercitano un modesto lavoro, come quello del pescatore, affonda le sue radici nel mondo mitologico greco.

Descrivendo la cosmogonia ideata dai Greci, ho già parlato dei famosi Giganti e dei famosi Titani, costituenti le forze del male che si opposero alla forze del bene capitanate da Giove. In quell’occasione non ho parlato di Tifeo, uno di questi giganti, riservandomi di parlarne a proposito della leggenda di Colapesce.

Il mito greco racconta che uno degli acerrimi nemici di Giove fu proprio Tifeo, dotato da una forza erculea che oppose al padre degli Dèi, riuscendo anche a spuntarla. Infatti da uno scontro tremendo tra Giove e Tifeo, ne risultò vincitore Tifeo che riuscì a lasciare in terra il povero Giove asportandogli i tendini delle gambe. Forse la storia di Giove e delle forze del bene sarebbe finita lì se non fosse intervenuto al momento opportuno il Dio Mercurio, o Hermes, come lo chiamavano i Greci, il quale riuscì a trovare i tendini recisi di Giove e nascosti da Tifeo in un posto sicuro. Per Mercurio, re dei ladri, nessun posto era sicuro. Egli trafugò i tendini a Tifeo e li rimise al posto giusto nelle gambe di Giove. Il Padre degli Dèi, inviperito dallo smacco subito, rintracciò Tifeo e a forza, dopo una lotta che lo vide vincitore, lo buttò a mare costringendolo a sostenere la Trinacria che rischiava di precipitare nel fondo del mare. Il gigante Tifeo, per questa punizione inflittagli da Giove, fu costretto a sdraiarsi sotto l’isola sostenendo in eterno con le braccia i due lobi orientali di Valdemone e di Val Di Noto e con le gambe in direzione occidentale il Val di Mazara. Sembra che per lo sforzo, di tanto in tanto sia costretto a eruttare fuoco dal cratere dell’Etna, che costituisce la sua bocca infernale, e che di tanto in tanto sia costretto a muoversi da quella scomoda posizione, creando dei terremoti. Qualcuno potrebbe obiettare: ma questo mito annulla quello di Encelado, che vuole quest’ultimo a essere sepolto sotto i cocuzzoli del monte Olimpo buttatigli addosso da Giove in fase di incazzatura per difendere il suo potere! Io rispondo che i miti degli antichi greci, oltre a non essere dogmatici e fonte di verità erano frutto della fantasia e non di una tradizione scritta. Qualcuno, doveva pur sostenere a galla questa Trinacria! Che fosse Encelado o Tifeo, non aveva alcuna importanza e dire che fosse l’uno o l’altro non costituiva un’eresia essendo la fantasia libera di spaziare per tutto l’universo, anche quello degli Dèi.

 

 

 

LA LEGGENDA DI MARTA E GRIFONE DI MESSINA

 

Si racconta che nell’anno 970 nel territorio dove sorgeva la vecchia Zancle, ai tempi in cui la Sicilia era soggetta alle incursioni piratesche arabe, vivesse una bella fanciulla, chiamata Marta, figlia del principe  Cosimo II da Castelluccio. Durante l’ennesima incursione il pirata moro Hassan-Ibn Hammar, detto Grifone, scorse la fanciulla mentre andava in chiesa. La guardò, se ne innamorò e non le torse nemmeno un capello. Anzi la protesse dai suoi giannizzeri facendola ritornare sana e salva a casa.

Successivamente si presentò al padre chiedendola in sposa, ma Cosimo II rifiutò nettamente. Come reazione il Pirata, non solo intensificò le incursioni su Zancle, ma rapì la fanciulla, per costringere il padre a dargliela in sposa. Ottenne non solo il rifiuto di Cosimo, ma anche quello di Marta che gli disse papale papale che non poteva accettare il suo amore perché non era cristiano. Hassan le si inginocchiò ai piedi e giurò di farsi  cristiano. Mantenne la sua promessa, sposò Marta ed insieme fondarono l’attuale città di Messina, diventandone  regnanti e sovrani, amati del popolo.

Marta e Grifone (Matta e Grifuni) vengono rappresentati a Messina come due gigantesche figure, che nonostante l’intervento della Santa Inquisizione di allora, continuano ad esserlo. Eccone i motivi di tutto questo.

Nacque la leggenda che quando Giove riuscì a soggiogare i Giganti per il potere del mondo, una coppia di essi, appunto Matta e Grifuni a Messina, allora Zancle, riuscirono a sopravvivere ed a tener testa al padre degli Dei, imponendo al popolo la loro tradizione ed il loro potere. Sicché, a Cristianesimo avanzato, a Messina si consideravano i due giganti come due santi, che, tra l’altro, godevano la fama di aver fondato Messina. La faccenda non sfuggì alla Santa Inquisizione, che sottopose quel rito al giudizio di Dio per stroncarlo definitivamente, essendo considerati  sempre forze del male i Giganti, come dettato dalla mitologia. Il popolo si ribellò alla ingiunzione della Santa Inquisizione, che restò con le pive nel sacco. Di conseguenza, venne tirata fuori la leggenda di Marta cristiana e di Grifone moro convertitosi al cristianesimo per amore e della loro santità. Ancora oggi i Giganti Marta e Grifone, vengono festeggiati a Messina, come i fondatori e protettori della città redenta a Cristo.

 

 

 

 

LA LEGGANDA DELL’ANNUNZIATA DI ANTONELLO DA MESSINA

 

Nella Galleria d’arte del palazzo Abatellis di Palermo è custodito un quadro su tela di 46x34, detto dell’Annunziata, di Antonello da Messina, celebre pittore messinese nato nel 1434. Dice la leggenda che il viso rappresentato dell’Annunziata sia quello della Superiora delle Clarisse Madre  Eustochia Calafato, che nel 1988 venne dichiarata Santa da Giovanni Paolo II.

Il pittore  conobbe questa donna, che nello stato laico si chiamava Esmeralda, da giovinetto e se ne innamorò, ma fu costretto a non vederla più per seguire i suoi studi. Cresciuta, Esmeralda, forse perché innamorata anche lei di Antonello, decise di farsi suora ed entrò nel convento delle Clarisse. Diventata riformatrice e superiora dell’ordine delle Clarisse, con il nome di Suor Eustochia Calafato, morì in odore di santità nel 1485, non prima di essersi incontrata con Antonello, rientrato nel 1476 a Messina. Fu in quell’anno che Antonello, ormai celebre ed ispirato dalla bellezza di Esmeralda, dipinse il quadro dell’Annunziata. Affascinato dal carisma spirituale di Esmeralda, Antonello da Messina morì nel 1479.

Fu nel 1782 che Eustochia Calafato venne dichiarata Beata da Pio VI, essendo stato trovato il suo corpo intatto e non corrotto ed in grado di restare in equilibrio anche nella posizione in piedi. Infatti dopo la nomina a Santa da parte del papa Giovanni Paolo II, Ella a Messina viene venerata come la “Santa sempre in piedi”.

 

 

 

LA LEGGENDA DI ELIODORO E DEL LIOTRO DI CATANIA

 

 

A Catania si favoleggia dei viaggi del mago Eliodoro sul groppone del liotro, un elefante che è stato assunto come simbolo della città pur non facente parte della fauna siciliana.    La tradizione vuole che nel periodo della Santa Inquisizione, uno stregone, naturalmente assistito dal demonio, con le sue arti magiche riuscisse a imporre alla città il suo malefico influsso. Per questo fu deferito all’autorità imperiale, arrestato e spedito a Costantinopoli, dove risiedeva l’imperatore, essendo allora Catania parte dell’impero bizantino. Ebbene, in barba al processo che si svolgeva a Costantinopoli, Eliodoro aveva il potere magico di comparire contemporaneamente a Catania, utilizzando come cavalcatura la groppa di un elefante. Alla fine il vescovo di Catania, al secolo  San Leone II, il Taumaturgo, riuscì a farlo prigioniero e ad accompagnarlo personalmente tra le fiamme dell’Inferno. Eliodoro, lambito dalle fiamme, finì bruciato vivo mentre il vescovo ne uscì indenne.     E’ chiaro che il mago fu condannato al rogo, cosa normale a quei tempi e che il vescovo ne ebbe gloria, perché riuscì a farlo morire. Correva l’anno 778.

 

Ma quello che ha sempre  impressionato  il popolo catanese è sempre  stato  quell’elefante, assurto al ruolo di simbolo della città, un animale mai visto prima in Sicilia e che era proprio della fauna africana.

Dice la  leggenda che moltissimi anni fa, quando ancora in Sicilia vivevano coccodrilli ed elefanti e pare che crescesse in abbondanza anche il papiro non solo a Siracusa, ma anche a Palermo, gli elefanti si prestassero a trasportare i catanesi lontano dall’Etna, tutte le volte che il vulcano eruttava la sua micidiale lava.

Tutte queste leggende di cui parlo relativamente alla fauna e alla flora, alla luce di teorie nate sulla nascita del pianeta Terra e della sua evoluzione millenaria, trovano una risposta scientifica quasi certa.

Una delle teorie più accreditate è che il mar mediterraneo, un tempo altro non fosse che un immenso territorio sotto il livello del mare, ottenuto da un fenomeno di depressione simile a quella che sta attualmente interessando il mar Morto ed il mar  Caspio, destinati a scomparire. In questa immensa landa la fauna e la flora avevano la possibilità di scorazzarvi facilmente. Pertanto molti animali e piante che si trovano in Africa e in Asia, un tempo esistevano in Sicilia, ma non più adesso per le mutate condizioni climatiche. In seguito alle scosse di terremoto che interessavano questa landa causate, secondo un’altra teoria, dallo scontro tra la placca africana e quella euro-asiatica, avvenne che nel punto dove adesso vi è Gibilterra, si verificasse una rottura delle terre emesse e le acque dell’oceano Atlantico vi penetrassero, dando luogo all’attuale situazione geografica del mediterraneo. La Sicilia, che è una delle tante terre che emergono da questo mare, sicuramente fece restare prigionieri nel suo territorio animali e piante che vivevano già in Africa e altrove. Questi animali e queste piante, non trovando il clima adatto al loro sviluppo, finirono con l’estinguersi, lasciando nel territorio dei reperti archeologici, di cui non ci si rendeva conto. Questo sarebbe il caso dei coccodrilli, degli elefanti rimasti nani in Sicilia e successivamente scomparsi ed anche di piante, quali il papiro e altre ancora meno famose.

 

A porre al centro della piazza Duomo quell’elefante di pietra lava fu il Vaccarini, che, trovatolo dopo il terremoto sotto le macerie di un vicino edificio, ebbe l’intuito di piazzarlo lì, ricordando che l’elefante era già simbolo di Catania fin dall’anno 1230 circa. Lo trovò con le gambe rotte, che fece ricostruire dagli scalpellini. Vi pose pure sopra quell’obelisco, trovato pure sotto le macerie e che era servito da architrave alla porta d’ingresso dell’edificio distrutto. Attorno al monumento che ne venne fuori pose pure una vasca con l’acqua presa dall’Amenano. Durante gli anni successivi la vasca è scomparsa, ma l’elefante in pietra è rimasto sempre lì, nonostante fosse da alcuni considerato offensivo nei confronti della sacralità della chiesa di Sant’Agata ed irridente ai principi cristiani. La leggenda vuole anche che proprio in groppa a quell’elefante in pietra Eliodoro si permettesse il lusso di andare e venire da Costantinopoli . Sono stati fatti degli studi per individuare l’origine di quella statua, senza accertare dati reali, ma solo teorie. Secondo uno studioso di cose antiche sicule, il Carrera, l’elefante fu costruito per celebrare una vittoria militare dei Catanesi sui Libici. Secondo un altro dotto arabo, Idris, l’elefante in questione venne costruito come talismano nei confronti delle eruzioni dell’Etna. Pertanto ignoti e misteriosi rimangono le origini dell’Elefante di pietra del Duomo che i catanesi adorano definendosi di essere “di marca liotru”.

 

 

 

LA LEGGENDA DEL CAVALLO SENZA TESTA DI CATANIA

 

Una delle leggende in proposito a Catania è quella del cavallo senza testa che si aggirava per le vie cittadine. In questa città, nella piazza, dove troneggia la statua del cardinale Dusmet, proprio alle spalle del monumento, vi è l’inizio di via Crociferi, così chiamata perché ricca di chiese, nate dalla trasformazione di vecchi templi pagani. In quel punto vi è un arco in muratura che unisce due edifici, costruito, come vuole la tradizione nello spazio di una notte. Un po’ per questo motivo, un po’ anche per il motivo che quella località era il punto di ritrovo di alcuni nobili per i loro passatempi licenziosi, nacque la leggenda che in quei pressi, di notte, un cavallo senza testa si aggirasse lungo tutta la strada, galoppando forsennatamente e terrorizzando la gente. Lo scopo evidente era quello di tenere alla larga il popolino da quella zona. Non tutti credevano a quella storia. Vi fu un catanese che sostenne trattarsi di una bufala, come suol dirsi oggi, e si impegnò a dimostrarlo. Per questo motivo si munì di una lunga scala a pioli e di un grosso martello, con l’intento di piantare in piena notte al centro dell’arco un vistoso chiodo e dimostrare che nessun cavallo o altro avesse ostacolato la sua opera.

Scesa la notte, appoggiò la sua scala all’arco e vi salì fino in cima, dove tirato fuori il martello cominciò a piantare il grosso chiodo al centro dell’arco, che in effetti ancora esiste ai nostri giorni. Finita la sua opera incominciò a scendere lungo i pioli della scala, ma ne fu impedito poiché si senti trattenuto dall’alto. Lo sgomento e la paura furono tali che, agitandosi, la scala, precariamente appoggiata, finì per cadere sul selciato facendolo restare appeso all’arco come un salame. Era avvenuto che al buio non si era accorto di aver inchiodato pure un lembo del suo mantello. L’evento fu tale che rimase fulminato dallo spavento non spiegandosi il motivo del suo penzolare in aria. Sicuramente pensò che quella fosse opera del fantasma del cavallo senza testa. Sta di fatto che a giorno fatto, i cittadini lo trovarono penzoloni dall’arco morto stecchito. In conclusione la leggenda trovò la sua conferma e il popolino non si avvicinò più di notte in via Crociferi per paura d’incontrare il cavallo senza testa, chiaramente con la soddisfazione e il beneplacito dei nobilotti, che continuarono a godersi la libertà di trasgredire nelle ore notturne in quella località.

 

 

 

 

LA LEGGENDA DI GAMMAZITA DI CATANIA

 

 

Un’altra leggenda storica a Catania è quella del pozzo di Gammazita, nata in occasione della rivoluzione dei vespri siciliani avvenuta contro gli Angioini.

Bisogna sapere intanto che la Sicilia fece parte del Regno d’Aragona. Anzi si può dire che il regno d’Aragona era più siculo-napoletano che aragonese. Di fatti l’Aragona, in Spagna, costituiva una parte del reame, la cui capitale era proprio a Catania, la cui reggia si trovava nei pressi della chiesa di San Placido e pare che l’attuale palazzo Platamone ne facesse parte. Con questo discorso voglio significare che i Siciliani si sentivano fieri di appartenere a questo regno. Allora non esisteva, né si concepiva ancora un’Italia unita. Per tale motivo, quando Carlo d’Angiò riuscì a cacciare dal Regno delle Due Sicilie, la dinastia aragonese, i siciliani, in particolare, se ne dolsero e insorsero nei confronti dei francesi. Del resto i Francesi, giunti in Sicilia, avevano trattato i suoi abitanti, da vinti. Per tale motivo i siciliani si ribellarono e cacciarono via gli invasori. A onor del vero, solamente la città di Sperlinga non si ribellò ai Francesi e per questo, i suoi abitanti furono dopo puniti.

Si racconta che, in questo clima, un soldato francese, un certo Droetto, abbia violentato una ragazza catanese, una certa Gemma che era “zita” (fidanzata) con un bravo giovane catanese. La povera Gammazita, che si sentì disonorata da quel gesto violento, si uccise gettandosi in un pozzo, che attingeva le sue acque dallo Iudicillo, un ramo del delta dell’Amenano, che sfociava nella baia del castello Ursino. La morte della ragazza segnò l’inizio della rivoluzione dei vespri, il cui esito fu la cacciata degli Angioini. Ancora oggi, nei pressi della piazza Federico di Svevia, esiste un pozzo, relegato in un condominio abitato, dove la tradizione vuole che Gammazita si uccidesse.

Con questo episodio Catania rivendica che la rivolta contro gli Angioini ebbe origine a Catania, ma è da dire che anche a Palermo esiste una simile storia in proposito.

 

 

LA LEGGENDA DI PIPPA LA CATANESE

 

 

La vicenda di Pippa la Catanese, vittima illustre della Sacra Inquisizione, ebbe inizio a Catania ed esattamente al Castello Ursino- Era Pippa una giovanissima lavandaia che esercitava il suo modesto lavoro sulle rive dello Iudicillo, un ramo del delta dell’Amenano, che sversava le sue limpide acque nella baia dove sorgeva e sorge ancora il Castello Ursino, prima che fosse invasa dalla lava.

Correva l’anno 1300 quando nasceva al Castello Ursino il delfino Luigi d’Angiò, figlio del Re Roberto d’Angiò e della Regina Jolanda d’Aragona. Tale nascita impose ai due sovrani di adottare una badante per il neonato. Fu Roberto in persona che scelse la giovanissima lavandaia Pippa per accudire il piccolo rampollo.  Quando nel 1302 scoppiarono i Vespri Siciliani e gli Angiò vennero cacciati dalla Sicilia, Pippa scelse di seguire la famiglia reale a Napoli, lasciandosi definitivamente alle spalle la Sicilia ed il mestiere di lavandaia. La giovanissima Pippa, non solo fu all’altezza della situazione, ma anche molto accondiscendente ad apprendere le buone maniere della nobiltà, riuscendo a conquistarsi le benemerenze e la stima della intera famiglia  regnante, che la fecero sposare con il siniscalco del Re. Da quel momento Pippa diventa un personaggio importante nella gestione della nobile famiglia degli Angiò. Anche se il delfino Luigi muore nel 1310, Roberto ha un secondo figlio , Carlo Duca di Calabria, che sposatosi mette al mondo due figlie femmine ed anche lui premuore al padre. Infine, quando Roberto d’Angiò muore nel 1343 il Regno di Napoli viene ereditato da una delle due figlie di Carlo, Giovanna. Quest’ultima, ascesa al trono con il nome di Giovanna I, sceglie Pippa come sua consigliera e fedele amica.   Giovanna I, si sposò con  Andrea d’Ungheria, che un bel giorno venne trovato ucciso. Il Papa di allora Clemente VI, che aveva un certo ascendente nel mondo di allora ed aveva assunto anche il ruolo di Giudice anche dei sovrani, aprì un’inchiesta  per far luce sull’efferato delitto. Si sospettò subito che la mandante del delitto fosse Giovanna I, ma per poterla accusare bisognava avere delle prove. Per trovarle, l’Inquisitore mise sotto torchio Donna Pippa la Catanese, la quale, essendo la sua consigliera ed amica, sottoposta a tortura avrebbe sicuramente rivelato il segreto della regina. Pippa non parlò. A questo punto Giovanna I contattò il papa e pur di far cessare l’inchiesta, gli disse che era pronta a “dare in elemosina” al vicario di Cristo alcune città del regno di Napoli. Clemente VI accettò l’elemosina e dette ordine all’inquisitore di concludere l’inchiesta anche se non si potesse stabilire l’autore del reato. Il funzionario chiuse l’inchiesta dicendo che il demonio era riuscito ad impossessarsi dell’anima di Pippa impedendole  di rivelare il nome dell’autore del delitto. Pertanto si affidava definitivamente al Tribunale divino  il compito di fare  giustizia dell’autore del delitto e si condannava Pippa al rogo per liberarla dal demonio. E così fu fatto.

 

 

 

 

LA LEGGENDA DEI VASI DELLE TESTE DI MORO DI CALTAGIRONE

 

 

Nella cittadina di Caltagirone in Sicilia è nota la lavorazione della ceramica, che si ispira alla mitologia e ad altre leggende siciliane. Una di queste è quella relativa alle delle teste di moro.

Si tratta di due vasi a forma di testa riproducenti un uomo e una donna adornati da una corona lei e da un turbante lui, oppure di chioma fluente lei e di una barba lui, a seconda della fantasia dell’artista. Queste due teste richiamano alla memoria una leggenda, di cui però, esistono due versioni.

La prima versione riguarda l’amore di una fanciulla palermitana e di un giovane moro o Turcu, coma si usa dire in Sicilia.

 

Intorno all’anno 1000, quando ancora gli Arabi dominavano la Sicilia si racconta che alla Kalsa, un quartiere di Palermo (in arabo Al-Hàlisah) una fanciulla palermitana corrispose all’amore di un giovane Moro. Un bel giorno, anzi un cattivo giorno, la fanciulla si accorse che il suo giovane amante l’aveva ingannata, poiché era sposato con figli e la sua famiglia attendeva il suo ritorno in Turchia. Scoperto, l’inganno, durante l’ultimo incontro che li vide amanti felici, la giovane donna approfittando del sonno del giovane uomo vinto dalla fatica amorosa, la donna lo uccise per impedirgli di partire e decapitatolo, prese la testa e la depose in un vaso coprendola di terra. Mise il vaso nel balcone e vi piantò una pianta di basilico che annaffiata ogni giorno con le sue lacrime di pentimento crebbe rigogliosa. Non a caso scelse il basilico, che era considerata la pianta dell’imperatore romano d’occidente (Basileus), significando che l’amante ucciso restava il Re e l’Imperatore del suo cuore in eterno. Ella, infatti lo uccise non per vendetta, ma per il desiderio di averlo sempre con sé, anche se costretto in un vaso, che cominciò a prendere la forma di una testa d’uomo. Da questo evento, un poco amaro e che sa di tragedia, nacque la moda di esporre sui balconi due vasi gemelli, di cui uno rappresentava un uomo e l’altro una donna per eternare quell’atto d’amore in verità non tanto buono, che, trovo, però fonte di ispirazione artistica nei mastri vasai di ceramica.

 

Forse per la crudezza della tragedia in cui una donna uccide un uomo, anche se per amore, nacque un’altra versione della vicenda sempre improntata alla tragedia, ma con elementi più umani. L’immaginario popolare pensò a un amore profondo che legò una siciliana a un giovane moro, giunto dalle lontane coste del medio-oriente. I due si amavano teneramente e nulla, proprio nulla ostacolava il loro amore, tranne il colore della pelle. Lei bianca dal colore roseo, dai capelli biondi e dagli occhi azzurri dei normanni. Lui di colore scuro, i capelli ricci, la barba folta e gli occhi neri di carbone ardenti dei mori. Lei cristiana e Lui musulmano. Entrambi diversi ma uguali nell’amore e nei sentimenti, che legavano le loro anime. Fu amore a prima vista. Amore senza confini e limitazioni. Esattamente come avviene ai nostri tempi in alcuni casi per l’arrivo di emigranti africani. Ma quando fu scoperta la loro relazione, avvenne uno scandalo. La società d’allora non ammetteva quella relazione, tra l’altro fuori dal matrimonio, che nel caso in questione non era nemmeno ammesso. Furono processati e condannati entrambi a morte, che fu eseguita tramite decapitazione pubblica. Nonostante la condanna, il fatto in se suscitò molta commozione nel popolo, che ne celebrò la fama tra gli artisti indipendentemente dalla loro etnia e dalla loro religione, celebrando l’evento con la realizzazione di due vasi in terracotta simboli di quell’amore nato e finito male. È così che la produzione e la vendita di vasi artistici rappresentanti un uomo e una donna in Sicilia è divenuta virale e simbolica sotto il nome di “ le teste di moro”.

 

 

 

LA LEGGENDA DI FALARIDE AD AGRIGENTO

 

Era Falaride, ai tempi della colonizzazione dei Greci, un tiranno siciliano ed esattamente un tiranno di Akagras, la moderna Agrigento, molto ricca di miti greco-romani, come è possibile vedere dai resti dei templi, ammirati nella famosa valle. Di costui si raccontano cose efferate. Di lui parla male non solo lo storico Erodoto, ma anche il filosofo Aristotele. La leggenda che lo riguarda è quella del toro mugghiante. Si era fatto costruire un enorme toro in bronzo dove faceva rinchiudere i suoi nemici. Dopo faceva accendere un focolaio sotto la pancia del toro, la cui pelle di bronzo si riscaldava costringendo i condannati a gridare per il dolore e morire. Dalle nari dell’animale di bronzo si sentivano fuoruscire le voci dei morenti e sembrava che il toro mugghiasse. Alla fine egli venne detronizzato dagli Agrigentini che lo uccisero. Il dialetto siciliano non ha dimenticato il suo nome inventando l’aggettivo “strafallariu”, che, alla lettera significa essere stra-cattivo come Fallaride od anche “lariu” , che significa brutto.

 

 

 

LA  LEGGENDA DEL MANDORLO FIORITO

 

Ad Agrigento, in occasione del mandorlo in fiore, è possibile notare i rami quasi secchi degli alberi di mandorlo, ricoprirsi di fiori bianchi ancora prima che spuntino le foglie verdi.

A questo evento particolare della natura è stata cucita fin dall’antichità una leggenda. Ai tempi della guerra di Troia viveva ad Agrigento una fanciulla chiamata Fillide, che era fidanzata con un giovane che si chiamava Acamante. Quando i Greci decisero di andare a Troia per riprendersi la bella Elena, rapita da Paride, Quest’ultimo, che era luogotenente di Diomede, uno dei principi greci partito per Troia, fu costretto a seguirlo ed a lasciare la fidanzata che lo attese fedelmente. Dopo i lunghi dieci anni di guerra, Diomede rientrò in patria, ma non avendo Fillide scorto tra i reduci il suo Acamante, per il dolore si uccise credendolo caduto a Troia. Gli Dei mossi a pietà per la povera Fillide la trasformarono nell’albero del mandorlo. Ma Acamante era vivo e solo per un piccolo contrappunto non era rientrato insieme agli altri. Saputa la triste sorte di Fillide e della sua trasformazione in albero, andò ad abbracciare i suoi rami spogli, che al suo contatto si rivestirono di fiori bianche ancor prima che spuntasse il verde delle foglie.

 

 

 

LA LEGGENDA DI ERCOLE A SIRACUSA

 

Era Ercole, chiamato Heracles dai Greci,come vuole la tradizione, un eroe ossia il figlio venuto fuori dal matrimonio tra una divinità ed un essere umano. Costui era celeberrimo presso gli antichi per aver compiuto delle imprese mirabolanti, passati alla storia come le dieci fatiche di Ercole. Come è facile intuire Ercole era l’equivalente dei nostri attuali super eroi  quali Superman, l’uomo ragno ed altri similari. Ai tempi della mia adolescenza vi erano quelli dei fumetti: L’uomo mascherato, Gim Toro, Tom Mix, Gordon, ecc., ecc.

Si racconta che , durante una delle sue avventure, egli sia arrivato anche a Siracusa e che, appena giunto, abbia fatto un omaggio sacrificale ad Anapo e Ciane (qualcuno dice Aretusa ed Alfeo) Ricordo  gli episodi che legano queste due mitiche coppie a miti precedentemente descritti .

Egli sacrificò  alla celebre coppia mitica un toro dalle robuste corna ad arco, che adornò di fiori meravigliosi. Essendo il toro un animale che rappresentava il più delle volte Giove e, quindi, le sue corna ritenute espressione di divinità, da quel momento vennero considerate  oggetto di sacralità e simbolo di unione tra due persone che si volevano bene. Tanto più belli ed arcuati fossero le corna e tanto più adorne di fiori, tanto più intenso era considerato l’amore nella coppia. Quindi rompere quelle corna significava rompere il rapporto amoroso della coppia e fare un sacrilegio.

Da questa leggenda è venuta fuori la considerazione tutta siciliana, diventata anche italiana, che “fare le corna” al proprio partner significa staccare le due corna del toro, ossia,   rompere il  loro rapporto  di coppia.

 

 

 

LA LEGGENDA DELLA BELLA principessa “SICILIA!.

 

L’antico nome della Sicilia fu quello di Trinacria. E’ il nome che i Greci dettero alla nostra isola per la sua forma triangolare. Il nome “Scilia” è legato ad una leggenda, secondo cui, una bella principessa libica, in seguito a rocambolesche vicende approdò nella nostra isola. Ella si chiamava Sicilia e poiché fu costretta a vivervi, la Trinacria, da lei, prese il nome di “Sicilia”. Questa leggenda data la sua origine dal momento che l’isola venne occupata dagli Arabi. Chiaramente costituisce il tentativo degli invasori di dare un’origine confacente con l’interesse politico delle orde arabe occupanti. Infatti gli arabi occuparono in modo stabile tutta l’isola, ritenendola non una loro colonia, ma una loro nuova patria.

Tuttavia, questa leggenda ha un fondo di verità, poiché recenti studi hanno accertato che fin dai tempi più antichi, i primi popoli ad aver colonizzato la Sicilia sono stati i Sicani ed i Siculi. Secondo da quanto si evince dai primi scrittori di storia antica ed anche da reperti archeologici, i Sikelos era un popolo che partendo dal medio oriente, come del resto gli Arabi, per via terrestre, si spinsero verso occidente. Di essi un gruppo proseguì fino a raggiungere le rive del fiume Sica in  Spagna e di là approdare via mare in Sicilia . Essi erano i Sicani. Un altro gruppo, invece deviò verso la penisola balcanica e di là attraversando il mar Adriatico raggiunse la parte meridionale della Italia, ossia la Calabria, per spingersi, via mare fino alla nostra isola. Erano i Siculi. Sicani e Siculi, nell’ isola finirono per dar luogo ad un popolo di comune nazione, dando anche il nome “Sicilia” a tutta l’isola. Questo dicono gli antichi scrittori greci e romani.

Per quanto sopra detto, essendo provenienti dal medio oriente i Siculi ed essendo anche i libici provenienti dal mondo arabo d’origine medio-orientale, la leggenda della giovane principessa Sicilia, trova la sua allocazione politica di allora.

 

 

 

CONCLUSIONE

 

 

Il tema dei miti e delle leggende di Sicilia è molto più ampio di quello che ho descritto in questo volume, poiché la Sicilia è stata dominata lungo il corso dei secoli da diverse etnie ed ognuna di esse ha aggiunto le proprie tradizioni che si sono fuse con quelle già esistenti.

Pertanto è abbastanza chiaro di non aver descritto tutti i miti e le leggende di questa nostra meravigliosa isola, dove ogni sasso, ogni albero, ogni casa, ogni strada o sentiero sono legati a tradizioni variamente ricordate ed interpretate.

Tuttavia, ritengo di essere riuscito a dare un ampio spettro del variegato e fantastico  mondo   della Sicilia, dalle origini a quasi i nostri tempi. Se qualcosa ho dimenticato e non annotato, ne chiedo venia.