Pippo Nasca
MANUELA FILIBERTA DI SAVOIANO
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A CAMPAGNA D'ETIOPIA
Introduzione
Prima che inizio a parlare di questa storia è
necessario
che spiego la situazione politica di quand'è iniziata,
partendo dai fatti antecedenti alla campagna d’Etiopia, che
ebbe per scopo la
sua colonizzazione da parte del regime
fascista. Ciò per avere un quadro chiaro degli eventi che si
succedono nel
racconto, dove i personaggi si muovono,
mescolandosi a quelli storici, in un groviglio di vicende
che
consentono al lettore di conoscere e valutare gli acca-
dimenti, le cui conseguenze, per certi versi, continuano a
persistere.
Tra il 3 ottobre del
1935 e il 5 maggio del 1936 si
svolse la guerra d'Etiopia, che vide contrapposti il Regno
d'Italia e l'Impero d'Etiopia. Fu la campagna coloniale più
grande della storia italiana e fu
anche un conflitto
altamente simbolico, dove il regime fascista impiegò una
grande
quantità di mezzi propagandistici con lo scopo di
impostare e condurre una guerra in linea con le esigenze di
prestigio
internazionale e di rinsaldamento interno del
regime stesso, volute da Benito Mussolini, con l'obiettivo
a lungo
termine di orientare l'emigrazione italiana verso
una nuova colonia popolata da italiani e amministrata in
regime di
apartheid sulla base di una rigorosa separazione
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razziale.
Nonostante una dura resistenza, le forze etiopiche
furo-
no
soverchiate dalla superiorità numerica e tecnologica degli italiani e il conflitto si concluse con l'ingresso delle
forze di Badoglio nella capitale Addis Abeba.
Una delle conseguenze cui venivano sottoposti i soldati Italiani, che per malaugurata sorte cadevano nelle mani degli abissini, vivi o morti, feriti o no, era quella di essere sottoposti alla immediata castrazione.
Non appena catturati, li legavano come tanti salami
e,
strappati i calzoni, con un colpo secco tagliavano loro i
testicoli, lasciandoli dissanguare. Nel caso che restavano
vivi, li sgozzavano con un colpo di
pugnale alla gola.
Quest’usanza era invalsa come ritorsione allo
scorretto comportamento dei
soldati, proiettati alla conquista del-
l’impero, voluto dal Benito nazionale.
Mi spiace ammetterlo, ma i nostri soldati, tutte le
volte
che conquistavano un villaggio, prima di darlo alle
fiamme, non tralasciavano di stuprare le donne, qualunque
fosse la loro età. In questo
erano simili a bestie assatanate
che sfogavano i loro istinti sessuali senza ritegno e senza
rispetto.
Per inquadrare bene nel tempo questo racconto,
credo sia necessario spendere qualche rigo di chiarimento.
Per intenderci l’episodio della partenza del primo contingente per la guerra di Etiopia, avvenne alla fine del
1935 o forse all’inizio del 1936, quando mio padre ancora celibe e proprio a causa della mancata
partenza per l’Etiopia, decise di sposarsi. Era già fidanzato con mia madre e fu così che io nacqui
nel 1937.
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Mi preme evidenziare il clima politico di quei giorni.
Il Duce era già in sella al governo da quasi un decennio
e
armeggiando con i suoi metodi, improntati al chiaro-
oscuro politico internazionale, si barcamenava in materia
di
politica estera, seguendo le vicissitudini tedesche e
inglesi. Egli vedeva la politica estera in funzione del suo
rafforzamento in seno all’Italia e allo stesso fascismo.
All’inizio non lasciava capire una tendenza del suo futuro
appoggio alla
politica aggressiva tedesca. Anzi nel 1930
aveva condiviso con l’Inghilterra i Patti di
Stresa, che
volevano porre un argine alle aspirazioni di
Hitler.
A Mussolini non era piaciuta tanto l’annessione
del-
l’Austria alla Germania, che rendeva meno sicuri i confini con quest’ultima in fase espansionistica.
Al tempo si temeva che a Hitler sarebbe potuto
venire
il ghiribizzo di riprendersi il Trentino e il Sud-Tirolo. Per
di più l’adesione a quei Patti
gli consentiva di acquisire
meriti di
paciere e prestigio in seno alle Nazioni Unite, da
sbandierare in Italia per far crescere il suo consenso
inter-
no e imporre con maggiore incidenza il suo dispotismo
politico.
Fu in questo periodo che varò la nuova legge elettorale,
che sanciva la lista unica dei candidati da lui stabiliti con
l’abolizione di altre liste e dei partiti, tranne il Fascismo.
Per quanto il Duce sembrasse di voler costruire un argine contro le mire germaniche, al contempo friggeva dal desiderio di imitarle per dare corpo alla sua idea di rifondare l’impero romano dei secoli scorsi.
Purtroppo le condizioni economiche delle casse italiane
non gli consentivano di fare la
stessa politica spavalda e
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aggressiva di Hitler, ma
pur di realizzare il suo sogno,
cercò di ottenere il massimo con il minimo sforzo, cercan-
do di individuare le nazioni più
deboli da conquistare. Una
di questa fu l’Albania, che capitolò senza colpo ferire; la
sua conquista si rivelò una passeggiata per il nostro
esercito e, deposto l’inetto Re Zog, Vittorio Emanuele III
diventò Re d’Italia e
d’Albania.
La seconda nazione individuata fu l’Etiopia, un
paese
povero e senza risorse quanto l’Albania, confinante con la
Somalia, già colonia italiana, decantato dalla propaganda
come un
paese ricco di tesori e di metalli utili all’industria
italiana. Fu proprio intorno agli anni
trenta che il Duce
cominciò a ideare una guerra nei confronti di quest’ultima
nazione, preparandone i presupposti in maniera subdola
con le famose leggi autarchiche che
imponevano agli
italiani di risparmiare sulle spese interne per dirottare le
risorse economiche alle esigenze militari, preminenti per
gli interessi dello Stato.
Dopo un’accurata preparazione
e una superficiale
valutazione della situazione, finalmente, nonostante la sua
posizione in seno alle Nazioni Unite, dopo aver creato
degli strumentali incidenti di frontiera, il 2 ottobre 1935,
dal balcone di Palazzo
Venezia annunciò che la guerra con
l’Etiopia era iniziata.
«Abbiamo pazientato quarant'anni. Ora Basta!» disse con voce ferma e convincente. La reazione delle Nazioni Unite furono le sanzioni economiche contro l’Italia, che non colpirono i prodotti petroliferi, utili per condurre la guerra, anzi favorirono il traghettamento della politica estera italiana verso quella tedesca.
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Queste sanzioni nelle mani del Duce si
trasformarono
in leve da usare per stimolare l’odio nei confronti della
perfida Albione (l’Inghilterra), che voleva impedire
al-
l’Italia di mettere le mani sulle tante decantate ricchezze
dell’Etiopia, facendogli farneticare future aggressioni al
Canale di Suez, a Malta e allo Stretto di Gibilterra, per
distruggere il suo mondo coloniale, e non solo questo.
Tali sanzioni gli consentirono di spremere meglio gli Italiani e di alleggerire le loro tasche, con la decurtazione del 12% degli stipendi statali e con la famosa operazione della donazione dell’oro alla Patria.
Dagli anulari della mano sinistra di tutte le coppie di sposi scomparvero le fedi auree, per dar luogo a quelle di alluminio, fornite dallo Stato in sostituzione di quelle spontaneamente donate.
Si insinuò in seguito
che non tutto l'oro prese la via
dell’erario dello Stato, ma che furono dirottate nelle tasche
di qualche gerarca; lo
scandalo fu messo a tacere e fu solo
glorificata la dedizione e l’amor di Patria degli Italiani.
La guerra contro l’Etiopia
non fu un'operazione
semplice così com'era stata prospettata, poiché il Negus
ricevette gli aiuti militari dalle Nazioni Unite, diventate
ostili all’Italia, e il Duce fu
costretto a inviare altri
contingenti militari, provvedendo anche alla
rimozione
dell’inetto comandante generale De Bono, in compenso
promosso Maresciallo d’Italia e sostituito dal più energico
e incisivo generale
Badoglio.
Fu necessario impiegare anche l’aviazione,
all’inizio
non prevista, per bombardare le postazioni militari. Tale
impiego, in verità fece arricciare il naso al Duce, poiché
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determinò un rafforzamento non
gradito della posizione politica di
Italo Balbo e aizzò maggiormente la propagan-
da delle Nazioni Unite contro l’Italia per l’eccidio della cittadinanza civile coinvolta.
Sì, Italo Balbo! Anche costui era un problema per il Duce. Per lui rappresentava un pericolo costante, emergente dalla situazione interna. Ne temeva la crescente fama, temendo che potesse scalzarlo dal posto di capo del Fascismo e del governo.
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LA RACCOMANDAZIONE FATALE
La malaugurata sorte di cadere vivo tra le mani degli abissini era capitata al camicia nera, Paolo Nascara, volontario, che per fortuna era riuscito a riportare a casa, se non le palle, almeno la vita.
Durante un combattimento, una decina di camerati, tra i quali c’era anche lui, erano stati soverchiati da un’orda di abissini, e nonostante la strenua difesa, finite le munizioni, furono tutti catturati, svestiti, e castrati. In seguito, alcuni degli uomini armati da coltelli affilati, avevano sgozzato quelli che trovati ancora vivi.
Il povero Paolo, avendo capito la situazione, nonostante l'atroce dolore, quando giunse il suo turno, si guardò bene dal lamentarsi e si finse morto.
Fu così che rimase vivo e dolorante.
Subito dopo, per fortuna, avvenne un rovesciamento di fronte, e quando le truppe italiane avanzarono, proiettate alla conquista di Addis Abeba, Paolo fu raccolto dalla Croce Rossa Italiana e portato in un ospedale da campo dove fu curato, e dopo rimpatriato in Italia.
Paolo Nascara, per andare a combattere in Etiopia,
si
era fatto raccomandare e grazie ad influenti amicizie, era
riuscito a scalzare un certo Paolo
Nasca, arruolato in
precedenza.
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Il Nascara non era un Camicia
Nera qualunque.
Invo-
gliato dalla
propaganda e coinvolto dalla sete di grandezza
dell’Italia, aveva contribuito, e non
poco, alla conquista
del potere fascista, punendo i sovversivi con il manganello
e costringendoli talvolta alla purga con l’olio di ricino.
Insomma, avendo partecipato alla marcia su Roma,
era
un milite fortemente motivato e aspirava a coprirsi di
eroismo e di gloria, in occasione della conquista
dell’ago-
gnato posto al
sole e quando si presentò come
volontario
per
combattere in Etiopia, rimase male nel sentirsi dire che
ormai i posti erano stati tutti
coperti e che occorreva
attendere una successiva chiamata, nel caso vi fosse stato
bisogno.
Era opinione comune che quel contingente sarebbe bastato a conquistare l’Etiopia; quindi, chi non partiva era escluso dalla gloria della sicura conquista.
La propaganda aveva ottenuto il suo effetto.
Quanti partivano volontari, erano pienamente convinti che la guerra in Africa fosse poco più che una passeggiata. In fondo si trattava di combattere contro uomini neri di razza inferiore, armati malamente di lance e coltelli, tra l’altro felici di essere conquistati da quel popolo grande e civile, che era quello italiano.
“Faccetta nera, bell'abissina
Aspetta e spera che già l'ora si avvicina! quando saremo insieme a te,
noi ti daremo un'altra legge e un altro Re”.
Questo ritornello, alternato all’inno di Mameli,
veniva
strombazzato dalla Radio, assieme ai bollettini dei prepa-
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rativi militari, e ai roboanti discorsi del Duce, trasmessi direttamente da Palazzo Venezia a Roma.
Il Camicia
Nera Paolo Nascara non poteva
arrendersi
dopo essere stato imbottito dalla propaganda convincente
e lusinghiera. Non poteva! Lui, con tanto di fez in testa e
quella camicia nera che indossava con religioso orgoglio
anche quando andava a dormire, non poteva essere escluso
da quella sicura e storica
gloria annunciata, dopo tutto ciò
che aveva fatto per la causa.
Nel suo paese d’origine,
Gravina di Catania, aveva
indossato fin da subito la camicia nera, aveva fatto buon
uso del
manganello sul groppone di viddani
ribelli, aveva
fatto ingoiare il salutare olio di ricino a qualche
facinoroso
sindacalista e addirittura aveva schiaffeggiato in pubblico
il maresciallo dei carabinieri. Certo quella volta fu dura e
dovette
ringraziare i camerati per averlo fatto sfuggire
dalle grinfie degli sbirri e non finire in gattabuia.
Per queste ragioni si presentò al gerarca capo-manipolo
e dopo aver
romanamente salutato chiese di voler essere
aiutato a esternare il suo furore patriottico. Di sicuro gli
faceva gola la lauta paga prevista per quell’impresa, ma
Paolo ribadiva che non era questo
il motivo del suo
disappunto. Voleva raggiungere l’apoteosi e
la giusta
ricompensa del suo fremente amor di patria per L’Italia, il
Re e il Duce.
Tanto girò per le sedi del Fascio di Catania e tanto
si
dette da fare che infine riuscì a salire sul piroscafo per
l’Abissinia, con sulle spalle lo zaino, il
fucile e l’elmetto,
lasciando a casa la giovane moglie
e anche una figlia,
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ancora neonata.
Il bacio, l’abbraccio e le lacrime di pianto della
moglie
e di gioia sue, nonché la foto con la bandiera tricolore ac-
canto, l’inno nazionale che si accompagnava alle ovazioni
nei confronti
del Duce, fecero parte della partenza degli
eroi, conquistatori di un nuovo corso ancora più nuovo e
glorioso.
Da quella partenza aveva inizio lo storico evento della rifondazione dell’impero romano e lui, col suo moschetto e con il suo bagaglio di grandi aspirazioni patriottiche, era tronfio e felice di essere tra i futuri eroi.
Anche lo sbarco, avvenuto in suolo già conquistato dall’Italia in Somalia, colonia italiana in precedenza acquisita, non dette fastidio.
Fu soltanto dopo che la conquista dell’Etiopia si
rivelò
abbastanza dura per la resistenza opposta dagli indigeni,
trovati laceri e scalzi, ma in possesso di armi abbastanza
efficienti,
fornite da altre nazioni opposte all’Italia e alla
Germania. Difatti, la perfida Albione, come l’Inghilterra
era
indicata dalla propaganda, era intervenuta a difesa
dell’Etiopia fornendo armi modernissime e con le sanzioni
contro l’Italia.
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LO SCAMBIO DI PERSONA
L’opportunità dell’arruolamento era abbastanza ghiotta per il suo avvenire. Lui non voleva fare la fine del fratello Ciccio, che per la sua avversione al fascismo era rimasto inchiodato in paese senza arte né parte.
Anch'egli coinvolto dalla propaganda fascista, credeva a tutto ciò che Mussolini predicava, peraltro senza il fanatismo eccessivo del momento. Polo Nasca credeva di poter ritornare dall’Etiopia con un gruzzoletto, raccolto con il premio del suo volontariato, e acquisire nello stesso tempo dei meriti in seno alla società.
D’altronde non vi era altra prospettiva nel suo paese, se non quella del lavoro nei campi, pur avendo già appreso il mestiere di falegname ebanista, di sicuro sviluppo, ma al momento non tanto richiesto.
Non pensava che in quell’impresa militare avrebbe potuto lasciarci la pelle. Credeva fermamente a quanto veniva predicato dalla propaganda.
Qualche giorno dopo dall’avvenuta partenza del
piro-
scafo per l’Abissinia, il giovane Paolo Nasca nativo di
Grammichele, si presentò alla casa del Fascio di Catania
per conoscere la motivazione del suo mancato precetto,
nonostante la conferma dell'arruolamento volontario, a suo
tempo notificata.
Nessuna comunicazione era arrivata a casa del
giovane
aspirante volontario, regolarmente arruolato. Si trattava di
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mio padre, allora giovanissimo, e anche lui alla
ricerca di
una fetta di gloria e del pezzo di pane giornaliero da
guadagnarsi.
«Non può essere camerata» gli fu semplicemente
detto.
«Dai
nostri documenti risulta che tu sei partito. Come fai a
essere ancora qui? Mica hai disertato fuggendo a nuoto?»
«Chi, io? Ma se non stavo aspettando altro di
partire.
Com’è scritto qui, su questo foglio, firmato dal Podestà.
Dovevo attendere soltanto di essere
avvisato del giorno
della partenza. Non mi è arrivata nessuna comunicazione e
solo ieri ho appreso dalla Radio che la nave dei volontari è
già partita ed è per questo che sono venuto a
informarmi.»
«Impossibile» fu la risposta. «Risulta che sei imbarcato e avendo dato conferma del ricevimento del precetto, sei stato anche avvisato in tempo utile.»
«Non ho ricevuto nulla né firmato nessuna conferma di ricevimento» fu la sua risposta.
«Bella questa...» affermò il
gerarca, grattandosi
dubbioso il mento. «Vediamo che cosa ci sta sotto a questo
imbroglio».
Prese un altro registro, quello con i verbali
d’imbarco e
scorse le righe velocemente con il dito. Al numero
corrispondente al nome di Nasca Paolo di Gr di CT, vi era
un altro nome del tutto
simile: Nascara Paolo di Gr di CT.
«Che significa quel Gr? Tu sei di Gravina di Catania? Ma ti chiami Nasca o Nascara?»
«No, sono di Grammichele in provincia di Catania e mi chiamo Nasca e non Nascara» fu la risposta secca.
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«Ho capito tutto, camerata!»
rispose il gerarca, dopo
aver verificato la tessera d’iscrizione al fascio. «Ti hanno
fatto le scarpe! Al posto tuo è partito un certo Nascara
Paolo di Gravina di Catania» disse grattandosi ancora il
mento. «È stato
facile modificare il cognome. N-corpu di
pinna o cuntrariu.»
«Allora?» domandò il mancato volontario.
«Allura,
nenti! Che cosa vuoi fare? Si vede che
costui
era cchiù ammanigghiatu
di tia. È così la vita...
Chi ci voi
fari?».
«Che significa accussì è la
vita? Voglio fare ricorso al
Duce. Dovevo essere io a partire. Voglio sapere chi mi ha
imbrogliato».
«Non concluderesti nulla. Figurati se il Duce, con
tutto
il da fare che ha, possa occuparsi di una tale sciocchezza.
La pratica sarebbe affidata a qualcuno, che direbbe esserci
stato un banale errore. E poi per la Patria o lui o tu non ha
importanza. Ciò che conta è che il posto sia stato coperto.
Se
si fosse trattato di diserzione, sarebbe stato diverso. Il
caso si sarebbe finito davanti al plotone d’esecuzione! Sei
stato fortunato. Qui il caso è opposto. Capisci, camerata?
Bonu facisti a
veniri. Così si è chiarito tutto.
Avresti potu-
to passare i guai, mittennu ca
t’attruvava ccà, mentri ave-
vi a essiri ddà.
«Sì, ma io sono stato defraudato di un diritto, che mi toccava. Dovevo essere io a partire».
«Eh, tu non sai. Con la giustizia militare non si va tanto
per il
sottile. Vai a farlo capire ai giudici della Corte
Marziale che sei stato raggirato. Quelli avrebbero pensato
che ti eri
pentito di partire. Certo, hai ragione a sentirti
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danneggiato per non poter
partecipare a questa gloriosa
impresa, ma un tuo ricorso non
approderebbe a nulla,
poiché è meglio ignorare gli imbrogli che sono fatti sotto
banco. La scoperta dell’inganno darebbe solo fastidio e
imbarazzo, perché la cosa più importante per il regime è
che tutto
sembri giusto, bello, leale e senza macchia. Se
poi c’è qualche sbavatura, cosa vuoi che conta? Meglio
ignorarla.
Dopo tutto, tu o un altro, cosa vuoi che sia
rilevante ai fini del risultato finale
della conquista
dell’Etiopia?! Ascuta a mia, è
megghiu starisi mutu e fari
finta di nenti. Ci fai cchiù
figura.»
A Paolo Nasca non restò che salutare, romanamente piccato, girare i tacchi e andarsene.
Da quel giorno mise da parte la camicia nera e fu anche
tentato
di strappare la tessera del Partito in faccia al
Podestà, ma non lo fece perché questo avrebbe significato
la sua morte
civile e la certezza di non poter trovare alcun
tipo di lavoro in Italia, guadagnandosi solo la nomea di
sovversivo,
così com’era accaduto al fratello Ciccio, che
mai si era voluto iscrivere al Partito ed era
rimasto a
vivacchiare a Grammichele.
Non partecipò più alle alle adunate, alle
manifestazioni
patriottiche, parate militari e quant’altro
aveva praticato
nell’ultimo periodo e, ricordandosi di
avere un mestiere
che avrebbe potuto rendere bene,
cominciò intanto ad
accettare quel lavoro di segantino che
gli si offriva a
Caltagirone, nel bosco di Santo Pietro, e a dedicarsi al
lavoro
saltuario di ebanisteria, finché non fu richiamato,
essendovi in aria odore di guerra imminente.
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Che fare? Non poteva non rifiutarsi. Fu tentato di
farlo,
per protesta al torto subìto, ma capì che quest’ultima gli
sarebbe costata cara. Tuttavia si presentò e fu assunto
come operaio
militarizzato col grado di sergente maggiore
dell’aviazione, dove gli fu assegnato il compito di riparare
gli aerei
che ritornavano a Catania sforacchiati dalle
mitragliatrici nemiche.
Vi chiederete cosa c’entrasse il mestiere di falegname con gli aerei militari. Vi dirò che era pertinente perché i nostri aerei, allora, erano rivestiti non da lamiere, ma da compensato verniciato e i buchi provocati dalle pallottole venivano riparati con una tecnica particolare.
Sì, i nostri aerei, i
famosi caccia che andavano a
bombardare Malta erano di compensato verniciato!
Fu così che Paolo Nasca, mio padre,
durante la seconda guerra mondiale, trascorse la vita militare a peregrinare per gli aeroporti di fortuna della Sicilia, tappando i buchi da mitraglia ai nostri aerei,
riuscendo a conservare la propria pelle e anche i suoi attributi maschili, che invece furono lasciati in Etiopia da quel povero Paolo Nascara, suo sostituto volontario alla conquista del fantomatico impero romano.
Non tutti i mali vengono per nuocere ed io forse
non
sarei qui a scrivere e raccontare questa vicenda! Infatti,
mio padre, fallito il suo tentativo di partire per l’Etiopia,
nel 1936 pensò solo a sposarsi e l’anno successivo nacqui
io.
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3
L’INSODDISFACENTE CARRIERA
Paolo Nascara, quando rientrò in
Italia, fu insignito
della Croce di Guerra, della Medaglia
d’argento e di
diritto fu inserito tra gli eroi del Fascio, con la promessa di
ricevere in futuro importanti incarichi
di responsabilità.
Intanto, trasferito a Roma, fu intruppato nella Milizia che
sostituiva le Regie
Guardie del passato Governo.
La sua menomazione fisica passò sotto silenzio.
Tanto
non si vedeva. Si sapeva che fosse stato ferito in Etiopia,
ma nessuno conosceva in quale parte. Anzi non si sentì più
parlare della
sua perdita di efficienza sessuale. Sarebbe
stato disdicevole e disonorevole per il regime il fatto che
un
eroico gerarca di grande spessore e utilità per lo Stato,
fosse stato evirato da quattro negracci selvaggi. Del resto
l’efficienza che mostrava con fierezza era in grado di
occultare quel neo. L’eroismo talvolta fortifica e rende per
di più
gli uomini più sodi e corpulenti e lui lo era. In
sostanza il suo aspetto era diventato più
prestante e più
imponente, così come avviene ai capponi del pollaio che,
esonerati da
certe incombenze, finiscono per ingrassare e
diventare sempre più maestosi.
Intanto era diventato uno dei
personaggi chiave del
partito, acquisendo i meriti per una folgorante carriera.
La moglie, grazie
alle sua conoscenza della lingua francese e del tedesco, era riuscita a inserirsi nel tessuto del partito, sfruttando il suo
notevole aspetto e la sua formazione. Nonostante il suo impegno politico, dopo il
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rientro del marito dall’Etiopia, oltre alla prima
figlia, ne
mise
al mondo un’altra e in seguito anche un figlio.
Ufficialmente il
padre di questi altri due figli era il marito, con il quale conviveva e molte volte compariva
nelle serate di gala. In effetti non lo era, poiché in Etiopia aveva lasciato i suoi
testicoli e con essi la facoltà di generare.
Si vociferava che il padre naturale di questi due
ultimi
era il Podestà in persona, con il beneplacito dell’eroico
marito. D’altronde il Nascara, pur di non far trapelare
la
sua menomazione, aveva accettato che sua moglie
frequentasse un sostituto, purché nulla si sapesse e fosse
salvo il
loro onore, che coincideva con quello della Patria,
del Partito e della Famiglia.
Nonostante l'apparente riservatezza della famiglia, di tanto in tanto qualche pettegolezzo affiorava.
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4
ITALO BALBO E TULLIO PETRONELLI
Il Podestà, oltre a
essere un bell’uomo, era pure un
illustre personaggio del mondo fascista. Per altri meriti era
riuscito a imporsi nel mondo politico. Era un altro
eroe del
partito, una persona che sapeva imporre con eleganza la
sua personalità. Si trattava dell’ex maggiore pilota Tullio
Petronelli, luogotenente del famoso Italo Balbo, che si era
permesso il lusso di dare del tu al Duce, di trattarlo con
molta e
forse eccessiva ironia, lasciandoci pure le penne,
ovvero le ali del suo aereo.
Il Duce, più che essere gratificato del
comportamento
di Italo Balbo, ne era sinceramente
frastornato e faceva
buon viso a cattivo gioco. Diciamo che si faceva piuttosto
scuro in viso tutte le volte che se lo trovava attorno,
amichevolmente sfottente e gioviale, pronto
a sfornargli
qualche battuta piccante e per niente gradita. Questo suo
fedele, ma
sopportato camerata, aveva raggiunto una certa
notorietà, per il comportamento da guascone molto gradito
dal popolo.
La sua popolarità era accresciuta dopo aver
trasvolato
l’Atlantico con il suo aereo, dall’Italia all’America, dove
era stato accolto con tutti gli
onori, assieme all'amico
luogotenente Tullio Petronelli e tutto il Gruppo di volo.
Un personaggio fondamentale per il PNF, capace di attirare intorno a sé le simpatie del popolo e di sicura fedeltà al Fascismo e al suo Capo riconosciuto.
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Per motivi di convenienza, non poteva essere ignorato dal regime né tanto meno dal Duce, poiché portava molta acqua al mulino, anche se nei suoi riguardi il sospettoso Mussolini diventava sempre più guardingo.
Non gli piaceva proprio la sua fama: avrebbe potuto oscurare lo splendore della sua figura, né tanto meno le sue guasconate che mostrava con sfrontatezza.
Non gradiva che lo si additasse come un suo successore alla guida dell’Italia e del PNF, anzi questa diceria non gli faceva dormire sonni tranquilli la notte.
Purtroppo Mussolini, come tutti i dittatori, non era
una
persona che amava circondarsi di persone di un certo
spessore e di una certa eminenza di
pregi. Più che la
gelosia era la paura che qualcuno
potesse detronizzarlo
dalla sua posizione di preminenza. Per questa ragione tutti
i
suoi collaboratori erano delle mezze cartucce, gente che
brillavano sì di luce propria, ma giusto quel tanto da non
intaccare il
suo splendore. Preferiva avere dei manichini,
degli obbedienti
ossequiosi e persone di una
intelligenza
limitata, che al momento opportuno li sostituiva per paura
che crescessero troppo e
lo mettessero all’angolo.
Da questo punto di vista non risparmiò nessuno
dalla
sua fisima. Nemmeno quel Galeazzo Ciano, che sposò sua
figlia, e che alla fine non esitò a farlo fucilare insieme a
Grandi, De Bono e altri che ebbero l’ardire di metterlo in
minoranza. Mussolini trovava sempre il modo per elimi-
nare diplomaticamente i possibili
camerati emergenti e tali
d'ambire alla sua carica di capo indiscusso di tutto.
Nei confronti di Italo Balbo, in verità si sentì spiazzato.
Il pensiero che lui
fosse indicato come il numero due del
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regime, quindi il suo successore, lo disturbava parecchio e non sapeva proprio come levarselo di torno. La sua defenestrazione non sarebbe stata accettata dal popolo fascista e questo era un grande pericolo.
Anche se Italo Balbo dimostrava di essergli fedele, quei
suoi atteggiamenti di
cameratismo estrinseco e largamente
manifestato, lo colpivano nel vivo. Per di più la sua fama
di valente pilota, di aver organizzato l’aviazione italiana,
di aver attraversato l’oceano atlantico con un primato da
numero uno,
lo sconvolgevano, ma rendevano sempre più
insolubile il suo problema.
Un metodo precedentemente applicato con successo
a
un altro
personaggio altrettanto scomodo, con il Balbo non
attecchiva, non era valido. Lui era troppo perfetto, troppo
fascistamente completo. Era troppo fedele questo
probabile aspirante alla sua leader-ship e che aveva
anche
il difetto
di possedere dei meriti che lui riconosceva di non
avere.
Mi riferisco a Gabriele D’Annunzio, il poeta
soldato,
che tanti problemi gli creò con quelle sue guasconate e
fughe in avanti senza il suo consenso in Dalmazia, e con
quella sua
teoria di alternativa al fascismo. Gli fu allora
facile studiare la sua personalità e
individuare il suo
tallone d’Achille, consistente nello scarso acume politico e
nell'immensa fame di denaro che lo assillava per realizzare
le sue
megalomani e faraoniche idee, tanto da renderlo
vulnerabile e addomesticabile oltre ogni limite.
Gli fu altrettanto facile relegarlo in quella sua fantastica
villa del Vittoriale, inondandolo di denaro a profusione,
che lo stimolava sempre più a insistere nella raccolta di
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cimeli, opere d’arte e quant’altro idoneo a stupire i posteri.
Tanto a lui bastava e tanto gli dava per renderlo docile e sottomesso.
Il D’Annunzio rinunziò spontaneamente alle sue vedute politiche, che poi non erano per niente incisive, dimenticò lui in prima persona e anche il popolo le sue eroiche gesta per dedicarsi al suo sogno di artista.
In questa posizione di beato isolamento il grande poeta soldato non solo non gli dette più fastidio, ma fu utile alla sua opera di progressione al potere, additandolo come esempio e sacra icona del fascismo.
Il maggiore Tullio Petronelli, amico di Italo Balbo
e al
pari di lui, gioviale e altamente invadente, era intimo
amico dei coniugi Nascara e
non si faceva scrupolo di
baciare e abbracciare la moglie di Paolo con troppa enfasi,
lasciando spazio alle illazioni, che in verità erano
certezze.
Né la signora sembrava restia ad accogliere le sue
effusioni di amicizia, che alimentavano
non poco i
pettegolezzi del regime, tutto basato sull’efficienza della
figura maschile. Tuttavia, il Petronelli non turbava la
psiche di Mussolini, che lo considerava di poco conto e di
poca aspirazione al potere, dal momento che si
accontentava di scopare la moglie di
quello stupido e
infingardo milite che si era lasciato tagliare i coglioni in
Etiopia.
No, proprio no, il Petronelli non era da temere. Era una persona controllabile e di secondaria importanza. Il suo diretto capo sì, quello era da eliminare. Ma come?
23
5
MANUELA FILIBERTA DI SAVOIANO
Chi era la moglie di Paolo Nascara, eroe
d’Etiopia e
gerarca di mezza tacca, assurto agli
onori del partito,
avendo perso le palle durante una
disgraziata azione di
guerra?
Indubbiamente una donna di una certa rilevanza, che
la
sapeva lunga in materia di uomini e di potere, che
senz'altro non mirava ad alte cariche nel partito, tra l’altro
al
tempo non previste. Tuttavia era una persona quadrata,
che sapeva sfruttare le situazioni a suo vantaggio.
Manuela Filiberta di Savoiano, detta Berta, presunta nobildonna, di non certa aristocratica schiatta, oralmente tramandata in seno alla famiglia.
Ma chi era costei?
Com’era diventata la moglie del Nascara? Da dove veniva?
Di chi era figlia?
Quali erano le sue aspirazioni e i suoi desideri?
La fama, sempre più
avvalorata da recenti ricerche
storiche, vuole che il primo Re d’Italia, al secolo Vittorio
Emanuele II di Savoia, nonostante il suo cruccio relativo
all’unità d’Italia e di non
essere insensibile al grido di
dolore
degli italiani, avesse una
particolare inclinazione a
incrementare il numero dei suoi sudditi, prestando la sua
opera
generante in maniera del tutto continua, costante e
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sagace nel suo piccolo stato originario, a ridosso della Francia, il Regno di Piemonte.
Al suo lontano avo e capostipite della famiglia, Bianca-
mano di
Savoia, e ai suoi discendenti, era andata molto
bene essendo riusciti ad allargare i confini del
piccolo
principato della Savoia. A lui andò ancora meglio, essendo
diventato Re d’Italia, anche se gli costò la cessione della
Savoia alla Francia, in cambio del Lombardo-Veneto.
Comunque siano andate le
cose (che il fido Camillo
Benso Conte di Cavour del resto dimostrava di saper
giostrare
egregiamente) nel suo piccolo Piemonte Vittorio
Emanuele II amava andare a caccia non solo di
selvag-
gina, ma
anche di fanciulle. In particolare ve n'era una che
frequentava spesso e con molta passione.
Era la bella
Rosina, di cui tutti parlavano e
tacevano. Anzi ne
parlavano ma con parecchio tatto e circospezione. Tant’è
che molti
contadini si rivolgevano a Lei per avere dei
favori da parte del Re.
A quei tempi non era uno scandalo essere l’amante
di
un Re, anzi era considerato un onore. Un vecchio prover-
bio siciliano diceva che i corna di Re, nun
sunu corna, per
significare
che era nella facoltà del Re andare con una sua
suddita, senza che il marito si ritenesse curnutu.
Si racconta che prima di uscire a cavallo per andare
a
trovare
la bella Rosina, il Re le facesse pervenire una
missiva, raccomandandole di non lavarsi, poiché l’odore
del
suo corpo al naturale lo inebriava e lo rendeva più
sensibile e focoso. A quanto pare gli faceva accrescere
l’impulso dello stallone. Non so fino a che punto le
preventive mancate abluzioni igieniche fossero vere, ma
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cosa certa è che Vittorio Emanuele II non disdegnasse di portarsi a letto le suddite che gli piacessero, senza curarsi di lasciarle incinte e se fossero pulite o meno. Ma pare che non disdegnasse nemmeno le nobildonne.
Si dice anche che avesse dato qualche ripassatina
alla
cugina
di Cavour, la Contessa di Castiglione, prima di
cederla a Napoleone III, in veste di ambasciatrice del
Piemonte in Francia e spia-ruffiana
scelta del nuovo regno
sabaudo.
Salvo che non si trattasse di una vanteria della famosa Contessa, la notizia dovrebbe essere vera, essendo stata testualmente raccontata tra le note autobiografiche della donna fatale, che tra l’altro si vantava di essere stata imperatrice di Francia, per più di una notte nella sua vita, e in precedenza anche regina d’Italia.
Com’è possibile constatare a un certo livello politico i nostri capi di governo, regnanti e simili personaggi, anche in passato, come ai nostri giorni, non hanno mai cessato di approfondire certi argomenti di natura amatoria.
Cambiano i personaggi, le
donne, i luoghi, ma la
sostanza è sempre quella. Una volta queste donne erano
chiamate amanti se non putte e
adesso invece escort.
Una volta andavano bene le stalle olezzanti di
letame o
la campurella
alla clorofilla, adesso sono di moda le ville
verdeggianti e i castelli antichi e non ci si scandalizzava
per certe cose che avvenivano e avvengono a tutti i livelli.
Sorvolando sulle altre relazioni del focoso Re
Vittorio,
sembra che i rapporti con la bella Rosina, oltre ad aver
reso quest’ultima ricca e in possesso di un certo potere,
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l’abbiano fatta divenire madre di reali rampolli, i
quali il
Re non omise di proteggere e insignire di onorificenze e
vita agiata. Uno di questi fu un certo Emanuele Filiberto
Piemonte, cognome da trovatello, nominato in seguito
Conte di Savoiano.
Ebbene, Manuela Filiberta di Savoiano, detta Berta,
in
Nascara,
si vantava d'essere discendente dal nobiluomo in
questione e che nelle sue vene scorresse sangue reale, lo
stesso del
Re Sciaboletta, nipote di Vittorio Emanuele II,
suo avo in pectore.
Ecco dunque che la signora in questione, forte della sua
nascita, da giovanissima aveva aderito all’astro sorgente
del Fascismo, che era stato supinamente
accettato dalla
monarchia sabauda in occasione della
marcia su Roma,
nonostante il parere discorde dell’allora Presidente del
Consiglio dei Ministri, che lo aveva consigliato
di far
intervenire l’esercito.
Berta, fortemente interessata alle vicende
politiche del
suo casato, sosteneva che il Re aveva
fatto bene a dare
l’incarico a Mussolini di formare il
governo e di dargli
quei poteri che difficilmente avrebbe mai ottenuto senza il
suo consenso.
Per lei, il suo lontano cugino era stato
lungimirante e
anche opportunamente intelligente. Aveva salvato l’Italia
dal caos in
cui era precipitata dopo la fine della guerra del
1915/18, che era stata vinta dall’Italia, ridotta però in stato
di fragilità economica.
Questo era il suo pensiero, essendo
del tutto coinvolta nelle spire della dialettica fascista cui
aderiva. Ma lasciando stare le vicende storiche, Manuela
Filiberta di Savoiano, detta Berta, imbevuta dalle nuove
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idee, fu felice di indossare la gonna scura e la camicia bianca, divisa emblematica delle giovani donne fasciste, e a frequentare le palestre del partito, partecipando alle oceaniche manifestazioni del sabato fascista, alle sfilate, ai giochi ginnici del cerchio e dei nastri tricolori, pur non trascurando il ricamo e l’arte della gestione domestica della famiglia, secondo la rigida mistica fascista, assurta come fondamento della politica statale.
Fu durante una di queste manifestazioni a Roma,
dove
si era trasferita assieme alla famiglia, proveniente dalla
lontana Torino, che conobbe un ardente Camicia Nera
siciliano, dai baffetti alla moda e dai capelli impomatati di
brillantina. L’incontro non fu del tutto casuale e innocente
e si trasformò fin da
subito in una relazione fissa.
Al tempo non si parlava di convivenza, ma grazie
al-
l’aderenza al partito, erano liberi di frequentarsi e di vedersi senza alcun pregiudizio. Nulla
di riprovevole in questo, ma le usanze d’allora imponevano di mantenere segreta la loro relazione.
I due si incontravano di nascosto.
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6
L’INCONTRO CON PAOLO NASCARA
La mattina in cui Berta, e Paolo si incontrarono era un sabato, il giorno della settimana assurto al rango simbolico di sagra settimanale fascista.
Mussolini, con molto
acume, per intensificare la sua
simpatia nel popolo e nel fascismo, non a caso convinto
della forza persuasiva del vezzo
degli imperatori romani di
dare al popolo non solo il panem
ma anche i circenses,
decise
di istituire il cosiddetto sabato
fascista, che altro
non era se
non l’anticipazione della giornata domenicale.
Lasciando al Papa e al Vaticano
la gestione del riposo
domenicale, da destinare a Dio con la Santa Messa.
Con l’intento di non attirarsi le antipatie dei cattolici, già non buone nei confronti del nuovo regno Italiano e dei Savoia, credette bene di far precedere la domenica da un sabato festivo, tutto laico e fascista, da dedicare alle manifestazioni patriottiche.
Lo scopo evidente era quello di bilanciare nel popolo l’influenza fascista con quella cattolica, ottenendo nello stesso tempo il plauso per la riduzione delle ore di lavoro settimanali, regalando un giorno in più di riposo.
Tuttavia il vero motivo era d'indottrinare più facilmente il popolo con la sua politica fascista, infarcita tra l’altro da attività sportive, oltre calle corpose conferenze di partito all’insegna del Fascio, dell’orbace e del fez.
Non a caso si cominciò a parlare di
mistica fascista,
una materia
nuova che gareggiava, o scimmiottava quella
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cattolica. Fu il periodo della militarizzazione a tappeto di tutta la nazione fin dalla nascita.
Appena nati, gli italiani diventarono figli della lupa, poi
balilla, indi
avanguardisti e infine militi effettivi. Fu anche
il periodo dell’obbligo del matrimonio e della condanna
del celibato.
In verità gli uomini erano liberi di non sposarsi ma dovevano pagare la tassa sul celibato, che cresceva nel tempo. Più si era celibi e più la tassa cresceva. O ci si sposava o si rischiava di pagare sempre di più.
Le donne, in questo caso furono avvantaggiate,
perché
escluse dal provvedimento in questione, ma l'esclusione
sanciva in modo evidente che il
diritto di scelta del
matrimonio era esclusivamente di pertinenza maschile.
Il giorno che Berta conobbe Paolo, si era recata a Campo di Marte, in veste di spettatrice, dov'era prevista una manifestazione ginnica con l’intervento del Duce e delle massime eminenze fasciste.
Berta era in compagnia di Lucia, l'amica del cuore,
una
giovane romana, molto coinvolta nelle attività di partito,
che frequentava da quando si era trasferita nella capitale.
In quest’occasione, le presentò il fidanzato, il milite Paolo
Nascara, un giovane catanese, trasferitosi a Roma, dov'era
stato assegnato.
Lucia gliene aveva talmente parlato che le sembrò
di
conoscerlo già
da tempo. Paolo era un bel giovanotto, alto,
imponente, coi baffetti appena accennati ma ben curati e i
capelli neri,
intrisi di brillantina, gli facevano risaltare gli
occhi scuri, rendendoli lucidi e
penetranti. Indossava la
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classica divisa orbace della milizia con il fez e il distintivo del fascio in evidenza sulla sinistra del petto e sul cappello che gli dava un’aria piuttosto imponente.
La stretta di mano fu preceduta dall'impeccabile
saluto
romano, fin dal primo momento Berta si sentì osservata
con un certo interesse che la turbò non poco.
Provò un
lungo brivido alla schiena nello stringerle calorosamente
la mano.
Gli occhi di Paolo la esplorarono dalla testa ai piedi.
Anche Berta lo soppesò
da cima a fondo prima di
giungere alla conclusione che era un bell’esemplare
di
uomo e che la descrizione fatta in precedenza da Lucia
corrispondeva al vero. Fu a questo punto che confidò a se
stessa,
con stupore e rabbia, che le sarebbe piaciuto
sentirsi accarezzata da quell’uomo, anche
baciare e
anche... Perché no? Tutto il resto!
Non poteva però ignorare quel senso di rabbia che le saliva nell’intimo, sapendo che Paolo apparteneva già a Lucia. Sapeva che mai poteva accadere ciò che pensava e per questo soffocò l'incedere dei pensieri. Ma non poteva negarsi che le piaceva e come se le piaceva!
Come sempre, mostrò
un’apparente freddezza e un
ferreo controllo delle emozioni, ma lei nel suo
intimo
gustava il desiderio di far l’amore con un uomo, e la vista
di Paolo le alimentò con la fantasia il fuoco che ribolliva
nelle sue vene. Anche lei era alla ricerca di un amore cui
abbandonarsi, in vivo contrasto con l’educazione ricevuta,
e
manifestava un carattere forte e deciso, con qualche
piccola paura. Berta aveva ricevuto un'educazione rigida e
improntata alla continenza e a tenere a bada gli slanci dei
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sensi. La madre era ligia ai principi di Santa Madre Chiesa e il padre, di tendenza liberale ma inflessibile con l’educazione di lei e del fratello.
Entrambi i genitori avevano influito sulla
formazione
del suo carattere. Tuttavia non vedeva l’ora di incontrare
l’uomo giusto per abbandonarsi ai sogni, buttando
alle
ortiche gli insegnamenti familiari, che sembravano dei
tabù alla luce delle nuove idee
apparse all’orizzonte.
Tuttavia aveva la paura di sbagliare. Non ammetteva che
la società le
impedisse a non essere lei a scegliere, ma a
essere scelta.
Quel giovane fascista le sarebbe andato proprio a
genio
per il
concetto che lei si era fatto del suo futuro marito.
Certo, marito. Non arrivava a concepire il rapporto amoroso al
di fuori dal matrimonio. Anzi pensava che piuttosto non si sarebbe mai messa con un uomo senza il matrimonio,
secondo gli insegnamenti ricevuti dai suoi. Le sembrava un’assurdità ma pensava che prima fosse necessario
sposarsi.
Il fascino dell’abito bianco la coinvolgeva, la tentava.
Però, quanto sarebbe stato bello senza quel vincolo assoluto. Queste cose rimescolava dentro di sé
osservando il fidanzato di Lucia, preda del suo dualismo intimo di moralità,
e scacciando ogni cattivo pensiero, la ritenne fortunata per aver trovato cotanto bel maschio da amare.
L’amica le aveva detto chiaro e tondo che
il loro amore non era platonico, fatto semplicemente di bacetti. Avevano fatto tutto. Chissà! Forse anche questa rivelazione faceva galoppare la
sua mente.
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7
SABATO FASCISTA
La giornata di sabato era trascorsa serena e
piacevole.
Dopo
aver assistito alle esibizioni ginniche, al discorso del
podestà e al fiume di retorica fascista messa in atto dal
bravissimo
Mussolini, che aveva sciorinato i recenti suc-
cessi all'estero e le sue remore nei confronti della politica
di Hitler per il suo razzismo dichiarato, Berta, Lucia e
Paolo, si incamminarono lungo il viale fino a
raggiungere
la più vicina carrozzella. Saliti a bordo, il contatto fisico
tra i tre fu quasi imposto. Paolo, con un braccio cinse la
vita
di Lucia, con l’altra mano non esitò a sfiorarle i
fianchi.
Berta ebbe un sussulto. Pensò di reagire, ma si
fermò
un po’ per
prudenza, un po’ perché non le dispiacque. Però
si sentiva a disagio, non riuscendo a stabilire se la causa
fosse dovuta dalla presenza dell’amica o per ciò che
provava intimamente.
Quella giornata alla fine era giunta a degna conclusione
e Berta lasciò i due
fidanzati, salutandoli affettuosamente.
In cuor suo Berta avrebbe voluto parlarne con Lucia, ma la ragione le disse che era meglio tacere. Tanto non ci sarebbe stata più una situazione analoga in futuro. In ogni caso non sapeva se disprezzare il comportamento di Paolo, o di aver gradito le attenzioni che in lei avevano suscitato qualcosa di mai provato prima.
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Erano trascorse due settimane dall’incontro con Paolo.
Berta
aveva messo a tacere tutte le sue contraddizioni fino a quando, si vide spuntare Lucia in lacrime.
«Cos'è successo?» Le chiese
preoccupata. «Cosa posso fare per te?» Incalzò.
«Nulla. Tu non puoi fare nulla» rispose singhiozzando. «Paolo mi ha lasciato. Ha detto che non mi ama più. Non mi vuole e non mi sopporta. Sono disperata.»
Per Berta fu una doccia fredda. Non le disse certo
che
si aspettava
che ciò succedesse. Avrebbe dovuto spiegare e
non le andava di raccontarle di quel giorno a Campo di
Marte. Cercò
di consolarla dicendole che era meglio non
pensarci e che quell’uomo non meritava il suo
amore.
Meglio
dimenticarlo.
Sarà stato il suo consiglio, sarà stato un caso o la fortuna ma Lucia, dopo appena tre giorni, tutta raggiante le disse di essersi innamorata di un altro che le stava dietro da parecchio e che adesso se ne fregava di Paolo.
«Chiodo schiaccia chiodo» le
disse Berta felice e
contenta.
«Meglio così» fu la risposta.
Berta fu doppiamente contenta. Lucia aveva superato
il
trauma dell'abbandono e lei, volendo, avrebbe potuto
incontrare Paolo senza alcun patema, se non quello
di
poter essere piantata a sua volta. Ma non gliene fregava
proprio nulla se dopo l’avesse piantata. Lo voleva e basta.
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8
INIZIO RELAZIONE CON PAOLO NASCARA
Lucia, dopo quell’incontro
di raggiante felicità,
scomparve definitivamente dalla vita di Berta. In effetti
per
lei, più che amica era una conoscenza un poco più
ravvicinata ma non profondamente affettiva. Di fatto cercò
di non frequentarla più, presa
com'era dall’idea di voler
rivedere Paolo, la loro amicizia sarebbe stata d’intralcio e
avrebbe potuto creare in lei dei risentimenti che voleva a
ogni costo evitare.
Aveva ancora tempo per decidere che cosa fare e come agire nei confronti di Paolo, poiché era convinta che quel birbante si sarebbe fatto vivo, e non si sbagliò.
Il loro successivo incontro fu pure casuale ma di fatto sperato e cercato da entrambi.
Questa volta erano da soli, senza testimoni scomodi. Parlarono delle cose più stupide e infine arrivò il momento della giterella in carrozza.
Fu il primo bacio appassionato. Nessun altro discorso o
parola,
niente fronzoli di voci appassionate, solo carezze e
bacetti non del tutto innocenti e profondamente intimi.
Al momento di lasciarsi,
Paolo le propose di farle
conoscere la casa dove abitava da solo. Berta rispose di sì,
ma non quel giorno perché in serata aveva un impegno in
famiglia. Rimandò a domenica. Essendo quel giorno
il
solito sabato
di prammatica, significò: domani.
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Berta e Paolo si incontrarono al Pantheon. Dopo aver consumato una piccola colazione alla caffetteria di fronte, si avviarono in una viuzza accanto, dove Paolo abitava al primo piano di un vecchio stabile.
Varcato l’uscio di casa
e chiusa la porta, Paolo la
abbracciò, la baciò e incominciò a spogliarla.
Berta corrispose alle effusioni e dopo
aver percorso il breve tratto di corridoio, in fondo al quale vi era la camera da letto, i due vi giunsero nudi come Adamo ed Eva.
Fecero
l’amore. Per Lei era la prima volta, ma non per questo ne fu meno intensamente coinvolta. Ed era
stato come se l’avesse fatto da sempre. Per lui provava un trasporto immenso, mai
provato, anche se desiderato. Ed era stato bello, proprio come l’aveva sognato.
Da quel giorno non smisero di vedersi e di incontrarsi a casa di Paolo. Quando stavano insieme Berta si sentiva appagata e felice di fare l’amore senza pensare a nulla.
Era come vivere in un sogno, dove tutto era meraviglioso ma, a forza di amoreggiare clandestinamente, ai due amanti accadde l'irreparabile.
Un bel giorno Berta disse a Paolo che non aveva più
le
“sue cose”. Era semplicemente gravida, come del resto fu
confermato da un esame clinico. Ma non fu un dramma
poiché loro due si amavano e decisero di
sposarsi subito.
Misero su casa in quella abitazione vicino al Pantheon. Paolo era in milizia e percepiva uno stipendio e la moglie Berta, inserita nell’organizzazione delle Giovani Fasciste, aspirava di essere assunta in banca. Si prospettava per loro un avvenire radioso e sereno.
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9
LA PARTENZA DI PAOLO PER L’ETIOPIA
Nel frattempo che la vita dei giovani coniugi Nascara procedeva nei miglior modi, così pure la gravidanza di Berta, gli accadimenti della Nazione maturavano sotto la guida del Duce, al quale rinacque l’idea del “posto al sole” e della ricomposizione dell’Impero Romano.
A Mussolini non bastava più la campagna del grano
né
la bonifica dell’agro pontino. La propria ambizione era
proiettata verso la conquista del mondo. Incoraggiato dalla
funzione di arbitro
internazionale a cui lo aveva promosso
la politica inglese, per bocca e volere del primo ministro
Eden. Dopo i
patti di Stresa, incominciò a mirare sempre
più in alto ed ecco che ideò di ampliare la colonia italiana
somala in Africa dichiarando guerra all’Etiopia, nonché di
estendere il conflitto anche alla Turchia per estrometterla
dalla Libia.
Paolo Nascara in tutto ciò non poteva restare
estraneo
agli impulsi patriottici del Duce, e nonostante avesse già
un incarico stabile nella milizia a Roma, chiese di essere
arruolato come volontario per la
conquista dell’Impero.
Per quanto gli fu detto che la sua opera era più proficua
in Italia lui,
protestando, voleva partire a tutti i costi.
Si rivolse addirittura a un membro
del Gran Consiglio del Fascio. E visto che a lui non si poteva scontentarlo, Paolo fu inserito nell'elenco dei
partenti al posto di un ignoto Paolo Nasca, scartato di punto in bianco con una
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piccola variazione furbesca sul verbale di partenza,
senza
andare
tanto per il sottile, correggendo appena il cognome.
Berta, mentre il marito partiva per l’Abissinia,
non
potendo
seguirlo perché donna, grazie alla fama di cotanto
patriottismo del coniuge, riuscì a
inserirsi meglio nel
partito, diventando una impiegata qualificata del Banco di
Roma. Qui fece valere la sua conoscenza del tedesco e del
francese, nonché il titolo di studio di ragioniera. Insomma
si dette da fare,
muovendosi con grande determinatezza.
Di fatto era entrata nelle mire di un noto
personaggio
che stava molto in alto nella gerarchia e non esitò a
sfruttarla. Sicché, mentre
il consorte combatteva in
Abissinia coprendosi di gloria. Berta,
servendo la causa
del Duce, riuscì a intrufolarsi nelle maglie del potere.
Fu d’obbligo stampare qualche corno al marito, ma di nascosto e senza pubblicità. In verità una leggera forma di trasgressione che tutto sommato mise in atto con una certa partecipazione sentita.
Del resto Paolo nulla sarebbe venuto a sapere, e occhio che non vede, cuore non duole. L’importante per Berta era portare la famiglia sulla via del benessere e nell’interesse anche del marito, che ritornando, avrebbe trovato la strada del successo agevolmente spianata.
E dunque qualche corno gli stava anche bene per averla lasciata sola per rincorrere i suoi sogni di gloria.
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10
IL RITORNO DI PAOLO
Il rientro di Paolo, annunciato d'improvvisa, per ferite riportate in guerra, fu per Berta un fulmine a ciel sereno, sia per lo stato di salute del marito, sia perché vedeva turbato l’equilibrio che era riuscita a crearsi.
Attese con pazienza l’arrivo della nave che
riportava in
Patria oltre al marito altri camerati feriti e anche i morti.
Quando lo abbracciò, fu
felice di constatare che le
ferite riportate non erano visivamente
deturpanti, ma
rimase di stucco quando seppe della menomazione da lui
ricevuta.
Il “coso” era al suo posto, ma imbelle, senza i
pendagli
che un tempo lo adornavano, e che lei riteneva di poco
conto e invece erano il vero sostegno di tutto l’apparato.
Quella prima notte dal suo arrivo, fu un dramma.
Baci, abbracci, piccoli morsi, carezze, ma tutto fu inutile.
E così la notte successiva e tutte le altre a venire.
Berta fece buon viso a cattivo gioco e una volta rincuorato il suo Paolo, gli disse che la cosa importante era che fosse ritornato vivo in Patria.
«A tutto c’è rimedio finché c’è vita» gli disse Berta.
Erno solo parole… ma che poteva aggiungere ai fatti se non parole?
Quello che c’era una volta, adesso non c’era più!
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Terminata la licenza premio, Paolo fu
reintegrato nel
corpo della milizia con il diritto a fregiarsi della Croce di
Guerra e della medaglia
d’argento, che gli fu assegnata per
la ferita riportata, che non fu
meglio specificata se non
come lesiva della sua vita, come fu definita. Ebbe anche
una
promozione di grado e un posto di grande rilevanza
nella sua Catania, dove pure la moglie si fece trasferire
presso la sede del Banco di Roma
della città etnea.
Paolo ricominciò a vivere la sua vita normale di sempre, ma non tanto normale. I rapporti con la moglie erano cambiati e di molto. Nulla, nemmeno l’intensità del suo affetto poteva cambiare la realtà: era fisicamente un eunuco, impossibilitato a esercitare i suoi doveri coniugali con la moglie e con qualsiasi altra donna.
La vita tra loro era un inferno pieno di incomprensioni, i litigi e tutto l’insieme di quelle cose che trovavano a letto l’armonico acquietamento degli eccessi, era saltato.
Berta a stento riusciva a essergli fedele. Ma fedele a che cosa? È da dire che lei aveva ceduto sì, alla infedeltà, mentre Paolo era in Abissinia, ma era stata una cosa non voluta, che era capitata, che non avrebbe voluto, una cosa del tutto occasionale ma adesso la situazione era cambiata. L’assenza sessuale del marito era permanente e i suoi sensi gridavano ancora... e come gridavano!
Le sembrava d’impazzire.
Paolo, da parte sua soffriva pure per lo stesso
motivo e
anche se non era cessato del tutto lo stimolo amoroso. Si
rendeva conto che la situazione precipitava di giorno in
giorno e
che ogni parola, ogni diverbio, ogni dissenso
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aveva il suo sottofondo in quell'anomala situazione.
Fu lui stesso che un bel giorno decise di affrontare la situazione. Le parlò facendo tutto un giro di parole, per cercare di introdurre la sua proposta.
Disse delle cose e delle motivazioni prese alla larga con
molta cura e con molto tatto. Alla fine ammise che non
essendo più in grado di renderla felice la lasciava libera di
cercare altrove quanto
lui non era più in grado di darle.
All’affermazione schietta e sincera di Berta, le
chiese
di essere discreta, di fare pure ciò che voleva alla sola
condizione di essere discreta, di non separarsi, di
restare
per il resto complici nella gestione della loro famiglia, di
non abbandonarlo. In altri termini, più schietto e chiaro, le
disse che poteva farsi un amante a condizione che nulla
trapelasse del loro dramma e che la loro
famiglia non
avesse a separarsi. In parole povere accettava di fare la
figura del marito-fratello. Diciamo pure del cornuto
volontario per causa di forza maggiore, fermo restando il
loro rapporto sociale.
Berta, lo baciò in fronte, lo abbracciò con calore.
«Grazie. Ti voglio bene» gli disse semplicemente.
Da quel giorno i rapporti di convivenza tra loro due mutarono. Si erano chiariti i ruoli del loro rapporto, improntati sulla lealtà e sulla sincerità e Berta promise che nel caso di “sostituzione a letto con un altro uomo” glielo avrebbe detto e così in effetti avvenne.
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11
TULLIO PETRONELLI
Berta annunziò al marito che per motivi inerenti al suo lavoro nel partito era costretta ad assentarsi per circa una settimana, per andare a Roma. Per l’occasione, si sarebbe dovuta incontrare con il gerarca, che lui conosceva e che era amico del numero due del PNF.
Sì, quello che era andato in America con
l’apparecchio
trasvolando l’oceano Atlantico, insieme a Italo Balbo. Per
l'appunto
Tullio Petronelli, che pure lui conosceva. Gli
disse che in passato, mentre lui
era in Abissinia, questi
aveva tentato di amoreggiare con lei, facendole la
corte
ma senza
successo.
In effetti la cosa era avvenuta ma gli disse,
mentendo,
che aveva resistito per amore suo e aggiunse che adesso,
costretti a incontrarsi per motivi di lavoro, lui
tornava
sempre a bomba e ci tentava sempre e che, vista la
situazione, a lei non sarebbe
dispiaciuto di fare “quello
che è...” con lui, ovviamente se
avesse avuto il suo
benestare.
«Sei libera di farlo» le disse Paolo «nel rispetto
che mi
devi.
Cerca di essere discreta e prudente».
Lei preparò la valigia con alcuni indumenti necessari, lo baciò e gli
disse pure quando sarebbe ritornata e partì con il treno per Roma.
Al tempo per recarsi da Catania a Roma si prendeva
il
treno. Si andava alla stazione centrale. Si attendeva quello
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che partiva da Siracusa, si cercava il posto prenotato e ci si sedeva leggendo qualche buon libro. Si arrivava a Roma Termini nello spazio di otto ore. Per fare ritorno si faceva lo stesso percorso a ritroso.
Durante il tragitto Berta era impaziente, le sembrava che il tempo non passasse mai.
Questa volta l’ansia aveva un gusto particolare, come se andasse a nozze. Già a nozze! Poiché andava a tradire il marito, per la prima volta con il suo beneplacito e la sua benedizione e che quello era l’inizio di una storia vecchia, ma di sapore diverso, quasi nuovo.
In effetti il lavoro da svolgere era stata una
scusa. In
verità i due, che già erano amanti, erano d'accordo a
vedersi e stare insieme
una settimana, in occasione del
ritorno del caro Tullio dall’Africa,
dove il suo diretto
superiore e camerata Italo era stato dirottato da Benito con
il titolo di Governatore della Libia, o qualcosa di
simile.
Berta dal finestrino vedendo le immagini dei
panorami
sempre diversi correre all’indietro, sfuggenti, irreali e pur
veri, le sembro di scorrere a ritroso gli episodi della sua
vita con il
marito.
Si rivide giovane e ricca di
idee di grandezza, con
quella sua gonna sotto il ginocchio e la camicia bianca.
A quel tempo non pensava a
agli uomini, che considerava dei semplici individui diversi da lei solo per il sesso.
Il giorno che conobbe Paolo, non pensava affatto
che
sarebbero finiti a letto. Non ci pensava nemmeno, ma lo
sperava. La seconda volta che si videro, lui seppe essere
così
birbante, carino, intraprendente e pieno d’attenzione
43
per lei, che quasi senza accorgersene piombò tra le sue braccia spontaneamente. Fu cosa piacevole e bellissima, che in cuor suo le fece nascere dei desideri e delle aspirazioni mai provate prima.
E dire che Berta, quando conobbe Paolo, lui era
il
fidanzato di Lucia, una sua amica, e che i primi approcci
avuti con lui l’avevano resa nervosa, anche se ansiosa data
la circostanza.
Però non poteva ammettere che le era
dispiaciuto. Ricordò la sorpresa di essere rimasta incinta,
il conseguente
matrimonio e la nascita della figlia.
Quando Paolo decise di partire volontario alla ricerca della gloria, in verità, ci rimase male. Cercò di convincerlo a non partire e di restare vicino a lei, ma fu irremovibile, Era troppo preso dai suoi ideali politici. Prima il Duce e poi tutto il resto. Che poteva fare, se non restare moglie e madre in attesa del ritorno del guerriero?
Quell’attesa tuttavia si trasformò presto
in tormento.
Ricordava le notti d’amore e di serenità appagata e pur
restando fedele al suo glorioso marito, cominciò ad andare
incontro a piccoli e innocenti
svaghi che la vita le offriva,
intensificando le sue presenze in seno alle manifestazioni
del sabato fascista e consolarsi ogni notte stringendo il
cuscino tra le gambe per spegnere la sua sete d’amore.
Fu proprio durante uno di quei
sabati, che conobbe Tullio Petronelli, in occasione di una manifestazione organizzata da
Italo Balbo per illustrare i progressi del-
l’aeronautica italiana.
Argomento del loro primo discorso fu la conoscenza
di
suo marito Paolo con Tullio. Le disse che era felicissimo
di conoscere la moglie di un suo grande amico e camerata
44
Paolo Nascara e ammiccandole un
sorriso, aggiunse di aver finalmente capito perché Paolo si era eclissato.
Tullio, che tra l’altro era un bel pezzo d’uomo, era il luogotenente di
Italo e svolgeva un ruolo importante nel campo aviatorio, in verità aveva avuto con Paolo un rapporto di semplice conoscenza.
Dopo il primo scambio di parole, condito da eloquenti sguardi, Berta accettò l’invito di Tullio a voler provare il brivido del volo.
Era convincente quell’uomo, sicuro di sé e mostrava un’alterigia che Paolo non aveva.
In verità quest’ultimo era assai gentile e la
colmava di
attenzioni che mai lei avrebbe sperato di ricevere. Tullio
era un altro tipo di uomo, uno di quelli che va dritto allo
scopo, anche in amore, senza tanti complimenti. In altre
parole era più maschio, più possessivo, più sessualmente
padrone dei suoi sensi.
Berta capì subito, alla luce delle sue esperienze,
cosa
avesse suscitato in lei la sua persona: il desiderio di essere
posseduta fino in fondo, di essere
più donna tra le sue
braccia, di sentirsi vinta e protetta, senza pensare ad altro.
Stranamente quella sensazione non le dispiacque.
Anzi ne provò un’intima soddisfazione tutta femminile. In fondo era quello che cercava: un rapporto piacevole e soddisfacente ma senza impegni sentimentali. Considerava il rapporto con Tullio, un amore “usa e getta”, un piacere passeggero, una semplice sostituzione temporale alla bisogna, come prendere un caffè insieme e lasciare che il tempo scorresse per gli affari suoi.
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Affari? Aveva pensato agli affari? Che c’entravano
gli affari con il tempo in questa situazione? Bah!
Pensò che stesse farneticando. Il vero affare in questa situazione era l’intenso piacere che quell’uomo le dava
senza nulla a pretendere e solo per gioco.
Al suo primo appuntamento, per provare
l’esperienza
del volo, si presentò molto più
curata nella persona da
quando lo aveva conosciuto. Era andata dal parrucchiere
prima e poi
si era agghindata indossando un abitino che
metteva in evidenza le sue forme e una camicetta di pizzo
che lasciava
intravvedere la procacità del suo seno. In
ultimo aveva steso uno strato di cipria sul viso e rossetto
sulle labbra. Si era fatta bella, controllando prima di
uscire, davanti allo specchio che tutto fosse in ordine. Ci
teneva proprio a
stimolare l’interesse mostrato da Tullio.
Appena salita sull’aereo, quest’ultimo non andò tanto per il sottile. La strinse e la baciò intensamente. Berta rispose al bacio e lo lasciò armeggiare intorno al suo corpo. Si aspettava quel comportamento e sinceramente ci sarebbe rimasta male se non l’avesse ricevuto.
Subito dopo l’aereo rullò
sulla pista e dolcemente si
levò in cielo. Le sembrò di volare, disse tra sé e sé. Ma
che
sembrare! Stava volando per davvero accanto a
quell’uomo che non cessava di
accarezzarla. Certo non
aveva le ali degli angeli, ma stava volando per davvero in
cielo, tra le
nuvole, che assumevano gli aspetti più strane.
Quella verso cui si stava dirigendo l’aereo aveva la forma
di un cuore e
quando gli si tuffò dentro si sentì commossa
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e felice. Le sembrò un bellissimo augurio. Volgendo
gli
occhi in basso le persone le sembrarono formiche agitarsi
tra i campi e il fiume, forse il Tevere, un nastro biondo che
li attraversava. Si sentiva grande, immensa,
superba. Altro
che principessa di sangue reale! Era una Dea pagana che
passeggiava tra le nubi e aveva accanto il cavaliere del
cielo, il padrone del mondo, che le stava facendo
provare
delle
emozioni stupende.
Erano diventati amanti fin da subito, così... quasi
per
gioco e per divertimento reciproco. Lei non pensava di
sostituirlo al marito, ma di
cogliere l’occasione per
distrarsi nell’attesa del suo ritorno. Era certa che quando
Paolo sarebbe tornato, sarebbe finito tutto. Tullio non era
il tipo da volersi legare in una relazione stabile né lei lo
pretendeva. Una semplice parentesi, magari da ricordare
piacevolmente ma nulla più.
Questa situazione la eccitava e la spingeva a godere quanto più potesse da quella situazione.
Poi c’era stato il
ritorno di Paolo e l’amara
constatazione della sua impotentia
coeundi acquisita
combattendo in Etiopia. Sì, forse si chiamava così la
menomazione con la quale era
ritornato dall’Africa.
Ricordava pure la delicatezza con cui
Paolo l’aveva
lasciata libera nei sentimenti e provò pietà per quell’uomo
che l’amava con sentimento, scegliendo il ruolo di marito
putativo. Pensò a San Giuseppe. No!
Certo no! Non
sarebbe diventato un Santo per questo. Piuttosto sarebbe
andato sicuramente
all’inferno per aver preferito il suo
Duce a lei e alla sua famiglia.
Proprio per quest'ultimo
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motivo provò nei suoi confronti
un senso di ripulsa per
averla lasciata sola rincorrendo la farfalla della gloria.
Era stata tentata di lasciarlo ma scacciò via quel suo cattivo
pensiero, pensando alla figlia, che avrebbe sofferto per la perdita del padre. In fondo, poi, pensò di non esserle andata completamente male, avendo incontrato quel Tullio capace di farla
sentire donna felice e soddisfatta di volta in volta, senza forse nemmeno pretendere di essere amato e desiderato.
Tullio la prendeva, la
possedeva e lei era felice di
esserlo. Niente sentimentalismi ma semplice piacere puro
e godimento
dei sensi, il cogliere a volo l’attimo fuggente
senza patemi e rimpianti. Per quanto riguardava la sfera
del
sentimento, le bastava l’affetto della figlia e di quel
suo marito impotente.
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12
RAPPORTI TRA BALBO E MUSSOLINI
Intanto mi preme ribadire ancora quali fossero i
cattivi
rapporti tra Italo Balbo e Mussolini. Questi erano di
assoluta amicizia e lealtà, ma
tra i due qualcosa non
andava proprio. Italo era un po' sciattone e non rispettoso
delle formalità. Nonostante Benito fosse divenuto il
numero uno d’Italia a cui bisognava dare il Voi come di
prammatica, Italo aveva continuato a dargli il Tu in
pubblico, a dargli pacche sulle spalle e a trattarlo come un
suo pari e a non rispettare la sua formale subordinazione.
Specialmente dopo l’eclatante successo della traversata
atlantica, che aveva fruttato all’intraprendente Italo onore
e ovazioni da tutto il mondo, in particolare dell’America,
il suo comportamento era diventato più guascone che mai
urtando la suscettibilità del Duce, suo malgrado fiero del
suo operato,
ma carico di bile, gelosia e timore di essere
detronizzato.
Benito, che di per sé era un assertore del culto
della
personalità, cominciò a temere proprio che Italo potesse
scavalcarlo nei consensi e potesse sostituirsi a lui. Ciò non
poteva e non doveva avvenire.
Il capo indiscusso del PNF
e dell’Italia era lui. Andava bene che sopportasse il Re,
quel
Sciaboletta, come lo chiamava,
che aveva avallato la
sua presa di potere. Questi non gli dava preoccupazione
alcuna. Era
abbastanza tronfio del suo operato avendolo
nominato, oltre che Re d’Albania,
imperatore d’Etiopia.
Ma Italo lo preoccupava moltissimo. Diciamo pure che lo
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temeva e poi non sopportava quei suoi sberleffi, quel suo modo di trattarlo come un suo pari e il seguito di uomini che lo ammiravano nel campo dell’aviazione a lui negata o per lo meno ostica, pur avendo cercato di pilotare un aereo con scarsi risultati.
E non solo questo: unico dei suoi gerarchi osava aperta-
mente
contraddirlo in seno al Gran Consiglio del Fasci-
smo, a manifestargli senza remore e
in pubblico il suo
dissenso, che tra l’altro si era manifestato traumatico, in
occasione
dell’alleanza voluta da Mussolini con Hitler,
osando suggerire in assemblea addirittura la tesi opposta
alla
sua e cioè di entrare in guerra contro la Germania.
Inoltre il Duce ebbe pure a subire lo schiaffo morale della
mancata applicazione in Libia delle leggi razziali contro
gli Ebrei, varata da Mussolini per ingraziarsi ancor più il
cancelliere
tedesco.
Avrebbe potuto fare un atto di forza e annientarlo
con
un suo ordine, ma temeva la reazione del popolo. Italo era
una sacra icona del fascismo. Non per niente lo si additava
come suo
successore al potere, cosa quest’ultima che
accresceva ancor di più la sua
poca serenità. Non gli
andava proprio giù che già si pensasse a un suo succes-
sore, mentre era vivo e
vegeto.
Benito, dopo aver riflettuto a lungo pensò bene
di
tenere lontano da Roma questo suo oppositore, poi non
tanto muto, anche se in
linea di massima obbediente e
osservante delle sue disposizioni finali,
approvate dal
Gran Consiglio del Fascio. In questo
senso non poteva
muovergli alcun appunto. Era fedele osservante di quanto
da
lui stabilito, anche se ricalcitrava prima. Era proprio
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quel ricalcitrare che gli dava fastidio e lo faceva temere di essere prima o poi scavalcato.
Colse l’occasione per toglierselo d’attorno e limitarlo, nominandolo responsabile diretto e governatore della Libia, dove la situazione politica non era poi così facile per la guerra interna delle tribù locali.
La sua speranza era che qualcuno dei nemici
avrebbe
trovato il modo di eliminarlo fisicamente. Ma non fu così,
Italo, grazie alla sua versatilità e al suo acume
politico,
riuscì a unificare le varie tribù della nuova colonia
italiana, smussando le ostilità, creando delle
innovazioni
favorevoli a tutto il popolo e pur ignorando alcuni drastici
provvedimenti di Mussolini, riuscì ad
aggregare tutta la
Libia sotto la sua inflessibile autorità. Né tanto meno il
provvedimento riuscì a tenerlo lontano da Roma, per il
fatto che nonostante le grane da risolvere,
Italo Balbo
riusciva a non tenersi lontano dalla
capitale, servendosi
del suo aereo personale che usava e pilotava direttamente,
come se fosse
un’automobile.
L’aver pensato che il soggetto avrebbe avuto tante di quelle gatte da pelare, da tenersi lontano da lui e dal potere centrale, si rivelò un’errata aspettativa.
Il grande e lungimirante
Benito aveva fatto i conti
senza l’oste. Non tenne presente la personalità irrequieta
di Italo,
che quasi giornalmente, dopo aver disimpegnato
in quattro e quattro otto i suoi doveri d’ufficio, saliva sul
suo aereo personale e nel giro di qualche ora era sempre
tra le scatole del Duce a Roma, a dargli pacche sulle spalle
e a trattarlo come un suo
pari e a contestargli delle piccole
cose che lo turbavano e non poco. Ogni pacca sulla spalla
51
per il Duce era una
coltellata e ogni battuta ironica
un’offesa grave alla sua persona. Non
sapeva proprio
come contenere l’invadenza del suo subalterno
più in
vista.
L’opinione pubblica, che lo considerava un
successore
sicuro alla guida del Fascio rendeva ancora più irrequieto
il sonno del Duce. Il fatto che si pensasse solamente a un
suo probabile successore, lo disturbava
enormemente.
Non gli restava che
affidare l’operato di Italo alla
stretta sorveglianza dell’OVRA1, come del resto faceva
con gli altri gerarchi, suoi stretti collaboratori, ma
con
un’attenzione particolare. Il suo motto era che fidarsi era
un bene, ma solo apparentemente. Bisognava sempre stare
sul chi
vive e sapere tutto di
tutti, non solo dei nemici,
anche degli amici che potevano trasformarsi in potenziali
nemici.
In questo modo seppe tutto di Italo, ossia dei suoi
fatti
personali, dei suoi traffici più o meno leciti, dei rapporti
che teneva con l’America, di certe
sue amicizie con la
perfida Albione, nonostante lui, Benito, pare che intratte-
nesse un rapporto
segreto con quel Churchill, che aveva
dichiarato nemico d’Italia. Gli arrivò sulla scrivania anche
il rapporto
sulla relazione del luogotenente di Italo, Tullio
Petronelli, con la signora Manuela di
Savoiano, detta
Berta, moglie di Paolo Nascara, diventato intanto capitano
della milizia,
per meriti di guerra. Tanto gli bastò sapere
per intervenire ed eventualmente eliminare il fantomatico
nemico prima che diventasse più
pericoloso del previsto.
1 L’OVRA è stata la polizia segreta dell’Italia fascista dal 1927 al 1943 e nella Repubblica Sociale Italiana dal 1943 al 1945.
52
Venti di guerra
Negli quegli anni a seguire i rapporti tra Berta e
il suo
amante subirono una certa accelerazione, grazie alle
continue trasvolate aeree del gerarca
Italo Balbo
dall’Africa a Roma e gli altrettanti viaggi della donna da
Catania a
Roma in treno. La faccenda veniva riferita
dettagliatamente al Duce che cominciò a meditarci sopra,
onde trarne
gli elementi di una difesa a oltranza del suo
potere, costantemente messo in pericolo
da quel suo
fattivo ma antipatico, gerarca.
Con il passare del tempo, la situazione politica in Europa andava sempre evolvendosi con fatti del tutto nuovi e forieri di tempesta.
In Germania, grazie al movimento delle famose Camicie Brune, era salito al potere, regolarmente eletto dal popolo, Adolfo Hitler che, preso come esempio il modo di governare del Duce italiano, manifestò la sua simpatia per il popolo italiano che aveva saputo far risorgere i fasti dell’antica Roma.
È da dire che l’offerta di amicizia del nuovo cancelliere fu accolta con orgoglio da Mussolini, tronfio per l'interesse che gli aveva suscitato.
Seguirono incontri, scambi
culturali, visite ufficiali e
segni evidenti di fraterna amicizia tra il popolo italiano e
quello germanico, nonostante la nota e ancora fresca
lacerazione avvenuta con la prima guerra mondiale e
la
53
non tanta segreta avversione italiana
manifestata con i
famosi patti di Stresa, messi in atto dalle Nazioni Unite.
Col tempo, mentre la politica
italiana, oltre alla guerra coloniale inglese, si era limitata ad arrestarsi ai confini con gli altri stati europei, quella tedesca si rivelava alquanto invadente, essendo
balzata in testa a Hitler l’idea di ricostituire il vecchio impero austro-ungarico.
La prima
mossa del cancelliere di ferro, fu quella di invadere l’Austria e di annetterla alla
Germania con un referendum, che sapeva di vincere, essendo egli austriaco di nascita.
Inghilterra e Francia incominciarono a stare sul chi vive, ma intenzionati a evitare la guerra invitarono Benito Mussolini, grazie ai
suoi rapporti con Hitler, di fare da paciere. Benito Mussolini si mosse con molta diplomazia e grazie a lui, pur
restando l’annessione dell’Austria alla Germania un dato di fatto, fu evitata la guerra e si parlò di pace.
È da dire che lo stesso Mussolini non gradì
l’annessione dell’Austria alla Germania, per il semplice
fatto che egli preferiva avere come confinante un paese
modesto come l’Austria, piuttosto che il colosso
germanico.
La stessa cosa avvenne l’anno successivo con l’occupazione tedesca della zona dei Monti Sudeti, interessanti i paesi cecoslovacchi.
Anche questa volta il Duce,
intervenuto da paciere,
riuscì a far passare l’azione tedesca con i ringraziamenti di
Francia e Inghilterra che, per
l’occasione venne definito
da Eden l’uomo della pace. Ma ecco
che apparve
all’orizzonte la questione della Polonia
e di Danzica.
54
Prendendo lo spunto da un presunto incidente di frontiera, l’esercito tedesco invase la Polonia, occupandola per quasi metà, lasciando l’altra metà alla mercé di Stalin, come da accordi precedenti presi sotto banco.
La spartizione della Polonia consentiva alla
Germania
di estendersi fino all’importante porto baltico di Danzica,
città già abitata da Tedeschi. A questo
punto, Francia e
Inghilterra non ricorsero più ai buoni servigi del Duce
italiano e imposero l’ultimatum a Hitler e fu la guerra,
al
quale il cancelliere tedesco già da qualche tempo aveva
pensato e preparato.
Hitler sapeva che non
avrebbe potuto affrontare la
Francia, difesa dalla famosa linea Maginot, una serie di
fortilizi,
sorta subito dopo la guerra del 1915/18, con lo
scopo di difendere il territorio da un’eventuale invasione
tedesca. Pertanto avvenuta la dichiarazione di guerra da
parte dei Francesi, l’esercito tedesco
invase senza un
preventivo motivo gli stati neutrali
Olanda, Belgio e
Lussemburgo e, dilagando alle spalle della linea Maginot,
aggirata, in
pochi giorni mise in ginocchio la Francia,
minacciando l’Inghilterra con raid aerei su Londra.
Sembrò evidente che la Germania sarebbe uscita vincitrice da questo conflitto europeo e che tutto si sarebbe risolto in una guerra-lampo.
Al gran Duce dell’italo onore, sembrò essere giunto
il
momento di godere dello splendore teutonico e così,
mentre la Spagna di Franco, se ne stette muta a guardare,
godendo dell’amicizia
silenziosa del cancelliere tedesco,
l’Italia, sotto la spinta di Mussolini, che
espressamente
chiese al gran consiglio del Fascio, di buttare sul piatto
55
della bilancia un pugno
di morti per potersi sedere al
tavolo dei vincitori, dichiarò guerra alla Francia.
Gli Alpini cercarono di
valicare le Alpi, in verità con scarso successo e, per non dimostrarsi da meno di Hitler, invasa
l’Albania, al grido di dover spezzare le reni alla Grecia, inviò un esercito d’occupazione in quest’ultima
nazione con l’intento di ricostruire il vecchio impero romano.
In verità al lungimirante
Hitler non piacque tanto
l’attacco alla Grecia, considerato da Benito un bocconcino
facile per dimostrare
l’italico valore a fronte di quello
teutonico. Qualcuno sembra aver riferito che il Cancelliere
tedesco abbia espressamente criticato dicendo: «Ma
che ce
ne facciamo della Grecia, povera in canna, per vincere i
nemici della Germania?»
Pare si sia incazzato ancor di più quando fu
costretto a
mandare in Grecia un buon numero di soldati tedeschi per
arginare le sconfitte degli Italiani, costretti ad arretrare in
Albania, respinti dai Greci, malamente armati, ma animati
dall’amor di patria e di difesa del loro sacro territorio.
Stalin cominciò a
preoccuparsi dell’intraprendenza di
Hitler e dopo aver invaso parte della Polonia, decise
di
fronteggiarlo, attaccando gli stati baltici, ritenuti filo-
tedeschi.
L’Inghilterra, messa alle strette, fece capire agli USA il
danno economico che ne sarebbe derivato da una sua
definitiva sconfitta e dall’allargamento del potere di Hitler,
che aveva
osato infestare anche l’Atlantico con i suoi
sommergibili, pronti ad affondare i soccorsi alla
perfida
Albione, che altro non erano se non navi americane.
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13
NUOVI SCENARI
Il conflitto che doveva essere una guerra-lampo, si
era
via via trasformata da europea a mondiale, poiché contro
l’alleanza italo-tedesca si scagliarono non solo gli USA, la
Russia, anche tutte le nazioni
facenti parte dell’entourage
coloniale francese e inglese. E i
Giapponesi, che non
rimasero a guardare, a Pearl Harbour attaccarono la flotta
americana,
distruggendola nello stesso istante in cui fu
dichiarata la guerra. Insomma l’inferno!
In questo nuovo scenario, i coniugi Nascara, furono completamente coinvolti. Paolo, sempre più imbevuto di eroico furore, chiese di essere impegnato in zone di prima linea. Forse, sperava di riscattare la sua misera posizione umana con il surrogato di una morte gloriosa.
Fu promosso da Capitano a Maggiore della milizia
con
un incarico particolare nell’ambito dell’OVRA. In verità,
il Duce, già a conoscenza del suo dramma e dei rapporti
della di lui
moglie Berta con il luogotenente di quel suo
antipatico e infido camerata Italo, pensò bene di inserirlo
nei suoi programmi di precauzionale posizione di difesa
personale. Conferitagli la promozione, lo
convocò a
Palazzo Venezia e gli parlò della funzione particolare che
gli veniva assegnata per la difesa
dello Stato. Apertamente
gli disse che il regime era minacciato da elementi interni,
non meglio specificati, che remavano contro la grandezza
dell’Italia. Il suo compito specifico era di sorvegliare
le
forze
marittime italiane di collegamento con la colonia
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della Libia, dove non tutti i suoi provvedimenti
venivano
rispettati, compreso quello della mancata applicazione
delle leggi razziali, approvati in conformità
all’alleanza
tedesca. Lì, in Libia operava un uomo che si era rivelato
non del tutto affidabile e si proponeva, quasi apertamente,
come nuovo capo dello stato fascista, di cui solo Lui era il
capo assoluto. Ecco quindi che bisognava tenere gli occhi
aperti ed essere pronti a
intervenire a un suo cenno.
Paolo Nascara, che già in cuor suo nutriva una certa avversione per la persona di cui si parlava, per i rapporti a lui già noti della moglie in quel settore, annuì e dette assicurazione della sua fedeltà incondizionata al Duce, che sedeva altezzosamente dietro la scrivania, dichiarandogli di essere pronto a eseguire ogni suo ordine.
In cuor suo, l’aver
larvatamente appreso che chi gli
aveva letteralmente rubato la moglie non apparteneva a un
gruppo che godesse la stima
del Duce, lo fece ben sperare
di trarre una possibilità di rivincita morale e personale.
Pur avendo accettato la situazione che si era venuta
a
creare con la moglie, la gelosia gli rodeva l’anima e
sperava di eliminare in un modo indolore quel suo rivale
occasionale, che già da tempo era in piena attività e non
cessava di continuare. Gli sembrò di capire che bisognava
attendere il
momento opportuno per agire e che lui, Paolo
Nascara, era stato designato dal Duce
a risolvere la
questione di particolare importanza per
l’Italia, e ironia
della sorte anche per sé medesimo.
Fu licenziato dal Duce con un saluto romano in attesa di disposizioni dettagliate sui compiti specifici che gli sarebbero stati affidati.
58
14
LA PERFIDA ALBIONE E IL FUOCO AMICO
Era il mese di Luglio del 1940. La guerra era scoppiata e l’Italia ne era pienamente coinvolta.
A Paolo Nascara era stato affidato il compito di
sorve-
glianza delle forze marittime del mediterraneo, ricevette direttamente dall’Ufficio del Duce, l’ordine
di far abbattere due aerei, di cui non
era nota la nazionalità, che si stavano
avvicinando in maniera sospetta a Tobruck. Quella località era
oggetto di continui raid aerei del Regno Unito, ossia, della perfida Albione.
In quei pressi stazionavano due imbarcazioni da guerra italiane: l’incrociatore San Giorgio e un sottomarino. Tutti e due le unità erano munite di batterie anti-aeree.
Fu impartito a entrambi l’ordine di abbattere i due velivoli, non appena si fossero presentati nel loro specchio d’osservazione.
L’ordine fu fedelmente eseguito e dei due aerei, uno riuscì ad atterrare indenne sulla pista dell’aeroporto e l’altro precipitò in fiamme colpito da una raffica di mitraglia. Fu subito emesso il bollettino che due aerei nemici avevano tentato un attacco all’aeroporto di Tobruck e che di essi uno era stato abbattuto e l’altro catturato con tutto il suo equipaggio.
Con grande disappunto e imbarazzo fu ammesso
dopo
che i due aerei, oggetto del bersaglio della marina italiana,
non erano nemici ma italiani, di ritorno da una missione
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contro una flottiglia
inglese. Si accertò che l’aereo
abbattuto era quello di Italo Balbo e che tutto l’equipaggio
era andato perduto. L’aereo in
questione era guidato dallo
stesso Italo, il quale non disdegnava di partecipare con il
suo velivolo ad azioni di guerra. La sua irrequietezza gli
era stata fatale. L’altro aereo, che era riuscito ad atterrare,
era quello guidato da Tullio Petronelli, che uscì indenne
dall’attacco di fuoco amico.
L’evento suscitò molto clamore, facendo serpeggiare in
giro
il sospetto di un complotto nei confronti dell’eroe
morto, subito smentito e giustificato da un fatale errore,
dovuto in
parte anche al comportamento dell’eroe dece-
duto, il quale era solito agire senza preventivi avvisi alle
forze armate, scorrazzando a destra e a manca per i cieli,
come se fossero delle comunissime strade.
Dall’inchiesta promossa non
fu possibile nemmeno
stabilire da quale delle due imbarcazioni fossero partite le
raffiche micidiali. Forse da entrambi. Non restò che
celebrare e immortalare la grandezza dell’eroe scomparso.
Le illazioni sul ventilato complotto furono tacitate e come conseguenza Paolo Nascara fu silenziosamente rimosso dall’incarico e avviato ad altre attività militari, lontano da Catania e da sua moglie.
L’amante di Berta, Tullio
Petronelli, sopravvisse ma
ben presto fu messo al riparo da ogni considerazione in
proposito. Egli confermò di non sapere quali accordi
esistessero tra Italo Balbo e il comando militare marittimo
di stanza a Tobruck, pur lasciando capire che il suo capo,
nel suo modo di operare, non badasse tanto alle modalità e
che andava soggetto a impulsi improvvisi e
autonomi.
60
La sua testimonianza avallò
la tesi che l’errore della
morte di Italo era da attribuire
alla sua intemperanza e
mancanza d’intesa con il comando militare marittimo.
Anche Petronelli fu rimosso dal suo incarico e
avviato
all’altro abbastanza prestigioso di Podestà di Catania,
lontano da incombenze militari e che
intensificarono i
rapporti con Berta.
Ancor oggi sussistono
dubbi, incertezze, pareri
discordanti sulla drammaticità di quei fatti, che
ebbero
come esito la scomparsa di uno dei capi fascisti, forse il
più zelante oppositore del Duce che, come si disse, fosse
contrario
all’intervento dell’Italia nel conflitto a fianco
della Germania. Si disse pure che
propose al Gran
consiglio del Fascio, di cui faceva parte, di entrare in
guerra, sì, ma contro la Germania. Qualcuno osò
anche di
annullarne i meriti definendo la sua fine come quella di
SCIUPONE L’AFRICANO, satireggiando sulla figura di
Scipione
l’Africano, a causa delle sue continue e sontuose
feste in Libia a spese dell’erario italiano.
Per quanto concerne la mancanza di coerenza tra i
vari
reparti italiani operanti in guerra, bisogna riconoscere che
vi erano in atto delle discrepanze e dei malintesi, forse non
del tutto
casuali. In proposito, voglio citare un altro
episodio abbastanza eclatante, come quello della morte di
Italo Balbo, passato
sotto silenzio ma che costò all’Italia la
perdita del dominio marittimo del
Mediterraneo: la
battaglia di Punta Stilo, presso cui la flotta italiana venne
in contatto con quella
inglese.
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Nell’incalzare della battaglia,
da parte italiana, fu
richiesto l’intervento dell’aviazione e quest’ultimo non fu
tempestivo.
Avvenne che lo stormo degli aerei italiani,
anziché bombardare solo la flotta
inglese, per un fatale
errore, bombardò quella italiana. Solo
successivamente
individuò quella inglese, quando ormai
il carico delle
bombe si era esaurito. Del fatto non se ne parlò proprio.
Solo dopo, ma molto tempo dopo, venne a galla la verità,
di cui non si ebbe alcun
chiarimento e l’evento rimase
avvolto nel mistero di dubbi e di motivi reconditi.
Altro grave episodio di mancanza d’intesa tra i
reparti
al fronte, avvenne anche nella precedente guerra del
1915/18. Mi riferisco alla disfatta di Caporetto. Gli austro-
ungarici
non sarebbero riusciti a sfondare la difesa
italiana, se l’artiglieria italiana,
comandata da Badoglio,
avesse attuato il fuoco di sbarramento.
Ma ciò non
avvenne per la mancanza d’intesa con
il Generale
Cadorna, capo dello stato maggiore dell’esercito.
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NELLE MANI DEI TEDESCHI: LA DISFATTA
Dopo quel fatale 1940, le fasi della guerra precipitarono a sfavore della Germania e dell’Italia, grazie anche all’intervento fattivo delle truppe americane con l’esito che tutti conosciamo.
Paolo Nascara, in seguito all’evento
di Tobruck, fu
dirottato verso altri incarichi. In parole povere fu messo in
ombra.
Bisognava che scomparisse dalla vicenda che lo
aveva
visto come anello di congiunzione nell’operazione che si
era risolta con la morte del numero due del Fascio, dovuta
al fuoco amico.
Bisognava allontanare del tutto il sospetto del complotto e convincere l’opinione pubblica del malinteso originato anche dall’operare sconnesso dello stesso Italo, che non aveva segnalato la sua posizione né l'intenzione di atterrare con i suoi due aerei a Tobruck.
Gli onori e le manifestazioni di cordoglio, nei confronti
dell’eroe perduto
inondarono l’Italia e furono immensi.
Si discusse pure sulla questione che l’aereo non guidato da Italo riuscì ad atterrare, mentre l’altro fu abbattuto senza colpo
ferire e della nomina a Podestà di Catania del Maggiore Petronelli.
Lo stesso Nascara partecipò
al picchetto d’onore
celebrativo dei funerali di Stato. Anche gli Inglesi
si
presentarono con i loro aerei sul cielo di Tobruck, non per
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bombardare il porto ma per lanciare ghirlande di
fiori e
volantini inneggianti all’eroismo del grande Italo, che la
volontà divina e gli eventi avevano
posto nel campo
avverso.
Paolo Nascara, muto come un pesce, accettò di
essere
trasferito da quel suo incarico ad altro nell’ambito
dell’OVRA e accettò anche di buon grado la promozione a
colonnello.
Era del tutto calato il silenzio sull’episodio di
Tobruck
anche per l’incalzare dei nuovi fatti. Ormai la bilancia
degli eventi pendeva dalla parte
avversa alle speranze
italo-tedesche. L’Italia era continuamente
soggetta ai
bombardamenti americani, e quando ormai la situazione
era
diventata critica, il Gran consiglio del fascismo, sotto
l’azione del conte Ciano, genero di Mussolini, mise
in
minoranza il Duce, che fu costretto a presentare le sue
dimissioni a Vittorio Emanuele III.
Il Duce si recò al Quirinale, rendendo edotto il Re di non poter più esercitare la sua autorità nel Gran Consiglio, e chiese di designare il successore al suo governo.
All’uscita dalla sala delle udienze ebbe la sorpresa di essere accolto da una pattuglia di carabinieri che lo arrestò in nome di sua maestà Re e Imperatore.
Mussolini, pur con tutti i riguardi dovuti, fu privato non solo del potere, ma anche della libertà e spedito sotto scorta nella fortezza-prigione del Gran Sasso.
Il Re affidò la reggenza del nuovo Governo a Badoglio, con il preciso compito di trattare l’armistizio con le forze alleate, le quali avevano già invaso la Sicilia.
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Venne firmato l’armistizio di Cassibile e fu
diramato
l’ambiguo proclama che la guerra continuava. Cosa,
quest’ultima, che mise in imbarazzo le truppe italiane, le
quali, prese alla sprovvista si videro aggredite dagli ex
alleati.
Il Duce fu liberato
con un raid aereo dalle forze
tedesche, che lo rimisero a capo del Gran Consiglio e fu la
fine dei
vari Ciano, de Bono e altri gerarchi dissidenti,
fucilati alla schiena come traditori
della Patria, dopo il
processo-burla di Verona. Fu lo scoppio della guerra civile
in Italia
e dell’invasione tedesca dell’Italia in appoggio
alle forze fasciste.
A Mussolini, ormai nelle mani dei tedeschi, che
lo
usarono come un burattino, non restò che fondare la
Repubblica Sociale di Salò. Nel mentre, sotto la spinta
partigiana, le città italiane si ribellavano al Fascismo e ai
tedeschi, il Re Vittorio Emanuele III,
per non cadere
prigioniero degli alleati fuggi verso
Brindisi, per poi
andare in esilio in Egitto, abdicando troppo tardi in favore
del figlio Umberto II, che passò alla storia come il Re di
maggio.
Per completare lo scenario di sfacelo delle forze
italo-
tedesche, bisogna anche dire che l’Etiopia venne persa insieme alla precedente colonia somala.
Nonostante l’intervento di Rommel, gli Inglesi del Generale Montgomery riuscirono a sconfiggere, grazie alle loro truppe corazzate, gli italo-tedeschi, che lasciarono l’Africa per non tornarvi mai più.
In tutto questo disastroso scenario il Nascara,
fedele al
suo Duce e ai dettami del suo Governo, ormai soggiogato
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alla volontà della pazzia
galoppante e megalomane di
Hitler, aderì alla Repubblica di Salò
e in veste di
colonnello dell’esercito repubblichino fu catturato, per sua
fortuna, non dai partigiani, che all’istante lo
avrebbero
fucilato, come avvenne poi per Benito, ma dalle truppe
americane.
La sua cattura avvenne a Vercelli, dopo un conflitto
a
fuoco con i marines. Ormai lacero, privo di munizioni e
impossibilitato a difendersi, fu braccato nelle risaie
del
vercellese. Preso dalla pattuglia che lo cercava insieme al
suo luogotenente che perì nell’atto di
fuggire, fu
imbarcato e inviato, per sua fortuna, in America, sotto
stretta sorveglianza.
Al momento della cattura, non rinnegò
il suo credo fascista, ritenendosi un eroe. Se lo avesse fatto,
conse-
gnandosi spontaneamente alle forze alleate, non sarebbe stato sicuramente deportato.
Paolo Nascara dichiarò il
suo grado, la sua fede nel
Duce e si dichiarò prigioniero di
guerra. Per questo fu
impacchettato e insieme con gli altri irriducibili camerati
fu
inviato in America in attesa di processo per crimini di
guerra.
Finiva così l’avventura militare del giovane fascista, iniziata con la dissennata marcia su Roma e conclusasi con l’arresto e la deportazione con l’accusa di sospetta attività criminale di guerra.
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LA VITA CONTINUA
Berta, nel fulgore della sua vita, aveva raggiunto
una
posizione che non tutte le donne italiane di allora erano in
grado di ottenere. Moglie onorata e fedele (in apparenza)
di
un eroe nazionale, stimato dal Duce, intima (e pure
invidiata) amante di un uomo molto vicino a quell’Italo,
considerato
il numero due del fascismo, madre di tre figli,
rispettata signora dell'alta società del
tempo e stella
nascente del Fascismo in chiave femminile, grazie alla sua
avvenenza e al suo modo di fare, aveva cercato di inserirsi
sempre ancor di più nei gangli
della vita cittadina, allac-
ciando rapporti d’amicizia con le più eminenti personalità.
Partecipava a tutte le manifestazioni cittadine.
Curava
le attività di carità sociale e anche quelle artistiche e
sportive. Era del tutto soddisfatta. Ormai la sua
principale
preoccupazione era di curare l’educazione dei figli.
Con molta arguzia, quasi prevenendo il burrascoso futuro che si addensava all’orizzonte, spostò le sue attenzioni dal partito verso la Chiesa Cattolica.
Era diventata madrina di opere di carità promosse
da
Pio XII e non omise di frequentare le messe domenicali.
Affidò l’istruzione delle sue due figlie femmine alle suore,
distogliendole dalle attività
fasciste alle quali era stata
educata, ritenendo l’educazione cattolica più appagante.
Era il caso di una conversione? Non proprio. Lei
era
stata e
continuava a essere cattolica, anche se era cresciuta
nello spirito patriottico fascista, a cui era stata aggregata,
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