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Antichi rituali magici di una Sicilia che fu

da: catania.italiani.it/

 

La nostra cultura è caratterizzata da una grande religiosità che si manifesta nel culto, nelle festività religiose popolari e nelle preghiere. Accanto a questa, in seno alla famiglia, si trovano pratiche magiche infarcite di superstizione, a volte incomprensibili, con lo scopo di esorcizzare il male o di guarire da malanni. Immergiamoci con itCatania, in questo affascinante mondo, alla scoperta di questi usi e costumi. 

Segnatura

Tra gli antichi rimedi propri della tradizione siciliana c’era quella della cosiddetta “segnatura”.

AAntichi rimedi della nonna contro i malanni

Tra i più famosi rimedi propinati dalle nonne  per guarire da comuni malanni vi erano:

“U sbruffuni”  o suffumigi, una pratica consistente nella respirazione di vapori (con aggiunta di bicarbonato o di essenza di menta) emanati dall’acqua in ebollizione nella pentola. Questo metodo era efficace contro il naso tappato ed il raffreddore.
“I vintusi” ovvero le sanguisughe che succhiavano il sangue cattivo dalle spalle dell’ammalato.
“U vinu cottu” serviva contro febbre, raffreddore, dolori, ecc.
“A pala di ficurinia” si usava in caso di tagli profondi o spaccature. Si ripuliva dalle spine e cicatrizzava la ferita.
“I stuppati”, venivano usati per ingessare una parte contusa. L’operazione avveniva montando a neve dei bianchi d’uovo che venivano poi appoggiati sulla parte contusa assieme a del cotone. Nasceva una vera e propria ingessatura robusta ed efficace.

GGli antichi rimedi popolari per curare “‘u suli ‘n testa

Dalle nostre parti, con le temperature estive altissime, chi era colpito dal classico “colpo di sole”, si diceva che aveva “‘u suli ‘n testa”, e ricorreva a persone esperte nell’antica antica pratica che consentiva di liberarsi dai fastidi dell’insolazione.

Si faceva sedere la persona colpita su una sedia e le si metteva in testa una stoffa di cotone rossa su cui si poggiava un piatto di ceramica che conteneva un po’ d’acqua. Al centro del piatto si metteva uno stoppino fatto con una moneta e una pezzuola di cotone unta di olio. Dopo avere acceso lo stoppino, il piatto si poggiava sulla testa. L’acqua attorno al bicchiere cominciava a ribollire producendo bollicine che facevano spegnere lo stoppino. A questo punto l’operazione veniva ripetuta riaccendendo lo stoppino e spostandolo assieme al bicchiere su altri punti del piatto e contemporaneamente si aveva cura di spostare e collocare il piatto su altri punti della testa del soggetto da curare. La persona che “levava il sole faceva anche dei gesti sul piatto recitando una lunga preghiera con delle giaculatorie che sapeva solo lei e ripeteva l’operazione finché l’acqua si asciugava. In questo modo sembrava che il malessere passasse e il paziente poteva tranquillamente tornare alla vita quotidiana senza mal di testa.
In genere questa pratica veniva fatta all’aperto per tre volte, in un angolo del cortile.

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Il piatto era uno dei rimedi antichi per togliere l’insolazione e l'”occhiatura”

AAcqua, sale, olio, aglio

La “magia” popolare, quella delle campagne, non ha testi scritti, ma si basa su vecchie orazioni e preghiere, ricavate talvolta da sgualcite immaginette e da antichi santini. Per secoli queste pratiche sono state tramandate oralmente di nonna in nipote, in segreto a chi ne fosse veramente degno. Tutto ciò ha dato vita alla Benedicaria, incentrata sul culto dei Santi, della Vergine, di Gesù e del Creatore, veri ed indiscussi protagonisti.

Si ricorreva anche all’uso di alcuni ingredienti naturali come acqua, sale, olio, aglio, dalle caratteristiche apotropaiche ed esorcizzanti. L’acqua e il sale richiamano il battesimo e sono usati al fine di contrastare la volontà, l’invidia (soccu pènzanu), le maledizioni, le imprecazioni (socchi dìcinu), le azioni incantatorie e le fatture (chiddu ca fanu). 

Nel momento in cui si entrava per la prima volta nella nuova abitazione, infatti, vigeva l’usanza, oltre che di spazzarla e lavarla con acqua, di portare pane e spargere sale. L’acqua è l’elemento protagonista di diverse pratiche catartiche, come delle abluzioni rituali per la purificazione dello spirito e del corpo. L’aglio da sempre venne in qualche modo collegato al mondo magico popolato da spiriti buoni o cattivi. In Sicilia lo si metteva nel letto delle partorienti, e si credeva che farsi il segno della croce tenesse lontani tumori di varia natura. L’olio d’oliva era utilizzato per ungere le statue, preparare profumi rituali e per glorificare gli eroi; con il Cristianesimo diventa segno della presenza di Dio.

Mi sembra di sentire il suono della voce della nonna rimbombare in maniera perentoria nelle orecchie: “L’olio che cade è segno di disgrazia in arrivo.” Per ovviare alla sfiga occorreva gettare il sale. Questa credenza deriva dal fatto che olio e sale erano materie prime preziose.

Il rito contro l’ucchiatura

Secondo antiche tradizioni popolari, il cosiddetto “malocchio” o “l’ucchiatura” è il manifestarsi di mal di testa diffuso e persistente e, nei casi più gravi, nausea e senso di stordimento. In rari casi di “malocchio”, la persona colpita era impossibilitata allo svolgimento di ogni attività per invidia, gelosia, possesso, rancore o vendetta. L’ucchiatura è una delle pratiche di medicina popolare alternativa più conosciute.

Esistono varie versioni relative alla pratica contro l‘ucchiatura, che sono state tramandate di generazione in generazione. Come tradizione racconta, la “donazione” della formula poteva avvenire solo una volta l’anno, la notte di Natale. Di solito, davanti al fuoco acceso, bisbigliato all’orecchio, lontano da occhi indiscreti. Se le gocce si allargavano, allora vi era il malocchio. Le donne dunque prendevano tre pizzichi di sale e lo buttavano sopra l’olio, come a voler accecare gli occhi di chi aveva guardato male la persona sofferente.

LLe formule

In nome di lu Patri, di lu Figghiu e di lu Spiritu Santu, Ti parru cu prutesta occhi bruttu. Ti scunciuru pi patti di Dio e di Maria e di la Santissima Trinità, si *nome della persona a cui si sta togliendo il malocchio* avi u malocchio a mari mi sinni va”.

E ancora: “Scunciuru la ‘nvidia, scunciuru lu mummuru, scunciuru lu malocchio, scunciuru li malilingue, scunciuru la jettattura, scunciuru la mavaria, io ti scunciuru pi patti di Dio e di Maria e di la Santissima Trinità, si *nome della persona a cui si sta togliendo il malocchio* avi u malocchio a mari mi sinni va”.

E infine: “Cincu foru chi ti vittunu, quattru foru chi ti ducchiaru, tri foru chi ti luvaru. U Patri, u figghiu, u Spiritu Santu e la Santissima Trinità, si *nome della persona a cui si sta togliendo il malocchio* avi u malocchio a mari mi sinni va. Fora malocchio intra Maria, fora malocchio intra Maria, fora malocchio intra Maria, fora malocchio intra Maria”.

E, mentre si pronuncia l’ultima frase si lasciano cadere dal dito mignolo quattro gocce d’olio a formare una croce sul piatto riempito d’acqua. La guaritrice/guaritore traccia per tre volte il Segno della Croce, toccando il “paziente” con la punta del suo pollice, indice e medio della mano destra, nel seguente ordine: prima sulla fronte, poi sul petto, poi sulla spalla sinistra, e poi sulla spalla destra.

PPreghiere e riti per trovare marito

Le ragazze che dopo i diciotto anni rimanevano nubili, erano solite far voti per trovare marito. C’erano delle vere e proprie preghiere da recitare affinché si ricevesse la grazia di una proposta di matrimonio. Uno degli usi più bizzarri era quello di mettere tre fave sotto il cuscino della ragazza (una intera, una appena pizzicata e una completamente sbucciata) e al risveglio la giovane doveva estrarne una a sorte: se prendeva quella intera allora avrebbe sposato un uomo ricco, quella appena pizzicata stava ad indicare un uomo né ricco e né povero mentre quella sbucciata indicava un uomo povero. Esistevano anche delle cose da non fare come: farsi passare la scopa sopra i piedi all’atto dello spazzare o evitare di sedersi agli angoli dei tavoli. 

I Santi chiamati in aiuto erano diversi, che si dividevano compiti e luoghi. A Catania si recitava questa preghiera:

San Pasquale Baylonne
protettore de le donne
mannammello ‘nu marito
janco russo e culurito
ha da esse tale e quale
como a te Santo Pasquale.

NNozze

Tanti anche i rituali da fare nel periodo del fidanzamento e poco prima delle nozze. Ricordiamo la pratica secondo cui, la prima volta che il fidanzato varca la porta o l’uscio della fidanzata, deve farlo mettendo avanti il piede destro; altrimenti potrà avvenire una rottura di relazione con la famiglia di lei.

Immancabile la cunzatina dò lettu, durante la quale, gli sposi invitavano amici e parenti a casa e sceglievano 2 o 4 ragazze nubili, le quali, insieme alle altre donne, si sarebbero occupate dell’allestimento del talamo. Le ragazze scelte indossavano solitamente dei grembiuli bianchi, simbolo della donna di casa dedita alle faccende. Le lenzuola e le coperte dovevano essere, tassativamente di colore bianco e ricamate a mano. La tradizione era prettamente di augurio e buon auspicio: si sceglievano delle ragazze giovani e non sposate, per augurargli di trovare marito; si era soliti mettere sotto le lenzuola riso e monete per augurare prosperità; si usava anche far saltare dei neonati sul letto, un maschio e una femmina, per augurare una numerosa prole.

NNascita

C’erano anche riti e formule propiziatorie per rimanere incinta e proteggere il neonato.

Un antico rituale siciliano nell’antichità, quando non esistevano ancora le attrezzature tecnologiche odierne, permetteva di scoprire il sesso del piccolo prima della sua nascita. Bisognava versare una goccia di latte dal seno due settimane prima del parto in una tazza piena d’acqua. Se la goccia andava a fondo, voleva dire che sarebbe nato un maschietto. In una casa nella quale la moglie è incinta, se il marito raccoglie per terra un ago, è segno che il nascituro sarà maschio; se uno spillo, femmina.
La culla del futuro neonato si preparava solo di mercoledì e la si addobbava con oggetti benedetti per guardarla da spiriti maligni.

MMorte

Tanti anche gli usi, i costumi e le formule legate alla morte. Basta ricordare che accanto al morente c’erano coloro che recitavano le preghiere per auspicare che l’anima fosse accolta in Paradiso. Il letto di morte veniva allestito da tre familiari stretti. Anche il rito di chiudere gli occhi al cadavere, legato certamente alla pietà verso il defunto, ha soprattutto – si crede – la funzione latente di difendersi dalla sua pericolosità oggettiva, poiché gli occhi aperti potrebbero contagiare e attrarre alla morte i superstiti.

L’ultimo viaggio del morto era accompagnato dalle donne che intonavano i lamenti e si percuotevano, retaggio delle prefiche dell’età classica. Il canto aveva il compito di fare sentire il morto, credo, felice di essere morto, perché le stonature erano allucinanti e i timpani delle donne obbligate a restare a mio avviso non ne hanno giovato per niente. “Figghiu figghiu miu, chi ti ficiru… maliditta malatia… o maliditta sfurtuna… o malidittu iddu ca fu…” e “figghiuuuuuu … chi ti ficiru figghiuuuuuuuu“, con una tonalità che partiva quasi con calma in salendo fino a note altissime che qualunque contralto avrebbe avuto difficoltà a toccare. Il cantato ricominciava ogni qual volta una persona entrava a fare le condoglianze. Chi entrava aveva il compito di chiedere “commu fu… ma cchi ci rissiru… ma quant’era beddu…”, dando vita ad una vera e propria pantomima. Importante anche il “cùnsulu”, una sorta di pranzo di consolazione preparato dai parenti che si svolge nelle case “a lutto”, al rientro dal cimitero. Iniziavano i tre giorni di visitu, ovvero tre giorni in cui la gente poteva tornare o andare per la prima volta a fare le condoglianze.

CCosa resta di queste tradizioni

Un detto dice: “Non è vero, ma ci credo“. La superstizione perdura, nonostante il cambiamento dei tempi.

Com’è accaduto per altre formule cerimoniali e per altri rituali, il significante ha, in qualche modo, conservato tratti originari, mentre l’archetipico significato si è impoverito e semplificato, in parte deformato, pur rimanendo integrato all’interno della medesima cultura simbolica. Molte di queste pratiche sono andate perdute, a noi giovani rimane di essere testimoni di un retaggio che ha dato vita alle nostre radici, ricordando a tutti che senza radici, si sa, il terreno frana.