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Sicilia federiciana

 

da Treccani.it

 di Vincenzo D'Alessandro

 

 

All'età musulmana si fa risalire la ripartizione del territorio isolano in tre Valli: il Vallo occidentale di Mazara, limitato a oriente dal fiume Salso (o Imera meridionale) fino al fiume Imera settentrionale e ai monti delle Madonie; il Val Démone, che comprendeva la parte nordorientale montuosa delle Madonie e dei Nebrodi (o Caronie), e l'entroterra segnato dai bacini del Simeto e del Salso, che delimitavano il Val di Noto. Dal tempo di Federico II il fiume Salso segnava anche la ripartizione dell'isola in due parti, quella occidentale del Vallo di Mazara, al di qua del fiume, e quella orientale del Val Démone e del Val di Noto, al di là del fiume: la Sicilia "citra flumen Salsum" e quella "ultra flumen Salsum".

 

Quella ripartizione fu ridisegnata, ancora per ragioni amministrative e giudiziarie, da Federico II, il quale elesse due giustizieri, uno per il Vallo di Mazara, per la Sicilia "citra Salsum", e l'altro per i due Valli orientali, per la Sicilia "ultra Salsum". Ma la tripartizione della regione nei tre Valli sopravvisse e si perpetuò. Fra l'altro, essa valeva pure a rilevare tre aree dai caratteri geologici e morfologici differenti, anche variegate al loro interno, in una regione estesa per 25.708 kmq, costituita per un terzo da monti, per una buona metà da colline, povera di pianure (3.600 kmq) e con una altitudine media di 300 metri. Basti notare la diversità naturale dei terreni prossimi alla linea della costa, generalmente calcarei, in confronto alle terre degli altipiani interni, piuttosto gessosi e zolfiferi; l'abbondanza delle acque, la maggiore presenza e ampiezza dei manti boschivi, la varietà del paesaggio agrario, la fertilità di alcune aree favorite dalla positura e dall'abbondanza delle acque (come i celebrati campi di Lentini), della parte orientale della regione, in confronto alle realtà della parte occidentale.

Lungo un asse parallelo alla costa tirrenica, la catena montagnosa nordorientale dell'isola, che ha nei Nebrodi la massa più robusta, procede verso sud-est fino ad avvicinarsi alle propaggini del massiccio dell'Etna. Verso il Tirreno il pendio del rilievo presenta tratti fortemente inclinati, incisi da numerosi, brevi corsi d'acqua stagionali e torrentizi (le fiumare), e si distende solo con la piana tirrenica di Milazzo. Fra il massiccio dell'Etna e i monti Iblei, di natura friabile e argillosa, facile a erodersi, la piana di Catania ‒ la più estesa di tutta la regione (430 kmq), insieme a quella settentrionale di Milazzo e a quella meridionale di Gela ‒ è fra le poche vere pianure di una regione dominata dai rilievi della parte orientale e disuguale nella parte occidentale ‒ prevalentemente collinare ‒ che digrada lentamente verso meridione, con superfici relativamente uniformi verso il limite delle coste. Il fiume Salso segnava una demarcazione fra due aree distinte della regione e del paesaggio agrario. A cavallo fra Due e Trecento una prima osservazione segnalava la maggiore frequenza di centri abitati nell'area orientale, di contro alla maggiore densità abitativa dei più rari centri abitati in cui si concentrava la popolazione dell'area occidentale. Alla maggiore estensione delle terre sative interne della parte occidentale si contrapponeva la maggiore estensione dei boschi (e dell'allevamento) della parte orientale, più abbondante di acque e dalle campagne più fertili, come i più noti campi di Lentini. Il paesaggio fitto di boschi, di radure e campi che si alternavano in continuazione all'incrocio dei tre valli, nel territorio di Enna, appariva a uno scrittore del primo Trecento (Nicolò Speciale) come un'immagine di forza e fertilità naturali. E tuttavia diversa poteva essere l'immagine dell'area centrale fra il Platani e il Salso, che digrada a meridione per una serie di colline e di terreni gessosi e zolfiferi, biancastri nelle estati assolate e aride, verdi del grano invernale o disalberati e gialli delle stoppie estive. A metà del Cinquecento l'isola mostrava a un osservatore attento la maggiore altitudine e le estese montagne, le grandi selve e i forti boschi del Val Démone, abbondante di olio ma povero di frumento; le campagne sassose ma fertili del Val di Noto, ricco di greggi e di bestiame, di grano e di vino; la ricchezza di greggi e di armenti del Val di Mazara, fertilissimo di grano, di vino, di olio.

Inoltre, v'è da notare la distanza, segnata proprio nell'età sveva, fra la condizione demografica della parte orientale, più densamente popolata, dotata di più numerosi e frequenti insediamenti e villaggi rurali (i "casali"), in confronto alla parte occidentale, nella quale invece aumentava la concentrazione abitativa nelle cosiddette "terre" abitate, sparse e distanti nelle nude e assolate campagne cerealicole. Tale differenza, destinata ad accentuarsi con il calo demografico, e pertanto del lavoro e dell'economia agraria, segnava lo stacco fra la visione tutta positiva degli scrittori musulmani dell'età normanna, esaltatori di una prosperità che intendevano attribuire ai propri avi, e la condizione generale di insufficienza e diseguale di-stribuzione del lavoro e della produzione nella regione agraria.

A metà Cinquecento, quando la Sicilia era uno dei domìni dell'Impero spagnolo di Carlo V, lo storico siciliano Tommaso Fazello dedicava la prima parte della sua storia (il De rebus Siculis decades) alla geografia storica dell'isola. La sua descrizione conferma molti degli aspetti rilevabili per l'età sveva, e osserva pure alcuni successivi elementi meno favorevoli del paesaggio agrario e del lavoro, anche in rapporto alle possibilità di sfruttamento dei territori. Il Vallo di Mazara, notava preliminarmente, era "fertilissimo nel produrre frumento e altre sorte di biade, e vino e olio e miele ottimo, abbondantissimo di pecore, di buoi, di armenti di grosso bestiame"; il Val di Noto ha "monti molto più piccoli che gli altri di Sicilia, le campagne piene di sassi; ma con tutto ciò assai fertili e grasse e molto erbose, onde i greggi e gli armenti hanno che pascere abbondantemente. È molto copioso di grano, di vino, di miele e di bestiame"; il Val Démone "è pieno di altissimi monti, di balze, di colli, continuati e procedenti l'un dopo l'altro, di grandissime selve e di fortissimi boschi, ed è di sito più alto e più elevato degli altri [Valli]. Onde avviene che è povero di frumento e di ogni altro genere di biade, ma molto abbondante d'olio" (Tommaso Fazello, 1560, deca I, X, 1, 2, 3).

 

E con monti altissimi e boschi fortissimi, i Nebrodi avevano una ricca fauna costituita pure di voraci animali. Proprio Federico, nel 1239, ingiunse al giustiziere di Messina di intervenire contro i lupi e le volpi, presenti "in maxima quantitate" nei monti sopra Milazzo ("in parco nostro Melatii") e causa prima della "distruzione" degli "animalia parvula" da caccia in quel luogo. Ordinò di spargere "polvere contra lupos" e di operare in modo "quod lupi et vulpes destruantur omnino et animalia parvula multiplicentur uberius ac devastari non possint" (Historia diplomatica, V, p. 450). E si occupava anche dell'allevamento dei suini in "forestis nostris" sui monti messinesi (ibid., p. 812).

 

Le più antiche e maggiori vie di comunicazione di impianto bizantino e romano, come quella che da Palermo conduceva fino a Messina inoltrandosi per i monti delle Madonie e dei Nebrodi, non scomparvero durante il Medioevo. Ma l'utilizzazione delle vie d'acqua, del cabotaggio in particolare, per più rapidi e sicuri collegamenti, riduceva di molto l'importanza delle antiche strade di collegamento. Tanto più a causa della loro difficile o impossibile utilizzazione per i collegamenti fra aree costiere e centri interni. Per questo, i secoli medievali erano tempo in Sicilia di maggiore impiego dei muli e dei bordonari che collegavano ogni luogo, andando per le "trazzere" nelle campagne o procedendo per i sentieri lungo i pendii dei valloni fra i monti. Peraltro, più degli interventi pubblici, che non mancavano ma erano frammentari e provocati da necessità contingenti, valevano gli interventi seppure circoscritti e interessati dei signori ecclesiastici.

Dall'età normanna e dalla fondazione o rifondazione dei vescovati il titolo di civitasera riservato nell'isola, come nella penisola, alle città dotate di vescovato. Erano tutte collegate dall'antico tracciato delle viae regiae o publicae. "Terre" abitate erano detti i centri urbani, molti dei quali murati come le città ed egualmente dotati di giurisdizione sugli insediamenti dipendenti, sui casali rurali (i rahal dei musulmani), situati nel territorio di cui ogni "terra" era dotata. V'erano casali di poche famiglie contadine; ma anche altri che costituivano il centro delle attività di veri e propri distretti agrari. Alcuni casali della Chiesa di Monreale (Corleone, Giato, Calatrasi, Battilaro) erano indicati come municipia per rilevarne l'importante posizione economico-amministrativa territoriale. Tuttavia non dovevano costituire una realtà singolare se già l'ignoto cronista della fine del sec. XII, il cosiddetto Falcando, aveva voluto distinguere fra quegli insediamenti rurali le "villae optimae quae Siculi casalia vocant" (La Historia, 1897, p. 112).

Fra i primi e più gravi effetti degli sconvolgimenti registrati dall'ultimo decennio del 1100 si segnalavano i guasti nelle campagne, impoverite di uomini, innanzitutto per l'abbandono di molti degli antichi villaggi rurali (i "casali") in cui si concentrava il mondo rurale e la forza di lavoro costituita dai cosiddetti "villani", gli uomini asserviti alla terra dai normanni conquistatori, i quali li donavano insieme alle terre alle chiese e ai monasteri di nuova o di rinnovata istituzione. Gli anni Sessanta del sec. XII e le aggressioni sanguinose inflitte, a cominciare dalla capitale Palermo, alla componente musulmana dai latini paiono segnare il punto di accelerazione della lotta per la nuova cristianizzazione dell'isola, ma anche per la preminenza sociale, economica, politica della componente latina sui saraceni. Infatti, le aggressioni ai musulmani che vivevano e lavoravano nei centri urbani quali esperti artigiani mescolati ai cristiani, corrispondevano alle aggressioni ai musulmani che vivevano e lavoravano aggregati quali rurali; come avveniva nell'area centrorientale dell'isola, ove i discendenti dei 'lombardi' stanziati dal tempo di Ruggero II accendevano una vera e propria caccia al musulmano, nei centri abitati come nelle campagne.

La fine della monarchia normanna segnò l'inizio di rivolgimenti che dovevano prolungarsi fino agli anni Venti del Duecento, fino a quando Federico II non fu in grado di restaurare il potere regio ricostruendo una macchina di governo rovinata da molti anni. Nell'isola, lontano ormai dagli antagonismi e dalle lotte fra latini e musulmani, egli doveva anche ricostituire un tessuto sociale logorato da tensioni e lacerazioni, scompaginato e disperso in lunghi anni di precarietà politica ed economica. A cavallo fra il sec. XII che si concludeva e il XIII che nasceva, la Sicilia fu al centro del confronto fra papato e Impero e, soprattutto, cadde in balia dei loro rappresentanti, decisi a trarre i maggiori vantaggi personali dalla distanza delle superiori potestà e dalla minorità di Federico, mentre la sovrapposizione dei poteri pareva assurta a condizione ordinaria di governo. Tuttavia nel 1209, quando non aveva ancora quindici anni, Federico manifestò chiaramente l'autorità che voleva rivendicare al proprio ufficio marciando, nella primavera di quell'anno, contro alcuni centri dell'area orientale dell'isola in sommovimento, da Nicosia a Catania a Messina, che seppe piegare e quietare (Riccardo di San Germano, 1936-1938, a. 1209).

 

Dalla fine del sec. XII, "propter guerram post mortem Guillelmi secundi et propter preteritam turbacionem", "per l'angustia dei tempi e la rapacità di quelli che dominano", crebbe lo spopolamento delle campagne e dei casali rurali, specie nell'area occidentale della regione. Da quello stesso momento maggiori e minori signori ecclesiastici ebbero da "rehedificare et construere casalia sua destructa", per riportarvi gli uomini e rinnovarvi lavoro e vita. Per converso, dagli ultimi decenni del sec. XII, alcuni casali che si fortificavano videro aumentare i propri habitatores(come si dicevano gli abitanti delle terre e dei casali, in contrapposizione ai civesdelle civitates), anche col favore di signori e proprietari, e avanzarono verso la condizione di terre abitate (come Bivona, Bisacquino, Giuliana, Pollina, Sinagra). Ma l'insufficienza del lavoro rurale era una condizione oggettiva di debolezza della proprietà per il calo delle colture estensive oltre a quelle selettive (come il cotone prodotto ancora nel pieno sec. XII). Più grave risultava la perdita di uomini e di lavoro per i signori ecclesiastici. Nelle terre della Chiesa di Monreale la fuga di villani apparve nel 1222 causa prima del calo demografico. Nelle terre della Chiesa di Cefalù, lamentavano poi gli stessi ecclesiastici, molti dei numerosi villani si disperdevano "per la negligenza dei prelati, per le sacrileghe usurpazioni dei potenti, per la mutazione di potere e per i discrimini delle guerre, acquistavano la libertà, alcuni si davano alla vita ecclesiastica, altri alla vita militare" (Peri, 1993, p. 80). Ma la Chiesa di Agrigento perse molti dei propri villani "propter bellum Saracenorum et propter amissionem villanorum", dei quali "Federico imperatore spogliava la Chiesa per trasferirli di forza in Puglia" (Collura, 1961, p. 154).

 

Anche per questo continuava ad attuarsi il programma di colonizzazione della regione agraria e, insieme, di nuova latinizzazione, di avanzata della componente latina, cioè cristiana, in confronto a quella islamica. Nella prima metà del Duecento, quando il sistema del villanaggio non era più conveniente e praticabile, si diffuse il sistema dell'enfiteusi, che prevedeva la concessione di un bene a lunga scadenza, almeno ventinove anni, dietro la corresponsione di un censo annuale basso ma necessario a conferma di una concessione e del diritto di proprietà innanzi a quello di possesso. La concessione enfiteutica permetteva di aggirare il divieto canonico di alienazione dei beni ecclesiastici.

 

Nell'estate 1221 iniziò la lotta contro i villani musulmani la cui ribellione, per Federico II, "regni nostri tranquillitatem perturbat". Essa costituiva un inaccettabile disconoscimento, oltre che un ostacolo al progetto di riequilibrio degli insediamenti nella regione agraria, nella quale l'occidentale Vallo di Mazara delle dure terre seminative era sempre più povero di uomini e di braccia da lavoro in confronto al Val di Noto. Nell'anno successivo Federico espugnò una prima volta l'arroccata Giato e catturò uno dei capi della ribellione. Nel 1224 inviò anche una spedizione contro Malta, da dove pare venissero sostegni ai musulmani di Sicilia. Ma quella prima campagna militare doveva continuare con diverse operazioni fino al 1225, fra difficoltà materiali d'azione in zone aspre o per i monti in cui i ribelli si rifugiavano (come Giato ed Entella) e molto dispendio di forze (Amari, 1933, p. 630). Federico attuò anche una spedizione contro le isole nordafricane dove i ribelli siciliani avevano collegamenti, mentre procedette al trasferimento fuori dall'isola di quanti musulmani riusciva a catturare. Nel 1224 trasferì a Lucera un primo contingente di più di quindicimila musulmani, compresi donne e bambini, costretti ad arrendersi per fame (Ignoti monachi Cisterciensis, 1888, a. 1224).

 

La repressione delle ribellioni doveva concludersi quando Federico era lontano dall'isola, nel 1246. Allora la presenza musulmana in Sicilia poté considerarsi sostanzialmente cancellata dopo tante perdite e dopo i confinamenti in Puglia. La lotta ai ribelli musulmani doveva dirigersi anche contro quanti "latini", insofferenti dei disagi che pativano, si erano uniti da tempo ai musulmani insieme ai quali si affacciavano minacciosi nei centri abitati dai primi del secolo e poi più numerosi scorazzavano per le campagne. Nel 1220 si lamentavano i crimini commessi da musulmani e cristiani nelle campagne dell'arcivescovato di Monreale (Historia diplomatica, I, p. 800). La paura delle aggressioni dei musulmani e dei cristiani bloccava il lavoro dei contadini nelle terre della Chiesa di Agrigento, ove "gli uomini della contrada non osavano uscire dalle 'terre' nelle quali abitavano per andare nei campi o nelle vigne, per paura dei saraceni e anche dei cristiani, né il vescovo di Agrigento o i suoi procuratori osavano andare per la diocesi" (Collura, 1961, p. 165). Di fatto, più difficile risultava la situazione nell'area occidentale della regione.

 

L'isola rimaneva terra aperta a quanti volessero trasferirsi, fossero segnalati esuli politici che passavano al servizio di Federico attendendo possibili rivincite in patria, o uomini alla ricerca di una migliore condizione di vita. Alla fine degli anni Trenta giunsero dalla penisola gli esuli che, "propter bellorum discrimina et oppressionem importunitatis quibus multipliciter gravabantur", abbandonavano i luoghi d'origine. Federico offrì loro di stanziarsi sulla costa tirrenica presso Castellammare del Golfo, a Scopello, che apparve loro troppo aspro, per cui furono condotti a Corleone, ove "nomine et causa hospitacionis" ricevettero in proprietà privata (burgensatica, come si diceva nell'isola) spazi edificabili e lotti di terra "pro suo labore" (Historia diplomatica, V, p. 138). Venivano "de partibus Lombardie", che, secondo la descrizione di al-Idrīsī, il geografo musulmano al servizio di re Ruggero II, comprendeva l'area della penisola che da Genova e dalla Liguria si estendeva fino a Torino, da un lato, e fino a Pavia, dall'altro lato.

Anche gli ebrei erano ben accolti, nonostante le norme restrittive ispirate nei loro confronti da ragioni politiche e ideologiche. Come avvenne nel 1221, quando le deliberazioni del IV concilio lateranense mossero Federico a imporre agli ebrei di segnalare pubblicamente la loro appartenenza applicando un segno distintivo sugli abiti ("ut in differentia vestium et gestorum a Christianis discernantur"). Ma nelle Costituzioni del 1231 non vi è più traccia della legge del 1221. Peraltro, gli ebrei, così come i musulmani isolani, fruivano come ogni suddito cristiano della tutela regia (la "defensa"), per la quale ogni offesa alla persona e al patrimonio privato era da considerare, e da punire, come delitto di lesa maestà (Die Konstitutionen, 1973, I, 18). Così, nel 1239, Federico si interessava direttamente a dare ospitalità agli ebrei che giungevano dall'Africa settentrionale, probabilmente da Gerba, e che sistemò a Palermo e in altri centri dell'isola (pare anche a Monte S. Giuliano, l'antica Erice). Federico voleva che i nuovi immigrati impiantassero nell'isola la coltivazione dell'henné e dell'indaco, necessari per la tintura delle stoffe ("alchanam et indacum et alia diversa semina que crescunt in Garbo nec sunt in partibus Sicilie adhuc visa crescere"; Historia diplomatica, V, p. 571). Di fatto nell'isola gli ebrei rappresentavano un elemento costitutivo del lavoro, in particolare di quello artigianale.

Ma numerosi restavano i centri urbani che accusavano la scarsità di abitatori e le conseguenze relative nella vita locale. Come si continuava a lamentare dai centri della Sicilia occidentale, ad esempio da Trapani (ibid., p. 668). Si deve notare che oggi, lontano dalle entusiastiche valutazioni ottocentesche, si calcola che la popolazione siciliana del tempo di Federico potesse toccare un tetto di 600.000 persone, e alla fine del Duecento potesse sommarne al massimo 850.000 (Peri, 1978, p. 158; Epstein, 1996, p. 52).

 

Le strategie di politica economica perseguite da Federico si possono cogliere anche dalla mappa dei centri abitati da lui fondati o rifondati (v. Città, Regno di Sicilia, nuove). Negli anni Trenta del secolo (la data di fondazione oscilla lungo tutto quel decennio) Federico fondò Augusta, che voleva promuovere "de bono in melius" trasferendovi nuovi abitatori da altri centri isolani (specie da Catania) e concedendo a quelli che vi si trasferivano lotti di terra "pro faciendis agricolturis, vineis, habitatibus, et opportunitatibus". Ma la crescita di Augusta doveva essere poi ostacolata dalla scarsità di abitatori e da difficoltà economiche. Sull'area della antica Gela fondò Eraclea (o Terranova), quasi a sbocco di un ampio e fertile entroterra (Historia diplomatica, V, pp. 632, 770). Nel novembre 1239, da Lodi, dispose la fondazione di un primo insediamento, una "habitatio ad opus nostrum tantum", "sopra la grande fonte" a Burgimilluso (poi Borgetto presso Menfi). Nello stesso tempo ordinava la fondazione di un casale fra Sciacca e Agrigento, sul fiume S. Stefano presso il mare, trasferendovi gli uomini dei casali di Arcudaci e di Andrano; e di un altro casale "apud Cunianum", fra Agrigento e Licata. Inoltre, assentiva alla richiesta degli uomini di Agrigento, Sciacca e Licata, che lamentavano l'ostilità dei "magistri forestarii" regi, e ordinava di permettere loro di raccogliere nei boschi demaniali il legno necessario per costruire gli aratri (ibid., p. 504).

 

A Federico si attribuisce una "Constitutio sive encyclica" recante una serie di norme per un nuovo, più funzionale, ordinamento delle masserie regie, nelle quali si concentravano gli uomini, si organizzavano i lavori agrari, l'allevamento, la lavorazione dei prodotti. Pare che Federico guardasse con particolare attenzione alle masserie della Puglia, nelle quali voleva promuovere un aumento della produzione assicurando soddisfacenti condizioni di vita ai lavoratori impiegati (ibid., IV, p. 213). Dopo di lui Manfredi fece compilare uno "Statutum massariarium" mirato alla più efficiente organizzazione del lavoro da parte dei "magistri massarii", della produzione e perfino della resa produttiva. Ma quegli "statuta" mirati a regolamentare ogni aspetto organizzativo e del lavoro, non costituiscono una testimonianza quanto invece un modello di programmazione del lavoro e della produzione in un Regno in cui agricoltura e allevamento costituivano il fondamento dell'economia e dovevano pertanto ricevere ogni attenzione. Sappiamo peraltro che la Curia regia trovava vantaggioso dare in affitto ("ad extalium") "ad certam pecunie quantitatem" proprie greggi e mandrie, principalmente a pecorai e ad allevatori musulmani (ibid., V, p. 504).

Diminuì la disponibilità di villani e di lavoro rurale e i proprietari fondiari si fecero meno esigenti nei confronti dei lavoratori dipendenti, che volevano conservare dopo esserseli procurati. I proprietari più attenti ai mutamenti del mondo del lavoro e decisi a salvaguardare il valore e la rendita dei beni fondiari erano pronti a sperimentare rapporti giuridico-economici con i conduttori, ai quali affidavano i fondi da recuperare alla coltura o da valorizzare con colture più selettive "ad partem", "ad medietatem", più spesso "ad quartum" del prodotto, dopo tre o cinque anni dalla concessione. Tramontava il villanaggio e la domanda di lavoro faceva emergere, anche nelle campagne interne, il lavoro salariato, che Federico II regolamentò d'imperio perché voleva tutelare i prestatori d'opera, ma anche per imporre a proprietari e datori di lavoro l'osservanza delle tariffe salariali (le méte). Infatti, in una delle Costituzioni del 1231 deliberava che ogni baiulo (la prima carica cittadina) in carica dovesse stabilire la "certa mercede" per il lavoro "degli operai, dei mietitori, dei vendemmiatori e simili" (Die Konstitutionen, 1973, III, 49).

 

La Chiesa, che teneva nell'isola il più grande patrimonio fondiario, era la prima e maggiore forza a sostegno della colonizzazione della regione agraria. Tanto più il suo sforzo si rendeva necessario dopo che, per gli sconvolgimenti registrati nel Regno dalla morte di re Gugliemo II (1189) e ancora durante la minorità di Federico II, la fuga dei villani faceva calare la disponibilità della forza di lavoro, oltre al livello demografico. Fra l'altro, nell'età normanna, già prima degli sconvolgimenti della fine del sec. XII e dell'abbandono dei casali, i signori ecclesiastici miravano ad attrarre nuovi coloni e a fermarli quali nuovi abitatori. Perciò, insieme ai lotti di terra "ad laborandum" essi offrivano anche la terra "pro domo aedificanda". Nel 1196 l'abate di S. Maria di Valle Giosafat concedeva ai nuovi coloni del casale di Mesepe (Paternò) "terram ad edificandas sibi domo set terram ad laborandum unicuique VII psalmatas" (Garufi, 1947). Questo faceva, ad esempio, ancora nel 1220, l'arcivescovo di Messina con i nuovi coloni attratti dalla Calabria che voleva stabilire nella campagne di Larderia (ibid.). Ancora alla fine della età sveva, alcuni nuovi abitatori di Corleone ottenevano in concessione dalla Curia regia dei lotti di terra "pro faciendis domibus".

 

Anche per questo doveva diffondersi il sistema delle concessioni di terra a censuatari: Federico favoriva la cessione dei terreni demaniali e ne regolamentava il sistema, in modo da poterlo incrementare. Nel 1244 ordinava di applicarlo per tutte le terre demaniali dell'isola, che voleva concesse "ad certum annuum redditum censualiter et perpetuo" (Acta Imperii inedita, I, p. 561). Ma dichiarava nulle (1247) le cessioni enfiteutiche di terra compresa in domini signorili, perché le giudicava in contrasto con "jus et proprietas feudi" (Sorrenti, 1984, p. 16). La cessione in enfiteusi era utilizzata soprattutto per bonificare ("ad pastinandum") o migliorare ("ad meliorandum") i terreni meno generosi, le sodaglie da dissodare (le cosiddette "xare" o "sciare").

 

Nel tempo di Federico all'enfiteusi facevano ricorso anche i titolari di domini signorili. Ma Federico annullò quelle concessioni, che giudicava in contrasto con i diritti di "jus et proprietas feudi", mentre autorizzò e sostenne i negozi "ad certam partem fructuum" (1247). La concessione enfiteutica con la possibilità di vendere poi il terreno (o la casa) a un nuovo enfiteuta, la concessione di terreni da bonificare o valorizzare e poi da spartire fra antico proprietario e conduttore, erano nuovi canali di avanzata della minore libera proprietà, dei beni cosiddetti burgensatici, e dell'avanzata della borghesia.

Si diffuse il sistema delle concessioni a censo e si diffusero anche le concessioni in gabella di terra, dapprima di appezzamenti ma poi anche di parti di feudi o di feudi interi o di casali di signori sia ecclesiastici che laici. In città come Messina, Palermo, Agrigento, titolari di queste maggiori gabelle erano milites titolari di minori feudi, abbienti professionisti, ufficiali cittadini, i quali investivano capitali e ingaggiavano dei "coloni" per il lavoro agrario (Peri, 1993, p. 73). Dagli anni Quaranta del Duecento si diffuse il negozio di gabella, prescelto dai proprietari di fondi rurali nel territorio urbano da migliorare "ad modicum tempus et ad certam partem fructuum", che i gabelloti dovevano corrispondere ai proprietari. Quei gabelloti erano per molta parte proprietari e conduttori diretti di vigneti e arboreti nel territorio urbano e pure braccianti che si ponevano al servizio salariato di terzi.

 

I vigneti si infittivano e ampliavano nelle campagne prossime ai centri abitati, nei quali il vino di basso tasso alcolico era la bevanda che sostituiva per molta parte l'acqua raccolta nei pozzi, poco gradevole e poco sicura. Perciò, la vigna era una coltura promossa dai maggiori e minori proprietari, dai grandi e abbienti nobili, i quali volevano dotare di una sempre fornita cantina l'hospicium cittadino, dagli abbienti borghesi imprenditori o professionisti, i quali investivano nella coltura della vite e pure nel commercio del vino nelle taverne di cui erano proprietari. E ancora, la vigna era coltura privilegiata dai minori proprietari che prestavano anche opera come salariati nelle vigne e nei fondi di altri proprietari. E questo chiarisce le ragioni per cui i vigneti si estendevano anche in terreni meno prossimi ai centri abitati e meno favorevoli alle colture, come accadeva nelle aree del territorio di Messina tagliato dalle aspre fiumare che scaricavano a valle le acque montane. Va pure detto che la produzione locale di vino non doveva corrispondere a una domanda interna generalizzata e non selettiva, se lo stesso Federico voleva poter bere anche lontano dall'isola il vino, evidentemente di qualità, "de galloppo" (Historia diplomatica, V, p. 683).

 

Anche per questa via cresceva il mercato della terra, dei beni burgensatici e della borghesia. Dagli anni Trenta del Duecento aumentò il ceto dei burgenses, dei 'borgesi' proprietari di beni allodiali, privati; erano anche prestatori d'opera, artigiani, piccoli commercianti. E cresceva con il lavoro e con il mercato dei prodotti agrari la domanda commerciale di prodotti e di manufatti. A metà del Duecento, a Polizzi, una delle terre abitate sulle Madonie, avviò la sua impresa commerciale un Giovanni Lombardo ‒ lombardo di origine, appunto ‒, il cui figlio Rinaldo proseguì e sviluppò l'attività commerciale accrescendo la rete di di-stribuzione delle merci di cui si forniva sulla piazza di Palermo. Nello stesso tempo, cresceva il suo patrimonio immobiliare nell'abitato e nelle campagne circostanti a Polizzi. La sua storia, più nota perché rilevata da una fortunata tradizione documentaria, lascia vedere gli spazi d'azione, dei collegamenti territoriali connessi a una rete mediterranea, in cui si muovevano diversi personaggi in una fase di transizione sociale ed economica, che si svolgeva nelle città come nelle terre abitate, ad opera di 'borgesi' di più o meno antica ascrizione siciliana.

 

La volontà di Federico di sostenere la funzionalità del mercato, oltre a quella dell'organizzazione del lavoro e della produzione, si rileva dagli interventi nei settori più diversi, apparentemente distanti, mirati a razionalizzare, anche a semplificare, il commercio e gli scambi di prodotti e manufatti, garantendo i traffici anche attraverso l'adozione di pesi e di misure che progettava di unificare, regolamentando il sistema impositivo diretto e indiretto, agevolando i commerci che controllava istituendo i fondaci, dove era obbligatorio depositare le merci in transito, sostenendo l'attività dei mercanti peninsulari, anche nei momenti di conflitto con Venezia e Genova, a condizione che essi non interferissero nei fatti della politica, confermando le franchigie concesse da Enrico VI a Messina nel 1197 e concedendo ai palermitani alcune esenzioni commerciali e libertà a Palermo stessa (De Vio, 1706, pp. 11 e 14). A Federico andrebbe attribuita l'istituzione dello "jus exiturae", l'imposta sulle merci in esportazione (Genuardi, 1906), e l'attribuzione, a dei "portulani", della riscossione dei diritti di dogana marittima.

 

Il controllo delle esportazioni, e quindi l'esazione del diritto di esportazione (lo "jus exiturae"), era regolato dal 1239 dal divieto d'imbarcare vettovaglie nei luoghi di costa più adatti e prossimi ai luoghi di produzione e dall'obbligo di esportare solo dai porti stabiliti dal sovrano. Per la Sicilia designò (1231) i porti di Palermo, Messina, che era dotata di quattro fondaci adibiti a uffici di dogana e a magazzini per i mercanti esteri, Siracusa, dotata di due fondaci, Maremorto (?), Licata, Sciacca, con un fondaco; dal 1239 la lista comprendeva i porti di Trapani e di Augusta (Historia diplomatica, V, p. 418).

 

Secondo l'ignoto monaco che compilò la cronaca di S. Maria di Ferraria (in Terra di Lavoro), nel 1224 Federico stabilì che nessuno potesse esportare vettovaglie, che pertanto si deprezzavano; aggiungeva il cronista che "solo Cesare acquistava a basso prezzo e vendeva più caro a chi voleva" (Ignoti monachi Cisterciensis, 1888, p. 38). Michele Amari diceva che Federico e il predecessore Ruggero II furono nel loro tempo i primi e più attivi mercanti del Regno (1933, p. 831). In anni recenti, meno polemicamente, si è rilevato che il mercato dei prodotti agrari era al centro degli interessi commerciali del sovrano. Certo è che Federico commerciava personalmente coi mercanti "exteri", pisani o genovesi, dopo che quelli, durante la sua minorità, avevano potuto operare con molta libertà e profitto sul mercato siciliano.

Nel 1189 i mercanti pisani avevano istituito un proprio consolato a Messina. Nel 1240 si registra una loro loggia e un loro fondaco a Trapani (Historia diplomatica, V, p. 648). A Trapani al tempo di Federico v'era un consolato dei genovesi (Trasselli, 1992, p. 64). Durante la sua minorità Pisa e Genova tentarono di trarre ogni vantaggio dalla situazione isolana e da quella dei rapporti fra Regno, papato e Impero. Per prima Pisa, la quale poteva contare sul sostegno di Marcovaldo di Annweiler, si insediò a Siracusa, che tenne come scalo utile alle proprie navi e di ostacolo alle attività di Genova. Pisa e Genova sostenevano la causa degli Svevi, ma combattevano ciascuna per il proprio vantaggio. Fra l'altro, al tempo di Enrico VI, almeno dal 1197, l'ufficio di ammiraglio di Sicilia era tenuto da un genovese, Guglielmo Grasso, primo di una serie di genovesi eletti ammiragli dai sovrani svevi. Infatti, a Grasso succedette Guglielmo Porco, almeno fino al 1221. Poi sarà la volta di Nicola Spinola (dal 1239) e di Ansaldo de Mari (dal 1241). Intanto, contro i pisani insediatisi a Siracusa mosse nel 1204 un intraprendente capitano di navi genovese, Alamanno de Costa, a capo di una flotta di navi genovesi che tornavano dal Levante. Cacciati i pisani, Alamanno de Costa assunse, e tenne per parecchi anni, il potere della città, della quale si proclamò conte in nome del re e di Genova, che lo proteggeva. Poi a Federico toccò di recuperare il controllo di una situazione per molti versi delicata per via dei rapporti sia con Pisa che con Genova (Schaube, 1915, p. 579). Di fatto, pisani e genovesi, fautori degli Svevi, continueranno a operare in Sicilia con il favore (e sotto il controllo) di Federico.

 

Federico rilasciava personalmente ai mercanti (ghibellini) genovesi e toscani (di Pisa, di Poggibonsi) le licenze di esportazione. Il grano era la prima e maggiore voce dei prodotti esportati dall'isola. Anche Federico esportava il grano della Curia nelle piazze mediterranee più vantaggiose. "In Barbaria vel in Yspania carius venditur", concordava con il responsabile dei porti siciliani, il maestro portulano (Historia diplomatica, V, p. 632). La Curia regia poteva contare sulla disponibilità del grano prodotto nelle masserie a gestione diretta, sulla quota del prodotto (1/12 dal 1231) che i conduttori delle campagne demaniali dovevano corrispondere alla Curia e depositare nei magazzini regi (gli "[h]orrea"). Per fare solo un esempio, nella primavera 1240 Federico fece imbarcare dall'ammiraglio del Regno, il genovese Nicola Spinola, in una sola volta ben 50.000 salme (più di 14 tonnellate) di grano da vendere a Tunisi, per ricavarne un sicuro e grosso profitto alla Corona (ibid., p. 793; Schaube, 1915, p. 615). Infatti la Tunisia, sempre bisognosa di approvvigionamenti, rimaneva paese e piazza di maggiori profitti per i mercanti italiani, i genovesi sopra tutti, che fornivano dietro pagamento anticipato il grano caricato in Sicilia.

 

Particolare attenzione Federico dedicava anche al mercato dei prodotti dell'allevamento, del sale, della seta greggia, e all'industria della tintura dei panni (Riccardo di San Germano, 1936-1938, a. 1231). Naturalmente si preoccupava di controllare lo scambio di prodotti e materiali di valore militare, come il ferro e il legno. Creò a Messina una fabbrica d'armi per la produzione di corazze e l'affidò alla conduzione di alcuni armaioli pisani (Historia diplomatica, V, p. 722, a. 1240).

Il sistema d'imposizione diretta ruotava sul cardine delle collette. La riscossione delle collette era affidata ai giustizieri, i quali dirigevano il lavoro degli esattori. Dal 1229, quando rientrò dalla Terrasanta, Federico rese ordinaria e quasi annuale la colletta, prevista quale imposta richiesta per ragioni straordinarie, quali il finanziamento dell'esercito per la difesa del Regno. Il cronista Riccardo di San Germano ne rilevò più volte il peso negativo, per "la consueta nequizia degli impositori e dei collettori", come si segnalava in un atto ufficiale del 1241 (Peri, 1978, p. 157). Di fatto, fisco e guerra procedevano parallelamente.

 

Nel 1231, oltre a imporre e a riscuotere una colletta, intervenne in campo amministrativo ancora per accentrare, ma anche per razionalizzare, i commerci interni e il mercato nel Regno. Fra l'altro riordinò il sistema fiscale doganale e dei fondaci per le importazioni, e quello dei pesi e delle misure per il commercio interno nel Regno. Diede nuovo ordinamento ai cambi e alla circolazione monetaria e fece coniare nelle zecche di Brindisi e Messina le nuove monete d'oro dette augustali (Riccardo di San Germano, 1936-1938, a. 1231). Nel 1235 la colletta diveniva un'imposta diretta ordinaria.

La scala sociale regolata in funzione giudiziaria dalla legislazione di Federico collocava i 'borgesi' dopo i milites, e i 'rustici' dopo i 'borgesi' (Die Konstitutionen, 1973, I, 32, 101; II, 3, 32). La loro avanzata in seno alle comunità urbane procedette parallela alla crescita del ceto dei professionisti del diritto, dei giurisperiti e dei notai. Il loro spazio costituì il terreno di coltura in cui maturò il ceto dirigente cittadino, capace di rappresentare sia la comunità sia gli interessi delle forze emergenti nella geografia socio-politica locale. Quello stesso ceto dirigente cittadino, va notato, forniva alla burocrazia regia non pochi ufficiali investiti dal sovrano di maggiori cariche e responsabilità. Basti citare Riccardo da Lentini, il più noto architetto regio, Leonardo de Aldigerio, influente personaggio pubblico a Messina e ufficiale regio, gli Abbate di Trapani, i de Calvellis attivi a Palermo, per citare solo alcuni personaggi di rilievo a livello locale ed eletti da Federico a più alte funzioni politiche.

 

Il loro reclutamento, come quello di tanti altri più noti collaboratori del sovrano, iniziò dal 1220, quando, dopo circa trent'anni di sommovimenti, Federico ebbe necessità di porre il Regno meridionale al riparo da ogni pericolo esterno e da ogni resistenza interna, di assicurare alla propria autorità un apparato di potere sicuro ed efficiente, costituito da funzionari "idonei, sufficientes et habiles" eletti fra i sudditi di antica o di nuova iscrizione, laici o ecclesiastici, quale che ne fosse l'origine o la condizione, investendoli di responsabilità commisurate alle loro qualità personali e alla loro fedeltà e sottoponendoli alla propria diretta dipendenza. La fedeltà costituiva il fondamento immancabile del servizio e della dignità dell'eletto, quale che ne fosse l'origine e lo stato sociale.

 

Per questa via passava pure la restaurazione del diritto, cioè l'applicazione degli ordinamenti regi; a partire dall'ordine pubblico, il cui controllo era affidato alla responsabilità di ufficiali direttamente dipendenti dal sovrano. Anche Federico, si sa, come tanti altri monarchi, dettava ai sudditi precise norme di comportamento dirette alla salvaguardia della pubblica morale oltre che dell'ordine sociale, e pertanto accompagnate dalla comminazione di pene ai rei. Si considerino, ad esempio, le norme deliberate nel 1221, in una Curia generale riunita a Messina, contro i giocatori di dadi, i blasfemi, le prostitute, i giullari, gli ebrei, a salvaguardia dell'ordine pubblico e della morale pubblica (Riccardo di San Germano, 1936-1938, a. 1221). Nel 1231 Federico rinnovò quelle restrizioni contro i giocatori d'azzardo, contro i giocatori di dadi, contro quelli che eleggevano le taverne a proprio ambiente naturale e prescrisse la revoca dalla carica dei pubblici professionisti (giudici, avvocati, notai) dediti all'azzardo, e l'inattendibilità delle testimonianze rilasciate da cavalieri (Die Konstitutionen, 1973, III, 90).

Gli statuti pubblicati nel settembre 1222 prevedevano "in singulis locis" l'autorità di quattro o sei ufficiali superiori locali, detti "giurati" perché giuravano sui Vangeli di assolvere con fedeltà le loro mansioni (Riccardo di San Germano, 1936-1938, a. 1222). A Palermo, giurati erano i cosiddetti 'maestri di piazza' o 'acatapani' (con termine di derivazione bizantina), deputati al controllo delle tariffe e dei prezzi annonari ("magisteri platee sive acatapani Panhormi, statuti super assisis rerum venalium"). Una delle Costituzioni del 1231 assegnava tale funzione in ogni centro urbano a due baiuli.

 

Intanto, nella Curia convocata a Capua nel 1220, Federico aveva legiferato per frenare le tendenze all'autonomia comunale. Aveva stabilito che i baiuli cittadini dovessero essere nominati dai camerari regi (Riccardo di San Germano, 1936-1938, a. 1220). Poi, una delle Costituzioni emanate nel 1231 era diretta contro la 'illecita usurpazione' invalsa 'in alcuni luoghi del nostro regno', dove si creavano "consules seu rectores" senza l'approvazione di Federico, che diffidava tutti a non attribuirsi un qualche ufficio o una qualche giurisdizione "ex collectione aut electione populi", usurpando poteri e mandato regi. Chiunque si fosse arrogato uno degli uffici stabiliti dal sovrano ad amministrare "iura Nostra quam fidelium Nostrorum" nel Regno (maestri giustizieri, giustizieri, camerari, baiuli e giudici) "capite puniri censemus". Le universitates che avessero osato ordinare ufficiali avrebbero patito una "desolazione perpetua" e gli abitanti sarebbero stati ridotti allo stato di servi ("angarii") (Die Konstitutionen, 1973, I, 50).

 

Quelle 'usurpazioni' rivelano le aspirazioni avanzate da comunità urbane in fase di crescita socio-economica. Una crescita segnalata anche dall'evoluzione degli ordinamenti pubblici dei centri demaniali, corrispondente all'evoluzione della realtà urbana. Si consideri la domanda di rafforzamento delle strutture pubbliche, dell'apparato amministrativo locale, di ampliamento dei servizi necessari alla vita di relazione sociale. Servizi e ruoli attribuivano influenza e prestigio che si volevano mantenere trasmettendo ereditariamente le funzioni esercitate. Così si costituivano le prime dinastie di pubblici ufficiali, dei giudici cittadini. Fra l'altro, va notato, la loro presenza e partecipazione era necessaria per dare forza giuridica agli atti privati rogati dai notai. A loro volta i notai crescevano di numero e di importanza per il ruolo che assolvevano anche nell'amministrazione locale, nella vita pubblica oltre a quella sociale nelle comunità, nelle città così come nelle "terre" abitate. Pertanto, non a caso si segnalava, oltre a una quasi completa laicizzazione, un accresciuto numero di dinastie professionali. I documenti conservati nei cosiddetti 'tabulari' delle chiese e dei monasteri dell'isola attestano largamente lo svolgimento di tali processi sociali e culturali, a Palermo come a Messina, a Cefalù come a Catania, a Corleone come a Polizzi, e così via per quanti documenti si conservano.

Una delle Costituzioni del 1231 era dedicata agli ufficiali municipali (i giudici) e ai notai pubblici nei centri urbani demaniali. Federico ne stabiliva il numero e la condizione di sudditi regi, così che dipendessero solo dalla Corona e fossero liberi da qualsiasi soggezione a ogni altra persona laica o ecclesiastica. La riserva alla Curia regia della loro nomina, previo esame delle loro cognizioni giuridiche, del diritto consuetudinario e di quello codificato, chiarisce la volontà di disciplinare e orientare il ceto dei professionisti del diritto, che costituivano la prima e maggiore fonte di reclutamento degli ufficiali locali, e di regolamentare la crescita del ceto notarile (Die Konstitutionen, 1973, I, 79). Varrà ricordare gli sforzi, vani, operati nei primi anni del regno di Guglielmo II da governanti, quali il cancelliere Stefano di Perche, contro il nutrito gruppo dei privilegiati notai di corte il cui potere burocratico condizionava il potere politico.

Nel 1232, a Messina, scoppiò la rivolta contro Riccardo di Montenegro, nominato da Federico giustiziere in Sicilia, che i messinesi accusavano di agire "contro la loro libertà" ("contra eorum facere libertatem"), costituita dalle esenzioni e dalle immunità regie vantate dalla città; ma il cronista catalogava la rivolta come "seditio contra Imperatorem" (Riccardo di San Germano, 1936-1938, a. 1232). In quello stesso 1232 si registravano le sollevazioni di Siracusa e Nicosia; quindi altre a Troina, Montalbano, Centorbi (Centuripe), Capizzi. Federico le represse duramente, distrusse gli abitati, ne scacciò i ribelli; trasferì di forza gli uomini di Centuripe e Capizzi a Palermo (1233). Ancora, nel 1233 Federico entrò in Messina, ove catturò un Martino Bellone, che aveva capeggiato la sedizione popolare, e i suoi complici. Ne fece impiccare alcuni e altri bruciare (ibid., a. 1233). Le rivolte cittadine parevano offrire un'ulteriore motivazione al programma federiciano di controllo del territorio, e delle comunità, e del cosiddetto ordine pubblico nelle città, in forza di idonee strutture. Riccardo da Lentini era l'ufficiale preposto alla costruzione degli edifici regi. Federico gli affidò la fortificazione di Siracusa, Caltagirone, Milazzo, la costruzione del castello di Augusta. Nel 1239 iniziò la costruzione del castello Ursino a Catania, anche con il sostegno finanziario della comunità cittadina, la quale allora si sottraeva alla su-bordinazione vassallatica al vescovo.

 

Quelle tensioni e rivolte appaiono in buona misura motivare l'ordine perentorio, impartito da Capua nel 1220, con cui imponeva che "omnia castra, munitiones, muri et fossata, que ab obitu regis Guillelmi usque ad hec tempora de novo sunt facta in illis terris et locis que non sunt in manus nostras […] funditus diruantur et in illum statum redeant quo […] consueverunt" (ibid., a. 1220), e negli anni Trenta si impegnò in un vasto programma di nuova costruzione o di riadattamento di strutture fortificate, tutte all'interno dei circuiti urbani di centri quali Catania, Messina, Siracusa, Lentini, Milazzo (Maurici, 1997).

Un effetto di quelle sollevazioni parrebbe la deliberazione con la quale Federico negò nel 1233 agli stranieri e agli immigrati la possibilità di contrarre unioni familiari miste, per evitare, diceva, che la commistione di popoli diversi e l'innesto di costumi stranieri incrinasse la virtù degli uomini e accrescesse la malvagità dei tempi (Die Konstitutionen, 1973, III, 23). Risulta chiaro che Federico voleva soprattutto evitare e tenere fuori dal Regno ogni eventuale confronto fra esperienze politico-culturali diverse. Perciò non può considerarsi contraddittoria la successiva deliberazione del 1240, con la quale egli concedeva la possibilità di contrarre matrimonio con fanciulle regnicole a forestieri, a condizione che essi risultassero fedeli e costumati e che dimorassero nel Regno da almeno dieci anni ‒ noi diremmo integrati (Historia diplomatica, V, p. 772). Tuttavia le preoccupazioni di Federico non appaiono tutte infondate alla luce delle successive rivolte cittadine degli anni Cinquanta.

 

Infatti, morto Federico, mentre si estendevano le lotte (le "perturbationes") per la successione, alcune comunità disconoscevano sia l'autorità di Manfredi che di Pietro Ruffo, il quale tentò di stabilire un potere personale nell'isola. Più decisa era la volontà autonomistica che si manifestò a Messina, ove si promosse al governo cittadino, quale 'capitano', un personaggio di spicco, Leonardo de Aldigerio, che era stato membro del governo locale, quale 'giudice' della corte stratigoziale di Messina (nel 1225), poi vicesecreto nella Sicilia orientale e maestro camerario in Calabria (nel 1248-1249). Fu catturato e imprigionato da Pietro Ruffo (nel 1252) e liberato dagli insorti (nel 1254). Messina si schierò dapprima "timore exercitus" con Manfredi, contro cui tuttavia insorse improvvisamente. In città fu nominato un podestà (il romano Iacopo da Ponte), segnalato nel 1255, quando, secondo un cronista contemporaneo, si voleva promuovere un governo comunale "more Civitatum Longobardie et Tuscie". Nel gennaio dello stesso 1255 insorgevano Patti, incitata dal vescovo, Caltagirone, Enna, Nicosia; poi anche Piazza, Aidone e ancora Enna.

 

Quei fatti rilevano l'entità dei processi che si sviluppavano dal tempo di Federico, quando, fuori ormai dalle esplosioni di intolleranza, la componente latina poteva radicare in ogni comunità uno stabile e forte assetto sociale. Consumato il tempo dei conflitti fra latini e musulmani, sopite le gare di supremazia fra i generali tedeschi, la restaurazione della monarchia e delle strutture di governo del Regno passava anche attraverso la valorizzazione delle élites dirigenti locali, selezionate con il metro della fedeltà da Federico, il quale, fuori dai rigidi perimetri sociali, trasferì sul piano politico l'antagonismo fra gli scampati musulmani che avevano adottato l'"italicum idioma" (Historia diplomatica, IV, p. 457, a. 1233) e i prevalenti latini, privilegiati interlocutori del sovrano, ai quali si aprivano più larghi spazi di azione. Così essi poterono fondare la media e minore borghesia commerciale, artigianale, dei medi e minori proprietari di beni fondiari e urbani privati (i "burgensatica"); dei proprietari che erano anche affittuari di fondi di enti ecclesiastici, oppure prestatori d'opera quali salariati. La loro avanzata definiva i nuovi quadri e i livelli sociali, ne articolava i rapporti. Inoltre segnava la fine della latinizzazione dell'isola, la quale si ritrovava di-slocata sulla frontiera dell'Occidente cristiano innanzi al mondo islamico.

 

 

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