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COMMENTARIO

Recensioni di testi letterari

di Pippo Nasca

I SEGNI DEL TEMPO

Collana di Saggistica

 

Pipo Nasca

Commentario

Edizione 2023 © Associazione Akkuaria

Via Dalmazia 6 – 95127 Catania – cell. 3394001417

www.akkuarialibri.com – info@akkuarialibri.com

ISBN

1a Edizione Luglio 2023

 

 

 

 

COMMENTARIO

di

Pippo Nasca

 

Recensioni di testi letterari

Edizioni Akkuaria

 

 

Il commentario di Pippo Nasca altro non è che una raccolta

di giudizi letterari che lo stesso ha durante il suo spigolare tra i

libri degli Autori di Akkuaria e di Autori che hanno partecipato

ai premi letterari promossi da Akkuaria per la sezione editi. Un

insieme di pensieri che hanno occupato di volta in volta la sua

mente, ma il suo non è un lavoro di poco conto poiché si è

occupato di autori emergenti e anche di personaggi notissimi

che nulla aggiungono al sapere universale.

 

 

IN LETTURA VERSO IL MIO MONDO

 

Prefazione di

Grazia Maria Scardaci

 

“I “chiunque” erano i giovani come me, senza ancora arte

né parte, studenti squattrinati che a gruppi di dieci o dodici

riuscivano a mettere insieme la cifra occorrente per l’affitto

stagionale di una cabina”

Immersa in una solitaria lettura incontro il mio mondo, la

mia città nel senso e nel verso perduto.

Fra immagini sovrapposte e rapide pennellate si muove

Giuseppe Nasca con precisione e talento, descrive per

immagini le sue intrappolate impressioni in ricordi nitidi e

interessanti passaggi e vive le estati dei poveri con le attese

dell’ascensore sociale, condizione di speranza e di cambiamento

possibile, atteso, proponibile.

Autore prolifico e vario, esplora la condizione di latenza

della sicilianità nei territori storici, mitici, epocali, definendone

i tratti autentici della sintesi che noi tutti, oggi, rappresentiamo.

L’aggancio narrativo è sapientemente orientato alla consapevolezza

di dare comprensione esatta e totale del testo, parla

esattamente al lettore ideale in chiave formativa e culturalmente

adeguata.

Parla al lettore perché esso stesso è un lettore.

Vive il mito e la vicenda prima di trasporla, così il Monte

Mojo diviene visivo e Angelina e Alfieddu respirano da morti

nelle nostre pagine.

Un talento straordinario speso con gentilezza e competenza

investendo, in politematica contemplazione, il mito attraverso

la nostra pelle.

 

Un lettore riconosce sempre la scrittura di un altro lettore,

ne diventa complice e supplice, autorizza il lettore-scrittore a

parlargli con il trasporto della sua stessa capacità narrativa.

Giuseppe Nasca, un lettore abilissimo e talentuoso, sussurro

di una letteratura mondiale che, dalle “vene ingrossate della

mano” del trascrittore narrativo si fregia e arricchisce la sua

stessa arte.

Una vita ad alta velocità fra l’impiego alle Ferrovie di Stato,

la dote costruttiva dell’arte narrativa e un cammino poetico

immenso, vitale, assertivo di un mondo interiore ricco e

generoso in interdipendenza “We'll never leave each other!”.

Plastica la fantasia che l’ha mosso in molti scritti fino ad

immaginarsi trapassato ma presente in Cronaca di un

trapasso, una sorta di Mattia Pascal deceduto sul serio e

“affacciato” sull’uscio dell’Eterno a spettegolare sulle presenze

o assenze al funesto rito.

Ironica scommessa con il mondo dei viventi fra vite e

dimensioni integrali e “Cavaleri di nenti” che ricalcano un

esperimento filmografico, successivo al testo, di grandissimo

successo in Amabili resti di Peter Jackson su reinterpretazione

del libro The lovely bones di Alice Sebold.

Monumentale chiave scientificamente distica: «A quanto

pare, sono morto, anche se mi sento vivo e vegeto» la

confusione degli stati di coscienza, l’idea dei poltergeist

pluridimensionali che un solo lettore, che è anche uno scrittore,

può serenamente generare.

Giuseppe nelle pause formative ha trovato casa, elaborando

un dominio controllato della condizione letteraria primaria,

ascrive all’attesa il momento della creazione mediata, incredibilmente

ricco il suo cammino, assolutamente unica la sua

presenza fra le reti culturali della nostra città, dei territori

culturali che viviamo accresciuti grazie al suo intatto desiderio

di donarsi.

 

“Finalmente il treno riprese la corsa” direbbe il mio caro

Zavattini ma, a mio dire, credo che la corsa non sia mai

terminata per Giuseppe Nasca, la sua immersione fra il bello e

il narrato è divenuto solido emblema della sua cifra stilistica.

In Yoshe Kalb di Israel J. Singer si chiede a Yoshe “Chi

sei?” e lui risoluto risponde “Sono una pietra”, un passaggio

che ha reso partecipe il lettore parte dello scritto,

immortalandone i significati nei significanti.

Una creazione letteraria dello scrittore Singer al processo

adattativo innescato nel lettore, cercando le domande per avere

risposte.

Nell’intelligente creazione di Giuseppe Nasca vedo la

domanda che risolve l’enigma del lettore, consapevolezza

autentica e compartecipazione all’idea creativa.

Giuseppe crea, racconta, ipotizza con i catanesi la nostra

stessa catanesità.

Leggetelo per coglierne le risposte.

Buona Lettura!

 

Grazia Maria Scardaci

 

 

 

 

COMMENTI ALLE OPERE

DI VERA AMBRA

 

 

 

LA POLVERE E IL VENTO

 

Quando si parla di vicende amorose, la nostra mente rievoca

in maniera assoluta i grandi drammi d’amore senza fine e la

nostra fantasia si colora di fantasmi talvolta diafani, talvolta

profondamente erotici, di personaggi che poeti, scrittori e artisti

di tutti i tempi hanno saputo creare.

Ed è così che le figure di Beatrice, di dantesca memoria, e

quella di Laura, amata dal Petrarca o di Fiammetta, amante del

Boccaccio, prendono consistenza della nostra fantasia insieme

alle vicende rosa più recenti di Liala o delle nostre canzoni

sentimentalmente struggenti oppure dei grandi drammi del

passato in cui nemmeno la morte riesce a sedare l’intimo ed

eterno contatto tra due esseri innamorati.

Tutto questo non emerge nelle poesie di questo volumetto di

Vera Ambra, dove prendono consistenza quelle improvvise

vicende amorose, vissute intensamente nello spazio del loro

realizzarsi e che rimangono nascoste, anzi dimenticate, sotto la

coltre della polvere accumulata dal vento della vita.

Queste vicende sono delle vere meteore che l’infinito

accoglie nel loro intimo profondo e ricordare la loro luce

eclatante non manifesta nostalgia, ma profuso godimento

contemplativo di gioie vissute senza remore, senza rimpianti e

senza speranze del loro ripetersi e che restano, comunque,

perennemente presenti.

È la descrizione dell’amore “mordi e fuggi”, da lasciare

sopito nell’animo e da farlo apparire a tratti per gli attimi di

piacere intensamente vissuti in un alone d’atarassia completa.

Ed è così che Non c’è nulla del mio passato che non sia

presente, oppure che Le tempeste passano Poi ritorna il sereno

poiché La Voce di mondi lontani sono labbra di melodia e

l’amore è quello del “Marinaio dei Venti”… mentre Con le

briciole di noia mi sazio al profumo delle arance e aspetto che

la poesia mi rivesta il cuore.

Immagini, queste, che è possibile riscontrare nel libro,

insieme ad altre, che rilevano metaforicamente il valore di

esperienze avvenute quasi per caso e che restano comunque

piacevolmente presenti nel ricordo, sotto la coltre della polvere

rimossa dal vento.

Lo stile è sempre quello ispirato all’ermetismo poetico,

privo di punteggiatura, che illustra immagini evocative ampiamente

significative, nonostante le astrazioni metafisiche che in

ogni caso non debordano nel concettoso e anzi arricchiscono i

versi di fantasia allegorica.

 

 

 

 

PUDORE

 

 

Dopo aver letto le poesie di questo libro di Vera Ambra,

stupito, incerto e perplesso, mi sono chiesto se avessi finito di

leggere un trattato di filosofia esternata in versi oppure un

diario poetico con contenuti ermetici di non facile comprensione.

Questo perché la quasi totalità delle immagini, costruite con

ricercatezza, mi hanno sottoposto a profonde riflessioni ricche

di risvolti psicologici che, talvolta, mi hanno fatto smarrire

l’orientamento di valutazione.

È stato spontaneo chiedermi se tutte queste poesie, tutte

queste immagini evocate, tutte queste parole ricercate avessero

tra di loro un nesso logico e una finalità conclusiva.

Apparentemente mi sembrava che tale legame non esistesse,

in quanto ogni singola poesia può benissimo esistere da sola e

non è collegata a quella precedente né a quella successiva, ma

esaminando la tonalità di ognuna di esse ho scoperto il filo

conduttore che le lega.

Non si tratta, dunque, di una raccolta antologica di poesie

ma di un vero racconto esternato con poesie di diversa tonalità

di immagini ed esattamente di un diario, di un lungo tratto della

vita dell’autrice in un crescendo di emozioni ottenute con l’aiuto

di descrizioni poetiche e fantastiche apparentemente non

pertinenti ma esemplificative.

Un vero diario, dunque, che annota e descrive degli stati

d’animo e delle emozioni di una donna dall’inizio della sua vita

sentimentale alla maturità attraverso le singole vicissitudini di

una vita.

Ed ecco che si passa dal sentimento, che è accompagnato

dal pudore, del passaggio dallo stato di bambina a quello di

adolescente, della scoperta del desiderio dell’amore, della

felicità coniugale, dell’affetto per i figli, della delusione, dell’abbandono

e della ritrovata forza per superare ogni negatività.

Così ogni singola poesia diventa un piccolo tratto di sensazione

nuova, un pezzetto di esperienza emotiva, un fiocco di

quel nastro annodato che è la vita e il tutto descritto attraverso

immagini talvolta ermetiche che, però, hanno la tonalità adeguata,

come le note emesse da uno strumento musicale

“Alzati ragazzina e vesti la strada con abiti d’amore”

“ … mi nutristi di silenzi

spogliati di parole”

“… è traccia di pensiero

l’inesplorata curva

del pudore”

“e brividi di paura

bussano al grembo”

“possedere e perdere

schiava e padrona

seducendo l’innocenza

con l’ardita carezza”

“… un ago di veleno

rientra e colpisce”

“… alito di vento

spirato di mare

sul braccio di noia …”

“I cimeli della ragione scelsero per me la via …”

“Respirerò il profumo dei fiori anche di carta

… respirerò il profumo della mia fantasia”.

La conclusione del libro con l’ultimo verso dell’ultima

poesia che cita il profumo della fantasia, mi richiama alla

memoria il cogito ergo sum di Cartesio, dove al “pensare” si

sostituisce il “poetare con fantasia”. Come dire: “esercito la

fantasia poetica, dunque esisto”. Poiché, infine, questo mi

sembra il messaggio di tutta l’opera, cioè il trionfare della vita

e del desiderio di viverla facendo ricorso alla fantasia poetica,

nonostante le avversità nefaste incontrate.

Questo messaggio, silenziosamente emergente, dà il senso

di universalità a quello che potrebbe considerarsi una esperienza

personale raccontata in versi, i quali, proprio per questo

motivo, hanno un sapore d’ubiquità comune a tutte le donne

È questa, a mio avviso, un’opera poetica diversa e più incisiva

delle altre della stessa autrice, proprio per questa indagine

psicologica che la porta non solo a esercitare la sbrigliata

fantasia di sempre, ma a formulare una teoria basata sul

superamento delle delusioni e valida per tutte le donne, che

vengono così esortate a non subire le angherie dell’altro sesso e

a reagire attingendo in se stesse gli elementi di difesa.

Per tutto quanto ho considerato, infine, ho sciolto ogni mio

dubbio e incertezza: il PUDORE di Vera Ambra è un’estrinsecazione

poetica dell’eroismo della figura femminile esaminata

in ogni suo aspetto della vita e un invito alle altre donne di

imitarla nel superare le varie difficoltà esistenziali nei rapporti

con l’altro sesso, compreso lo stesso pudore che occhieggia in

ogni sua azione.

 

 

 

 

 

DIGNITÀ CALPESTATA

 

 

Il tema di questo monologo poetico di Vera Ambra, è quello

della violenza nei confronti delle donne. Ma non bastava all’autrice

descrivere la violenza fisica che, anzi, viene del tutto

ignorata, essendo continuamente offerta sotto i nostri occhi a

tutte le ore dalla TV. A Lei necessitava evidenziare la violenza

morale, di cui i nostri mass-media nemmeno si preoccupano di

evidenziare, a cui viene sottoposta la donna, nostante la vittoria

giuridica sulla cruda realtà della violenza.

A Lei non basta che venga evidenziata e punita la violenza

fisica nei confronti di un essere da difendere e amare, ma

necessità evidenziare un altro tipo di violenza morale di cui

nostri mass-media non parlano e che è del tutto ignorata.

In questo monologo poetico di Vera Ambra, dove il gusto

della vittoria della libertà, viene irrorato con il veleno accumulato

in secoli di avvilimento morale, emerge in modo molto

drammatico la realtà della condizione in cui si è venuta a

trovare la donna nel secolo scorso.

Ella, la donna, ha finalmente vinto la sua battaglia, che è

quella della parità di diritti nei confronti degli uomini, è

riuscita a far condannare chi di lei ha abusato, a ottenere la

separazione legale, il divorzio, il prorio ripudio, ma sente

improvvisamente attorno a sé il vuoto creato in una situazione

non prevista o sufficientemente valutata e che colpisce principalmente

i suoi sentimenti di madre e di donna.

Ella è riuscita, qualunque possa essere stata la causa della

fine del rapporto matrimoniale, ad affermare la sua personalità

di donna, dei suoi diritti alla scelta di vita più confacente al suo

nuovo modo di pensare, ma, nello stesso tempo, prova l’amarezza

scomoda della posizione raggiunta, quella di donna

“separata”, obesa dalla incombenza di tirare su l’educazione

dei figli frutto di quel rapporto andato a male e dal modo di

pensare ancora vigente intorno a sé.

Ella è finalmente libera da una schiavitù non desiderata e

forse diversamente sognata, ma è scivolata nella posizione di

“donna separata”, da tenere a debita distanza dalle amiche per

tema di essere cornificate, da diventare oggetto di mire non

certo fraterne da parte di altri uomini sempre pronti a cogliere

l’occasione per un’avventura ritenuta facile.

È la classica vittoria di Pirro da millantare, ma da lasciare la

bocca amara per il veleno che ha suscitato intorno.

Non era certo una posizione aurea quella di separata con tre

bocche anche da sfamare nello scorso secolo.

Forse non lo è ancora anche in questo secolo.

La dura realtà da affrontare non è tanto l’essere restata sola,

la delusione per un rapporto diversamente concepito, le

difficoltà spuntate ad ogni angolo della via, ma il senso di

vuoto che si è venuto a creare intorno, il silenzio che ti opprime

e che non riesce a tacere nonostante i tentativi per superarlo.

Ecco che accanto alla violenza fisica contro le donne, fa

capolino, trionfante, la violenza morale, quella dall’abbandono,

dall’annientamento dei propri sentimenti, che non possono

essere cancellati nemmeno dai ricordi più belli e più intimi.

Da questa attenta analisi del monologo poetico, emerge

chiaramente il bisogno che non è solamente da vincere e da

eliminare la violenza fisica, che riesce a essere evidenziata

attraverso i mass-media, ma anche e sopratutto quella morale

della donna “separata”, che silenziosamente avvince e distrugge

la personalità della donna che viene a trovarsi in tale

situazione.

Il monologo, anche se poeticamente trattato dalla sapiente

penna di Vera, riesce ad esprimere in maniera cruda e reale

questo tipo di violenza morale che la donna subisce in maniera

silente, ma gravemente lesiva.

 

 

 

 

AL GIUNGERE DELLA NAVE

 

 

Ed è così che leggendo questo libro, omaggio a Kahlil

Gibran, ho scoperto la predisposizione all’indagine filosofica di

Vera Ambra!

Una sorpresa veramente, anche se emerge dallo scritto la

tendenza all’esposizione poetica dei concetti, che scendono in

profondità nei meandri del ragionamento.

Sostanzialmente l’argomento del libro è quello di esporre il

pensiero di Kahlil Gibran, oscillante tra la cultura della

religione Bahà-i, d’origine araba, e la controcultura americana

della New Age.

Prima di affrontare la varietà dei temi affrontati, è bene,

conoscere chi fosse Gibran e cosa fosse la religione Baha-i,

nonché la new age.

Khalil Gibran, è il nome americanizzato di un poeta, pittore

e aforista libanese, naturalizzato negli USA. In seguito alle

alterne vicende del padre, tra l’altro finito in galera per

malversazione finanziaria, emigrò insieme alla madre Kalima a

New York. Scolarizzato in arabo, successivamente apprese la

lingua inglese, che adottò come base per i suoi scritti,

attingendo comunque alla sua educazione primigenia. Di

religione cristiano-maronita, venne influenzato dal pensiero

filosofico di Abdul-Bahà, al quale lo stesso Gesù Cristo sembra

abbia attinto largamente nei suoi insegnamenti. Fu questa la

base della contro-cultura americana del suo pensiero, dando

luogo all’adesione ai principi della New Age, in cui convivono

sentimenti religiosi misti ad atavici laicismi.

Egli, quindi, dopo aver abbandonato la scrittura araba, si

votò non solo nella forma, ma anche nelle idee, a questo tipo di

cultura innovativa sviluppatasi intorno agli anni sessanta.

Ebbene, inconsapevolmente, Vera Ambra, culturalmente

immersa nella New Age, nei suoi primi approcci letterari

giovanili scoprì un modo di sentire parallelo a quello di Gibran.

Forse sorpresa, forse ammirata, forse pienamente convinta

del processo intellettivo dello scrittore arabo-americano, lei,

dopo aver letto il testo poetico IL PROFETA del poeta e averlo

raccordato alle sue prime poesie giovanili, dette di piglio alla

penna mettendo sulla carta un misto tra il pensiero del poeta e

il suo, creando una continuità causale quasi naturale tra i due

modi di sentire.

Ed è così che sull’onda della celebre massima di Gibran

(Metà di quel che dico non ha senso; ma lo dico perché l’altra

metà possa giungere a te), la nostra scrittrice sale sulla nave del

pensiero, attraversa il mare e infine giunge al porto delle sue

conclusioni, che ammettono una supposta verità per affermarne

l’opposta in una sintesi concettuale logica e lapalissiana.

“Senza dolore non si è vivi nell’amore, Senza amore non si

è forti nel dolore.”

“La terra ama sentire i vostri piedi nudi e il vento gonfiarsi

con i vostri capelli.”

“E chi volesse frustare l’offensore scruti nello spirito

l’offeso.”

“La pietra angolare del tempio non è più alta della pietra

più bassa delle sue fondamenta.”

“Solo se berrete al fiume del silenzio, potrete davvero

cantare.”

“E benché nel vostro inverno neghiate la vostra primavera,

la primavera che è in voi sorride intatta e assopita”

Potrei continuare a citare altri passi del libro, ma limiterei il

ragionamento logico e poetico di ogni singolo concetto, espresso

in modo semplice e scorrevole.

Talvolta sfugge il significato tra la prima metà e la seconda

del concetto espresso, talmente è sottile il ragionamento e la

sua conclusione, ma un’attenta rilettura scioglie subito

l’arcano.

Naturalmente viene da chiedersi se l’opera possa catalogarsi

tra quelle poetiche o quelle saggistiche.

Io sono del parere che sia insieme poesia e saggio oppure

saggio e poesia senza sapere quale sia effettivamente la prima o

la seconda metà, poiché le due realtà sono così intrinsecamente

connesse da non poter distinguere addirittura tra ragionamento

e poesia.

Del resto, anche le opere del Gibran hanno la stessa valenza

dubitativa, che è alla base della sua arte, tra il vecchio e il

nuovo modo di sentire.

 

 

 

 

PEGASEIUM NECTAR

 

 

Già il titolo del libro di Vera Ambra, che richiama alla

memoria il nettare e il mitico cavallo alato Pegaso, predispone

ad un lettura dolce, gioiosa e fantasiosa e tale si rileva fin dalla

premessa:

Più sottile d’un fil di fumo

diventammo nuvola

diventammo goccia

e scoprimmo d’esser acqua

sol quando ci abbracciammo al fuoco.

Su questo tema si svolge tutto il contenuto espresso con i

soliti versi di diverso calibro sillabico ed effetti tonici, che

ignorano la punteggiatura, tranne qualche sporadico punto,

giusto per separare un concetto da un altro che segue.

È da dire, in proposito, che la punteggiatura diventa

superflua, poiché la sua funzione viene assorbita dall’ampiezza

di ogni singolo verso, magistralmente posto.

Aggiungo che tale soluzione dà un tono più sbarazzino e

moderno a tutta l’opera, che si adatta moltissimo all’argomento

trattato, infarcito di immagini veramente fantastiche che però

poggiano solidamente su una realtà tangibile e coreografica.

Il contenuto del poemetto è un racconto, anzi, un quadro che

graficamente illustra le sensazioni di due amanti nello spazio di

una notte, destinato a ripetersi finché la forza dell’amore lo

consente.

Esso procede per immagini traslate in un mondo parallelo di

sensazioni veramente naviganti sulle ali di Pegaso e degno di

voli pindarici che lascia meravigliosamente stupefatti per la

ricchezza di orpelli poetici attentamente studiati.

Nulla è fuori posto. Ogni immagine pindarica coincide con

la realtà effettiva dell’avvenimento erotico, descritto fin

dall’approccio iniziale a quello finale con dovizia di particolari

e di dettagli rigorosamente esaltati.

Dai versi, ora dell’uno, ora dell’altra, emergono le varie

tappe di tutto l’avvenimento che si consuma nell’arco di una

notte.

Il corteggiamento iniziale con l’ansia dell’attesa teso a

superare incertezze e remore, mostra la lucentezza delle stelle e

della luna che brillano nel buio della notte e chiama in causa

anche una semplice nuvola

“che d’estate ristorandosi al calore

aspetta che in terra faccia ritorno”

Ed ecco l’esortazione incoraggiante di lui:

“Nega la tua esistenza e lasciati andare”,

cui corrisponde la risposta rassicurante di lei:

“Non è la vita – principio d’ogni cosa –

a straziarsi nella morsa dell’attesa?”

Non manca la paura dell’approccio da parte di lei:

“Sono fragile foglia se mi sfiori

con mani impazienti”

“ Indossami come una calza

… caso mai una calza vesti e non denuda.

Ma ecco che con l’inizio dei preliminari lo scenario si

allarga e viene descritto fantasticamente nei minimi particolari

senza per altro incedere nel turpiloquio.

I versi e le immagini scivolano e si attardano nella

descrizioni degli eterei gesti delle scene, descritti come

fondamentali e necessari, e infine giunge lo spasmo finale con i

limiti imposti della natura che nell’attesa della ripresa costringe

lui al riposo e lei all’autoerotismo per prolungare… gli scalpiti

di Pegaso.

Non mancano i riferimenti al sinuoso mondo erotico del

mito, scomodando finanche gli spasmi del mitico Sisifo, la

lunga attesa di Penelope, le potenzialità di Giove, il fantastico

riferimento al tridente di Nettuno che supera di gran lunga la

pur efficiente unica spada del guerriero Marte, l’immagine del

dardo scoccato, che ritorna all’arco nel suo andirivieni di

tensione, e l’ironico riferimento al marinaio Ulisse, che

accecato dalla furia delle onde riesce ad entrare in porto con…

un solo remo.

Infine, con lo sparire della notte e delle sue penombre

nell’albeggiare del giorno la stasi regna, foriera di vita, ma di

un riferimento alla leggerezza malinconica dell’essere espressa

dalla figura finale del cigno, l’uccello dal lungo collo, che,

però, non si è mai sentito cantare. Bello, maestoso, ma

irraggiungibile nelle sue prestazioni… canore.

Mi è piaciuto e non poco il mancato riferimento a Venere,

Dea per eccellenza dell’amore, sostituita dalla figura più

completa di Giunone, che dal suo seno amoroso di moglie ha

fatto scaturire più volte la vita. È chiaro il connubio mitico che

esiste tra l’amore e il dare la vita, espresso dalla figura della

moglie di Giove e ignota in Venere. Così il rapporto amoroso

non resta relegato a semplice atto erotico a se stante, ma

assume la funzionalità che la provvida natura gli ha assegnato.

È questo uno spiraglio sottile di spiritualità che si insinua

nel mondo di edonismo descritto senza freno, poiché, chiaramente,

l’opera è distante le mille miglia dalle espressioni

amorose del dolce stil novo di Dante e Petrarca, dei sospiri

romantici del Leopardi e delle aspirazioni religiose del

Manzoni, nonché delle elucubrazioni funeree del decadentismo

o delle leziosità eteree e sognanti di Liala.

Siamo in presenza di un’opera che si inserisce sopra tutto

nel solco dell’edonismo erotico e sensuale, nato in verità in

tempi remoti, ma attualmente alimentato dalla moderna visione

della donna, non più schiava d’atavici tabù, ma libera

d’accedere, a parità con l’uomo, alle fonti del piacere.

Un plauso va all’autrice Vera Ambra per la delicatezza di

espressione veramente singolare e fuori dal comune, che ha

pure corrotto una valente conoscitrice della lingua spagnola, la

quale si è peritata di tradurre in questa lingua i suoi caldi e

conturbanti versi.

Per chi non lo sapesse la Signora Fàtima Rocio Peralta

Garcia ha editato la traducion en espagnol de PEGASIUM

NECTAR de Vera Ambra”.

In premessa ella dichiara esplicitamente che la traduzione di

queste poesie le hanno dato la sensazione di essere una ninfa

dell’olimpo e di aver scoperto in questi versi un mondo nuovo.

Conclude la sua introduzione con queste lusinghiere parole:

Resumendo en breve puedo decir que la obra de Vera

Ambra es …

Un delirio de palabras

ambrosìa en los labios

piel amante del Olimpo

amalgama de pasiones.

Ecco, dunque che la nostra Autrice, cavalcando Pegaso nelle

sue alate evoluzioni, sorvola gli Appennini, le Alpi, i Pirenei e

anche l’azzurro mare nostrum latino e raggiunge la Spagna per

allietare anche lì chi legge questo gioioso libretto di poesie.

 

 

 

 

 

IL GABBIANO E LA LUNA

 

 

Un libro veramente interessante che ha per argomento il

rapporto di coppia tra due persone che si sono amati, lasciati,

riamati ed abbandonati, anche se il ricordo non può essere

cancellato ma senza il benché minimo rimorso.

Penso che anche questo libro molto probabilmente è la

cronaca di un primo amore, che ha finito per segnare una tappa

di vita vissuta, che ancora oggi si ripete tra gli esseri viventi e

che forse continuerà a persistere nelle future generazioni,

nonostante l’evoluzione ed il cambiamento dei soggetti.

Il gabbiano e la luna sono i simboli di questa storia che

appare abbastanza singolare per la esplicita forza e il coraggio

dimostrato da una donna che liberamente racconta, assaporandone

il gusto dolce e amaro, la sua passione e il fuoco

provato in quella relazione che purtroppo è finita e di cui ne

accetta la fine. E non solo questo, ma anche la forza di

giustificare il narcisismo di lui in quel rapporto in cui ella è

servita di riflesso ad una passione di gran lunga più grande:

l’amore per se stesso. La passione di lei è così forte che non

solo giustifica il narcisismo spietato di lui, ma cerca anche lei

di trovare nello specchio della sua anima la stessa immagine di

autostima, esponendo senza alcun pudore tutto ciò che ha

provato e desidera ancora provare.

A giustificazione del mio dire sostengo che ai tempi attuali

un siffatto comportamento muliebre non costituisce una novità

grazie all’evoluzione della parità tra i sessi, ma al tempo in cui

il libro fu scritto era ancora in auge la riservatezza dei

sentimenti femminili, retaggio di un tempo che fu.

La luna, dal ruolo di muta osservatrice che il romanticismo

le ha cucito, è passata a quello di imitatrice delle evoluzioni

piuttosto corsare del gabbiano; lo imita in tutto, compresa la

libera esposizione dei suoi sentimenti e dei suoi desideri

riuscendo a esprimere con intensità l’afflato poetico che

circonda il loro rapporto.

I versi, ora brevi, ora più intensi al variare dei concetti,

seguono una logica poetica che denota una padronanza

linguistica non comune e anche gli stessi riferimenti al mondo

classico, usati con perizia, non appesantiscono la loro lettura.

I termini usati non distolgono l’attenzione del lettore dal

tema che l’autrice si è prefisso di esporre.

La scelta di un simbolismo legato ad un uccello predatore

del mare e al pallido astro lunare osservatore delle sue libere

scorrerie è stato geniale dal punto di vista poetico ed

espressivo.

Il risvolto morale è che il gabbiano impari ad apprendere

che la luna ha cessato di essere la muta e accondiscendente

osservatrice che il Leopardi le aveva assegnato e che essa è

capace di imitarlo e di suscitare anche le alte maree

 

 

 

 

INSABEL

 

 

Penso che, molto probabilmente il titolo di questo romanzo

di vera Ambra sia stato scelto dall’autrice per civetteria e in

omaggio alla sua posizione di donna.

Ritengo che il titolo più appropriato sarebbe stato “Insabel e

Fausto”. In effetti siamo in presenza di un racconto d’amore

che riguarda entrambi.

Infatti nel libro, non sono descritti semplicemente le sensazioni

di Insabel, perdutamente innamorata del suo Fausto, ma

anche quelle di quest’ultimo.

Non è quindi un romanzo a senso unico, nato per esprimere

solamente il mondo femminile che ruota intorno al concetto

dell’amore, piedistallo eburneo della solita eroina dei tempi

moderni libera di scelte e quant’altro in materia di sentimenti e

di sesso.

I protagonisti sono due e non una solamente, anche se unico

è il sentimento che li lega.

Sono parimenti descritti i sentimenti, le voluttà sessuali, le

sofferenze, le grida represse delle loro anime e dei loro corpi,

senza alcuna limitazione di sorta, così come sono descritti

parimenti l’incertezza e la timidezza del loro primo incontro,

non che le esperienze comuni presenti e passate.

Ecco che tutto il romanzo nel suo svolgersi, sembra

assumere la funzione del classico manuale dell’amore perfetto,

dove minuziosamente e con molta arte poetica vengono

descritte le varie fasi, dall’inizio alla fine di tutta la vicenda,

accarezzando gradevolmente, stuzzicandola, la fantasia di chi

legge.

Quasi per dire al lettore: ecco! Se due esseri provano

entrambi quello che descrivo, ebbene, si tratta di vero amore.

La vera novità, almeno per le mie esperienze, sta nel fatto

che il personaggio femminile, similmente ad uno maschile,

diventa la descrittrice reale del suo modo di essere donna e di

quello del suo compagno di essere uomo, senza alcuna remora

o tabù o sotterfugio caratteristico dei romanzetti d’appendice.

Ma non solo questo! Ella, pur parlando di sé, di quello che

prova, descrive anche enfaticamente la bellezza voluttuosa

delle sue parti intime e di quelle del suo compagno, non

omettendo di confrontarne le diversità, le eccellenze e i punti

più sensibili al reciproco piacere.

Si potrebbe pensare ad una descrizione di sapore pornografico,

ma in effetti non lo è poiché, l’erotismo descritto si

confonde con le loro sensazioni, contemporaneamente descritte,

ed ecco che il tutto viene permeato da un afflato lirico,

materiale e spirituale nello stesso tempo.

Non viene descritto solamente l’unione di due corpi in

amore, ma la fusione di due anime in un paradiso che travalica

la realtà, di cui il contatto fisico ne diventa reciproco simbolo.

Da questo punto di vista, il libro di Vera Ambra può

considerarsi anche un superamento del romanzo Il Piacere di

D’Annunzio, dove l’uomo è l’artefice e il gestore della voluttà

e la donna non altro che l’oggetto passivo e succube.

Non a caso ho citato il D’Annunzio, che con la sua poesia e

la sua prosa sfrenata in ogni campo, ha varcato i limiti posti

dalla precedente letteratura, lasciando però la donna o meglio

la femmina nella muta contemplazione della sua mascolinità.

Nell’autrice del nostro romanzo scompare ogni rapporto di

sudditanza tra i due sessi, per dar luogo ad un reciproco dirittodovere

di eguaglianza nel bere il calice del piacere, senza dover

ricorrere a motivazioni etiche e filosofiche o naturali. Nessun

accenno a imposizioni o rivendicazioni di tipo etico o religioso,

nessun ricorso a questioni di riproduzione della razza umana,

nessuna disparità davanti a quel paradiso reale che la natura,

pur nella diversità del sentire, offre a due esseri in amore.

Anche quando questo fatidico scambio d’amorosi sensi tra i

due protagonisti, finisce per spezzarsi, poiché appare, come

ineluttabile, questa evenienza, che è una novità rispetto alla

precedente letteratura romantica dell’amore eterno, rimane

intatta questa parità di comportamenti tra i due appartenenti a

sessi differenti, indipendentemente dal fatto che, poi, i due

possano, infine, come effettivamente avviene, ritrovarsi.

È contemporaneo reciproco il disagio di entrambi per il

paradiso perduto, senza alcun accenno a vittimismi di prassi,

cui soggiacciono sempre le donne in un modo o nell’altro.

La dura realtà è che la fine di un amore tra due esseri viventi

è un dramma per entrambi, senza esclusione di sorta, anche se

vissuto e sentito in maniera differente, sia dal punto di vista

materiale che spirituale.

Non mi resta di accennare alla forma del romanzo, ossia

all’esposizione letterale dei concetti e delle vicende.

La prosa scorre leggera sugli argomenti, senza ingrottarsi in

spiegazioni elaborate dei sentimenti di entrambi i protagonisti,

rendendo in pieno lo spirito di raggiunta eguaglianza del loro

sentire.

Al lettore appare spontaneo – periodo dopo periodo –

assaporare questo continuo e loquace scambio di opinioni e

reciproche notizie intorno ai loro corpi e ai loro sentimenti.

Stupisce la proprietà di vocaboli e la loro significativa

aderenza nel descrivere le opposte sensazioni dei due protagonisti

nell’esternazione dello stesso amore solitario, oltre quello

comune, che è più evidente.

L’intercalare di versi esplicativi all’inizio di ogni capitolo,

che sintetizzano il suo contenuto amoroso e quel tratto di vita

vissuta del romanzo, contribuiscono moltissimo alla liricità

dell’opera, poiché è fuor di dubbio di trovarci di fronte ad un

libro che non è solo prosa, ma poesia vissuta.

Ovviamente non è il tipo di lirismo manzoniano, che ha altri

fondamenti, né quello inquietante del Foscolo infarcito di

illusioni o quello leopardiano madido di sofferenze e dolore,

ma è quello scaturito dal nuovo modo di sentire moderno che

incede nella completa e assoluta contemplazione di tutti i

sentimenti umani nel loro procedere spedito verso la felicità da

raggiungere o, magari, da archiviare tra i ricordi.

Ometto volutamente citazioni di parti del romanzo per non

appesantire questo mio saggio e per non togliere al lettore il

piacere di scoprire direttamente le cose che ho scritto.

 

 

 

 

PIUME BACIATEMI LA GUANCIA ARDENTE

 

 

Ho letto il libro di Vera Ambra Piume baciatemi la guancia

ardente, dove si tratteggia la figura del bersagliere siciliano

Salvatore Damaggio, eroe dimenticato della difesa del Pasubio

durante la prima guerra mondiale, compresa l’acuta considerazione

della postfazione di Francesco Giordano.

Un personaggio senz’altro positivo nel quadro degli eventi

storici della prima guerra mondiale, che rispecchiano un clima

di esaltazione patriottica di un’epoca fondamentale per l’unità

d’Italia e, nello stesso tempo, costituirono i presupposti per la

nascita della dittatura fascista e conseguente seconda guerra

mondiale.

L’eroe Damaggio, che con appena sette uomini superstiti e

due mitragliatrici, opportunamente piazzate, riuscì a impedire

l’avanzata dell’esercito austriaco quel lontano mese di Luglio

del 1916, consentendo alle truppe di rincalzo di intervenire

positivamente nella difesa dell’avamposto, sostanzialmente

subì la sorte di tutti i reduci della prima grande guerra, nata

dall’impulso di completare l’unità d’Italia con le terre

irredente, ma certamente non molto gradita dal ceto popolare,

specialmente del meridione, per essere stato distolto dal lavoro

dei campi, quasi unica risorsa economica del tempo.

Il nostro eroe, infatti, nonostante la sua aspirazione a

diventare bersagliere e partecipe dell’ideale d’amor di Patria,

venne distolto dagli studi di medicina, cui era stato destinato

dal padre, per partecipare a quella guerra, che lo vide eroe per

necessità di difesa e successivamente restituito alla vita civile e

dimenticato, come tutti i reduci ritornati alle proprie case

carichi di gloria, ma feriti nell’anima, e alcuni anche nel corpo,

privi di prospettive economiche.

Il nostro personaggio ebbe la fortuna di avere alle spalle una

famiglia economicamente solida, che gli consentì di riprendere

gli studi di medicina, di laurearsi e, nel silenzio dell’oblio

statale, riuscì a diventare anche un eminente medico, ovvero,

ad ammortizzare i sacrifici patiti in guerra.

Ma molti altri personaggi, eroi sconosciuti e rimasti nell’ombra

di quella tremenda guerra, ritornarono storpiati nel

cuore e nei corpi e pur ringraziando Dio per essere rimasti vivi,

non ebbero il conforto di un aiuto familiare e, anzi, si trovarono

nelle condizioni di dover badare alle loro famiglie pur non

avendone i mezzi.

In uno dei miei racconti della raccolta Ilaria e Catania, io

parlo di uno di questi personaggi, Frati Suli, che non ebbe la

buona sorte del Damaggio; un tale che ho conosciuto da

ragazzo e che dalla grande guerra era ritornato vivo ma con

l’acquisizione di tare mentali. Nessuna medaglia, nessun

plauso per quanto avesse fatto e per di più con il marchio di

disertore e senza alcuna accoglienza o aiuto familiare finale.

I molti “frati Suli” che ritornarono a casa sconvolti, i molti

che non ritornarono affatto, tra i quali ho ricordato il fratello

del Martoglio e al quale aggiungo due miei lontanissimi parenti

i cui nomi compaiono nell’elenco del sacrario di Redipuglia e i

molti “Damaggio” reduci eroici dimenticati, mi spingono a fare

delle considerazioni sulla prima grande guerra, che concluse

l’unità d’Italia, voluta dall’idealità patriottica del Mazzini e

altri, ma realizzata con le sole mire dalla monarchia sabauda di

allargare i confini del piccolo Piemonte.

La brutta avventura delle due guerre mondiali, anche se

sembra un poco iperbolico ammetterlo, ebbero inizio con la

proclamazione del Regno d’Italia, subito dopo la spedizione

garibaldina dei Mille...

Il nuovo regno sabaudo, anche se dovette affrontare la

questione politica immediata con le autorità clericali romane, si

trovò di fronte alla montagna insormontabile del debito

pubblico.

Le casse erariali sabaude erano ormai esaurite per le

continue spese militari e l’acquisizione dei nuovi territori,

lasciati spogli dagli ex sovrani, non migliorarono la situazione.

Solamente quanto provenne dal ricco regno borbonico delle

due Sicilie, riuscì a colmare a stento il vuoto economico, ma

l’errata impostazione dell’organizzazione del nuovo stato,

provocò un’imposizione fiscale fuori dal comune.

In questo clima di disagio, l’Italia, impedita nell’aspirazione

di conquiste colonialistiche, da Inghilterra e Francia, aderì alla

triplice Alleanza con Germania e Austria.

Era questa la situazione in atto quando venne ucciso l’erede

al trono dell’Impero Austro-Ungarico che provocò l’inizio

della guerra mondiale.

L’Italia che preparata non era ad affrontare alcuna guerra ed

era incerta a favore di chi intervenire, alla fine il 24 Maggio

1915, scese in guerra contro gli ex alleati Germania e Austria,

previa promessa, in caso di vittoria, di poter annettere le terre

irredente di Trento e Trieste.

Il comando dell’esercito italiano venne affidato al

piemontese Cadorna, tra l’altro inviso ad altri generali provenienti

dagli ex stati e arroccato ai vecchi schemi delle battaglie

campali. Egli schierò le truppe su un fronte ad arco sulle Alpi,

pronte a invadere Gorizia, Trento e Trieste. Purtroppo il punto

di debolezza di tutto l’esercito consisteva, oltre che nei contrasti

tra i generali, anche nel fatto che l’esercito italiano risultava

raccogliticcio da tutte le regioni e che tra i soldati non vi era

familiarità e amalgama.

Inoltre avvenne che i tedeschi riuscirono a frantumare il

fronte russo aiutando il compagno Lenin a provocare la

rivoluzione marxista, che poi sfociò nel comunismo. Ciò

consentì loro di organizzare la spedizione punitiva contro

l’Italia, valutato, a ben ragione, il più debole della coalizione

contraria.

Il dislocamento delle truppe italiane, ben appostate sui

monti, non consentiva alcuna invasione, anche perché l’unico

passaggio per invadere l’Italia era presidiato dall’artiglieria

pesante agli ordini di Badoglio.

Nonostante tale precauzione, l’esercito austriaco passò,

grazie al fatto inspiegabile che l’artiglieria italiana restò muta.

Si accusò, a torto o ragione, Badoglio di non aver dato l’ordine

all’artiglieria di sparare per un contrasto con il generale

Cadorna.

La conseguenza fu la disfatta di Caporetto e l’arretramento

delle truppe italiane sulla linea del Piave. In previsione di una

totale disfatta

Il Re Vittorio Emanuele II pensò bene di salvaguardare il

piemontese Cadorna dalla responsabilità totale della sconfitta,

affidando la direzione ad un anonimo generale di prima

nomina, Armando Diaz, scelto per quel suo nome più spagnolo

che italiano con lo scopo sottinteso che alla fine, la disfatta,

ritenuta immancabile, sarebbe stata ricordata come inflitta ad

un generale italiano, ma forse spagnolo. Insomma la preoccupazione

del Re era solo quella di “salvare l’onore militare

italiano”. Che, se poi, le cose fossero andate bene, in ogni caso

Armando Diaz, anche se con un nome spagnolo, sempre

italiano era!

In effetti la scelta del Diaz fu provvidenziale, poiché,

quest’ultimo, avendo capito di essere stato scelto come capro

espiatorio, cambiò la strategia del Cadorna. Intanto dette ordine

di non procedere più con la fucilazione dei disertori sul posto,

rivelatasi una ulteriore decimazione delle truppe italiane,

avendo la disfatta di Caporetto dato la stura al fuggi-fuggi

generale.

I disertori vennero ripresi e riavviati al fronte con il perdono

e l’impegno di ritornare a combattere. Inoltre rinforzò con le

nuove leve la linea di difesa del Piave, con la ferma intenzione

di restarvi fino alla fine della guerra. E lì fermo, inchiodato al

percorso del fiume sarebbe sempre rimasto, nonostante l’invito

degli alleati francesi ad attaccare poiché mutata era la

situazione militare, ma avvenne che le truppe austro-ungariche,

ringalluzzite dallo sfondamento di Caporetto, non tentarono di

attraversare anche il Piave. Grazie alle opere di fortificazione

approntate esse vennero respinte, inseguite dagli italiani che

nell’impeto della controffensiva andarono aldilà della sola

operazione di difesa. Fu così, d’impeto, che le truppe italiane

inseguirono i nemici in rotta fino ad occupare Gorizia.

Nella speranza di controbattere l’impeto degli italiani, gli

austro-ungarici spostarono le truppe dal fronte francese verso

quello italiano, ma la conseguenza fu che anche i francesi

riuscirono a sbaragliarli.

A questi fatti seguì la resa totale degli Imperi centrali e la

pace che, oltre a sancire intanto la nascita del comunismo in

Russia, la fine dell’Impero Austro-Ungarico.

Al tavolo delle trattative di pace fu inviato il deputato

Vittorio Emanuele Orlando e fu su quel tavolo che continuò ad

avere seguito il disastro economico italiano.

Da Francia e Inghilterra, l’Italia venne accusata di non

essere intervenuta per tempo ad attraversare il Piave e che la

vittoria della guerra era da attribuire al valore delle truppe

anglo-francesi, che avevano consentito a Diaz di poter

avanzare dalla linea del Piave.

Pertanto, mentre Francia e Inghilterra si appropriarono del

ricco territorio coloniale tedesco in Africa, l’Italia dovette

accontentarsi di avere Trento e Trieste, ovvero, le terre

irredente promesse e nulla più.

Conseguenza fu che Francia e Inghilterra poterono colmare

le spese affrontate per il conflitto e l’Italia rimase in piena

ristrettezza economica, la quale non le consentì di premiare i

soldati che tutto avevano dato nella guerra.

Il disagio economico, il malcontento dei reduci, la mancanza

di lavoro, la maggiore imposizione fiscale e quant’altro

pertinente provocò un disordine e un caos indescrivibile, al

quale Vittorio Emanuele III pensò di porre fine affidando il

governo nelle mani di Benito Mussolini in seguito alla

cosiddetta marcia su Roma delle camicie nere.

Purtroppo con il fascismo, che, in effetti, un poco di ordine

riportò nell’equilibrio interno della nazione con la istituzione di

molti servizi sociali che ancora oggi sussistono e in parte sono

migliorati, ma anche peggiorati in alcuni casi, si ebbe una

eccessiva militarizzazione della popolazione con aberrante

privazione della libertà di pensiero, che determinarono la

partecipazione ad una guerra (la seconda mondiale) a fianco

del nazismo tedesco.

Per ritornare al nostro personaggio, il dottor Salvatore

Damaggio, ex capitano ed eroe del Pasubio, è da dire che, alla

fine della prima guerra mondiale, egli fu dimenticato, come del

resto tutti i reduci vennero dimenticati, poiché lo Stato non fu

in grado di gratificarli per il semplice fatto che non ve ne era la

possibilità economica.

Allo Stato non restò che onorare i morti innalzando sacrari e

ossari in memoria dei loro sacrifici.

Fu financo costruito a Roma l’Altare della Patria con

inumato in pompa magna la salma del milite ignoto, ma quanto

ai vivi, all’infuori di qualche medaglia ricordo nulla fu fatto,

quasi avallando il fatto che l’unico vero dono che ricevevano

dallo Stato era quello di essere riusciti a salvare la pelle.

Soltanto nel 1933, dal Podestà di Schio ovvero da una

autorità fascista, che, per vocazione e propaganda militaristica,

aveva tutto l’interesse a ricercare eroi ancora viventi da

mostrare al popolo come simbolo della grandiosità italiana, il

tenente Damaggio, difensore eroico del Pasubio venne ricordato

e cercato come, l’autrice racconta.

Era quello il periodo dei simboli da mostrare per convincere

gli italiani all’autostima della italianità.

Le massime autorità dell’epoca erano per questo alla ricerca

di simboli da mostrare al mondo intero ed ecco che un fante

piumato, dal cappello estremamente estroso e dal passo lesto,

per di più diventato celebre medico specializzato nella cura

della tisi, che era considerata la malattia del secolo, già onorato

da medaglie d’argento, era una rarità da mostrare al mondo

intero insieme ai trionfi di Primo Carnera e di altri assi dello

sport, insignendolo del titolo di Cavaliere e assegnandogli

anche una medaglia d’oro da parte del Comune di Schio,

nonché la cittadinanza onoraria.

Ritengo che la riluttanza del Damaggio a ricevere l’invito

del Podestà sia stato più che giustificata avendo compreso di

dover fare da paravento ad un soffio a lui forse non gradito,

dedito, ormai, alla salvezza di vite umane e lontano dai clamori

della celebrità appariscente e dal crepitio della mitragliatrice.

Forse anche lui avrà capito, semplice spettatore, in parte, dei

fatti bellici della seconda guerra mondiale, durante la quale

morì sotto le bombe da non combattente, di essere stato una

povera pedina nello scacchiere dell’ipocrisia umana, imposta

dal senso del dovere e del patriottismo esercitato sull’umanità

pacifista e amante della gioia di vivere e della gloria dei forti e

di essere diventato lui stesso una stella lucente di quel mondo

di estrema grandezza, che è la visione beatifica del sacrificio

infinito nel raggiungimento di un ideale comune.

Forse, anche, nel suo animo, come emerge dalla lettura di

quella che è una sua biografia, è il pentimento del subcosciente

per aver provocato tante morti, a spingerlo ad essere riluttante,

avendo scelto, lontano dal clamore blasfemo della guerra, la

via per la salvezza di vite umane.

Indubbiamente il personaggio del Damaggio è una fantomatica

figura poliedrica, che si presta a molteplici interpretazioni,

a seconda dei punti di vista da cui lo si osserva, ma

giudicarlo solamente un eroe con il cappello piumato in testa e

con il dito freneticamente premuto sul grilletto della mitragliatrice,

non è sufficiente a dare un giudizio completo su di lui,

siciliano, andato a combattere per la conquista di terre irredente

in nome di una patria unita, l’Italia, che qualcuno oggi vuole

dividere, che tutto ha dato per questo ideale senza nulla

chiedere e che, messo da parte, nulla ha preteso e con ardore e

caparbietà ha continuato a servirla senza alcuna esclusione

regionale, con la sua opera più meritoria e pregiata di medico

curante.

Ecco dunque che Damaggio non è solo un eroe o il simbolo

del sacrificio e della bontà umana, ma soprattutto è un

emblema dell’unità d’Italia e dell’italianità della Sicilia, che ha

dato e continua a dare la vita dei suoi figli migliori per la difesa

e l’onore di tutta l’Italia.

 

 

 

 

 

VIAGGIO NELLA MEMORIA

 

 

Un libro scritto da Vera Ambra per commemorare i fatti

storici gloriosi, ma nefasti, della prima guerra mondiale, che

costellò di morti la nostra Europa e che fu assunta dal passato

regime fascista come simbolo d’ìtalo valore, in appoggio ai

fatti e alle idee che condussero alla seconda guerra mondiale.

Tutto sommato, risulta essere un resoconto delle battaglie

combattute dagli italiani contro l’impero austro-ungarico con

l’evidenza di atti eroici segnalati. Una specie di cronaca

commemorativa di tutti gli episodi più salienti, dalla quale,

comunque, emerge una condanna non solo di questa guerra, ma

di tutte le guerre, ribadita da una mia poesia riportata alla fine e

che trascrivo

Garrisce la bandiera

sui corpi dei caduti

vittorie celebrando

del prode condottiero,

ma tutt’intorno il pianto

si leva su dal campo

di donne disperate

che più non rivedranno

mariti e figli uccisi.

La tromba allora inonda

d’ipocriti gorgheggi

il cielo cupo e spande

le note del “Silenzio”

per celebrar la morte

dell’umile soldato,

che certo non mirava

d’aver cotanto onore

La scelta si conviene

di celebrare i morti

a chi la morte arreca

in nome di qualcosa

che forse non la vale.

Fu, in effetti, una guerra vittoriosa per l’Italia, ma di una

vittoria così amara e cosi malamente condotta e vinta, che, in

confronto, la sconfitta della seconda guerra mondiale fu non

solo meno dannosa, ma più vantaggiosa di gran lunga.

Già ancor prima d’entrare in guerra, all’ombra del tentennamento

perenne dei Savoia, instaurato da Carlo Alberto, pur

essendo manifesto il desiderio di parteciparvi per il riscatto

delle “terre irredenti”, non si sapeva se essere a fianco della

triplice alleanza o della triplice intesa.

Nell’attesa di tale decisione venne affidato il compito di

compattare l’esercito al Generale Cadorna, uomo di vecchio

stampo militare piemontese non molto ben accetto dal

rimanente stato maggiore e che era rimasto assertore convinto

degli scontri campali a viso aperto, come avveniva un tempo

all’arma bianca, dove il valore dell’onorata morte in battaglia

aveva il sopravvento sul diritto alla vita del soldato.

Quando, infine, venne dichiarata la guerra all’Austria,

l’esercito si trovava schierato a ridosso delle terre da

conquistare, ma su due linee distinte: una di difesa (le trincee) e

l’altra di offesa, pronta a scattare alla conquista di Gorizia e

delle rimanenti terre irredenti.

Il Generale Cadorna non aveva un piano tattico approntato,

poiché fidava soltanto nell’assalto diretto delle postazioni

nemiche aspettando l’occasione opportuna. Il petto valoroso e

irruente contro il fuoco del nemico. Questo era il suo piano.

Il nemico, invece, aveva un suo piano, che era quello di

sfondare lo schieramento italiano nel punto più debole (monte

Ortigara, monte Grappa, ecc., ecc. ) per dilagare nella pianura

padana e prendere alle spalle le difese orientali italiane. Il

piano non riuscì per l’eroica difesa messa in atto dagli alpini

italiani, ma contemporaneamente avvenne che dal fronte

orientale, avvenuto il crollo dell’impero zarino a causa della

rivoluzione bolscevica, l’esercito austriaco si riversò sul fronte

italiano e fu la disfatta di Caporetto, che solo il Piave riuscì ad

arginare con le sue acque piuttosto che le decimazioni eseguite

dai carabinieri per arrestare le truppe fuggiasche in preda al

panico.

È da dire che qualcosa non funzionò nella disfatta di

Caporetto, oltre alla preponderanza delle truppe austriache.

Infatti, l’artiglieria, ben posizionata e affidata al generale

Badoglio, che sarebbe dovuta intervenire tempestivamente,

inspiegabilmente tacque e lasciò che i fanti austriaci

assaltassero la nostre difese. Molto probabilmente la causa fu

“la ruggine” tra Badoglio e Cadorna, ma non fu mai accertata e

l’episodio venne addirittura ignorato per non “macchiare” la

successiva vittoria.

In seguito alla disfatta di Caporetto, Cadorna venne

trasferito ad altro incarico e si cercò tra i generali un capo

espiatorio della sicura sconfitta e lo si trovò in Armando Diaz,

ancora giovane e dal nome spagnoleggiante. Quest’ultimo,

capita l’antifona, fece di tutto per non lasciarsi coinvolgere,

organizzando la difesa sul Piave, da cui non si mosse mai per

non incorrere in un’altra eventuale sconfitta. Fu suo merito

porre fine alle decimazioni dei disertori, dando disposizione

che venissero riarmati e inviati nuovamente al fronte.

La successiva ondata austriaca sul Piave, venne respinta e

sotto l’impulso della reazione la difesa italiana, nella foga di

inseguire il nemico in ritirata passò al contrattacco fino a

Gorizia, ma qualche giorno dopo che i franco-inglesi erano

riusciti a respingere gli austriaci.

Fu il crollo dell’Impero austro-ungarico.

La pace che ne seguì vide ancora una volta la cattiva

gestione finale del conflitto. Infatti, mentre Inghilterra e

Francia si dividevano il vasto impero coloniale tedesco, il

nostro delegato, Vittorio Emanuele Orlando si accontentò

solamente della conquista delle terre irredente, che poi tanto

felici di diventare italiane sono mai state.

La conseguenza letale fu che l’Italia ne uscì dalla guerra

vittoriosa, ma in condizioni disastrose per la perdita di uomini

e di forze lavorative, le quali, sulla falsariga della protesta

sociale, sfociò nella “marcia su Roma”e successiva guerra

mondiale.

Il merito del libro, oltre a evidenziare i fatti sopra detti, ha la

valenza di aver descritto la vita di trincea dei nostri soldati

nella guerra di posizione e anche l’orrenda esecuzione di

uomini, colpevoli soltanto d’avere paura mediante la cosiddetta

“decimazione” a caso, mediante fucilazione, del reparto che si

era macchiato di disonore e codardia, nonché dell’inutilità in se

stessa della guerra, i cui risultati è possibile ottenere senza il

ricorso alla perdita di vite umane.

Toccante è l’episodio descritto dello scambio di “cortesie”

tra i combattenti delle opposte trincee, che evidenzia come,

talvolta, il sentimento di umanità riesca a superare il muri

dell’odio innalzato dagli opposti ideali e, infine, da buon

siciliano, non posso non evidenziare il contributo di vite e

sacrifici fatto emergere nel libro di quanti oggi vengono

insultati e accusati (e meridionali sono) da quanti ritengono di

essere i soli eredi dell’italico valore.

Inoltre lo studio e la ricerca certosina di dati e fatti,

promuove Vera Ambra al ruolo non solo di poetessa e scrittrice,

ma anche di storica, attenta nel riportare notizie ormai sepolte

dalla polvere del tempo.

 

 

 

 

UN UOMO NELL’OMBRA

 

 

Ho finito di leggere il robusto e corposo libro storico di Vera

Ambra, che illustrando le imprese di un eroico personaggio

opportunamente scelto tra quanti vissero quei periodi, descrive

le vicende della seconda guerra mondiale e i successivi

avvenimenti post-bellici.

Il personaggio in questione, in effetti, cessata la guerra,

finisce per arruolarsi nella Legione Straniera di Francia,

assumendo le generalità di un eroico combattente francese, tra

l’altro, già caduto eroicamente. Con queste false generalità,

egli, finita la ferma militare volontaria sottoscritta, si dedica al

brigantaggio marittimo, aggiungendo all’eroico sostituto la

fama di contrabbandiere dall’animo “nobile” e come tale,

infine, viene ricordato.

Nello svolgimento dei fatti, che coinvolgono altri

personaggi realmente esistiti e situazioni realmente accadute, la

figura dell’uomo in questione giganteggia per abilità, nobiltà

d’animo, audacia, intelligenza, sprezzo del pericolo e trionfo di

un individualismo nello stesso tempo pungente, romantico, e in

ogni caso, vincente.

Ecco, quindi, che il vero personaggio, non è l’uomo in sé,

ma quello che effettivamente esso rappresenta, ossia l’ombra

dell’individualismo elevato a sistema ovunque appaia, sia nel

bene che nel male. Non esiste una demarcazione definita tra il

bene e il male. Ogni vicenda, sia di guerra santa contro il

nazismo, sia di trionfo nell’impresa di brigantaggio marino o di

cavalleresco comportamento, quello che emerge è il valore

dell’individuo, la sua capacità, il suo essere superiore agli altri,

siano essi amici o nemici. L’indicazione chiara e lampante che

emerge in ogni circostanza è la supremazia dell’uomo nei

rapporti con altri, ma il vero insegnamento che si può trarre

dalla lettura, consiste nel rovescio della medaglia, ossia nel

constatare che a forza di frequentare determinate persone o

cose, si finisce sempre per acquisirne non solo i meriti, ma

anche i difetti. Infatti il nostro mitico personaggio descritto, a

forza di ostacolare i tristi dettami del nazismo, finisce per

imitarli e diventare l’artefice di imprese similmente turpi e

riprovevoli. È ciò che avviene in ogni guerra, dove all’odio

subentra l’odio, alla morte la vendetta senza alcuna sosta o

soluzione di discontinuità. Del resto è la stessa cosa che

accadde ai partigiani nei confronti dei tedeschi invasori e che

accade o accadrà nei confronti dei Russi da parte degli Ucraini.

Nonostante il riporto di notizie storiche con meticolosa

attenzione, la lettura scorre limpida e chiara con tuffi pindarici

e descrizioni poetiche che tingono d’azzurro e di rosa i fatti più

tragici descritti Inoltre tutte le figure che emergono dal lungo

racconto sono descritte con meticolosa attenzione e subiscono

il magico tocco della sapiente penna dell’autrice.

Alla base di questo lunghissimo racconto vi è inoltre un

profondo studio di ricerca storica, cui la stessa autrice accenna

in premessa, costituita dalla consultazione di notizie assunte

dai giornali d’epoca e dal pensiero testimoniale di altre

persone.

Il mio giudizio sul lavoro svolto da Vera in questa

circostanza è del tutto positivo, anche se difforme al concetto

da me esternato in proposito relativamente al plauso e alla

ammirazione di abilità un poco peregrine. Ammetto il perdono,

ma non il plauso per determinate azioni, che mi auguro non

avvengano mai.

 

 

 

 

PREFAZIONE A CATANIA:

ALLA SCOPERTA DELLA CATANESITÀ

IN FORMA DI PAROLA

 

Parlare o scrivere di Catania è una cosa facile a fare da

parte di chiunque, poiché la città si presta a mostrare

apertamente i tesori di cui è vestita. Infatti è molto evidente la

bellezza che traspare dai monumenti di stile “Rococò” ideati

dal Vaccarini sullo sfondo stupendo dell’Etna che incombe con

il suo eterno pennacchio di fumo vagante e confuso tra le

nuvole del cielo, sempre azzurro.

Chiunque visiti la città rimane incantato da tanta bellezza,

ma mi chiedo se riesca a comprendere la sua intima essenza,

quella che è stata definita “la catanesità”, ossia l’intimo

espressionismo caratteriale della sua anima, che emerge dal suo

linguaggio e dal suo atavico dialetto.

Va approfondito questo concetto della “catanesità”, che

denota un modo di essere e di vivere molto diverso da quello

degli altri abitanti della Sicilia e che mostra la vera anima della

città. Per poterla evidenziare, bisogna effettuare un’attenta

analisi del suo linguaggio di ogni giorno e dei suoi modi dire,

capirlo e riversarlo in figure plastiche da mostrare come

simboli, anzi, monumenti di figure fluttuanti nelle vie cittadine.

Questo compito non facile si è assunto l’autrice Vera

Ambra, mediante una certosina ricerca delle parole e delle

espressioni del suddetto linguaggio e anche degli atteggiamenti

che esse producono nei suoi abitanti, evidenziandone il

carattere e il modo di vivere, appunto la “catanesità”.

Tale compito comporta la conoscenza della lingua siciliana,

quella nata a Palermo ai tempi di Federico II di Svevia e delle

variazioni da essa subite a Catania. Cosa, quest’ultima, che

solo un catanese doc è in grado di fare e Vera Ambra lo è.

Bisogna intanto sapere che la lingua siciliana, scaturita

dalla volgarizzazione del latino, ha subito nel tempo delle

variazioni, venendo a contatto con il linguaggio di altri popoli

che l’hanno occupata, sicché, a seconda dei luoghi, ha dato vita

a diversi vernacoli, che altro non sono se non la variazione del

dialetto, inteso come lingua autoctona, per ogni singola

località.

Vera Ambra ha dovuto, nel suo compito, affrontare il

“vernacolo” catanese e, quindi, fare una ricerca profonda delle

parole, che soltanto chi è vissuto a Catania può fare non

potendo fruire dell’aiuto dei “classici” in lingua siciliana e dei

loro canoni, come quelli, ad esempio catalogati dal Pitré.

Se si tiene conto che a Catania il vernacolo assume delle

tonalità diverse a seconda dei quartieri, si comprende le

difficoltà che l’autrice ha dovuto riscontrare nella ricerca e

nella analisi dei vari modi di dire. Già! Sembra proprio che a

Catania vi sia un vernacolo per ogni quartiere e ognuno ha una

caratteristica diversa esattamente come avviene, ad esempio tra

il vernacolo calatino e quello catanese o quello siracusano e di

altre località. A cambiare a volte è il tono od addirittura la

pronunzia dello stesso identico vocabolo.

Ebbene a Catania accade pure questo. Vi è un vernacolo

“aulico” delle persone più snob e quello più popolare e vi

assicuro che è difficile elevarne le differenze. Ebbene Vera

Ambra ci riesce con una consumata abilità, frutto non soltanto

del suo essere catanese, ma di intensa ricerca condotta In

maniera molto accorta e intelligente

Ella impernia la sua opera, appunto nell’incontro tra una

ragazza e un ragazzo appartenenti a questi due mondi

differenti, che finiscono insieme nonostante le diverse origini

di quartiere, creando una famiglia tipica nei luoghi di tutta la

città, fondendo insieme le diversità ereditate.

Ciò le dà modo e maniera di spaziare in queste due diverse

arie dell’anima catanese, tirando fuori le differenze apparenti e

nascoste dei due atteggiamenti. Ed è tutta una ridda di termini e

una girandola di modi di dire, che rispecchia esattamente la

“catanesità” di cui ne ho descritto le caratteristiche somatiche.

Mi ha fatto sorridere, colpendo nel segno, quella apparente

diversità tra mammuriani e monfiani effettivamente esistente e

messa in evidenza anche dai nostri comici in TV e che io non

saprei proprio come evidenziare.

Un lavoro, dunque, quello di Vera Ambra che ha un rigore

scientifico della ricerca glottologica che richiama pure atteggiamenti

istrionici tipici rilevabili frequentando la Pescheria,

od altri luoghi con la cinepresa della parola.

Tale ricerca (questa è la caratteristica più saliente!) non è

fine a se stessa, relegata a descrivere determinati atteggiamenti,

essa riesce a tingersi di poesia di un interesse che trasborda nel

divertente e nel teatrale.

Non vado a descrivere i vari atteggiamenti più salienti,

ritenendo di fare cosa migliore, lasciando al lettore il piacere di

rilevarli e gustarli nella lettura che scorre placidamente e

sembra proprio che l’acqua delle parole urti lievemente contro

gli scogli dello scenario dell’architettura di Catania.

Ritengo proprio che dalla lettura completa emerga quella

“catanesità” famosa non solo in Sicilia, ma in tutta l’Italia e

esportata dai nostri attori in tutto il mondo, condita dalla

rilevata “liscia catanisi”, che altro non è se non l’ironia sottile,

tipicamente leggera, ma “ca rumpi l’ossa” e colpisce nel segno.

Basta per questo ricordare i nostri attori comici, Angelo Musco,

Turi Ferro e non ultimo il nostro Leo Gullotta, nei quali i

termini, le parole e i modi di dire evidenziati da Vera Ambra,

hanno trovato spazio nelle loro commedie.

Chiudo questa mia dissertazione sul libro di Vera Ambra,

precisando che la sua opera va al di là del rigore letterario

dialettale di Domenico Tempio e del più recente Nino

Martoglio e alla stessa accennata e sfiorata prosa del Verga e di

Pirandello, che, scrittori in lingua italiana, sfiorano lievemente

il dialetto.

Lei scava nel vernacolo e trova in esso, evidenziandoli, tutti

quegli elementi trascurati e mai rilevati da altri in un’opera

tipicamente catanese, nell’anima e nelle parole.

L’obiettivo di centrare l’attenzione del lettore sulla parola e

sul modo di dire evidenziandone la “catanesità”, scindendola

dalla bellezza dei suoi tipici monumenti e panoramiche, è stato

perfettamente riuscito da parte dell’Autrice.

 

 

 

 

ALLA SCOPERTA DELLA CATANESITÀ

IN FORMA DI PAROLE

 

 

Che dire di questo libro, di cui ho già scritto la prefazione?

Averlo tra le mani e sotto gli occhi nella sua veste editoriale,

agghindato di foto a colori e rivestito delle significative ed

eleganti due copertine esterne è stato per me un piacere

immenso. La “catanesità” che ho citato in prefazione e che è

anche diventata parte integrante del titolo scelto da Vera Ambra

appare non solo un’espressività di parole in vernacolo, ma un

vero monumento alla città di Catania, dove una innocente

storiella d’amore tra due giovani di diverso ceto enfatizza i

modi di dire e le espressioni tipiche popolane all’ombra dei

classici palazzi barocchi.

Giustamente, parlare solo della catanesità in forma di parole

servendosi di una modesta storia tra due ragazzi di diverso

ceto, non sarebbe bastato ad avere un quadro completo di un

sistema di vita caratteristico di Catania. L’autrice del libro ha

colto la sostanziale sottigliezza di una catanesità avulsa

dall’ambiente e a capo chino si è tuffata tra le mura annerite

dalla caligine lavica dei palazzi, scavando anche nelle loro

pieghe storiche e disquisendo sul significato glottologico di

termini che affondano le origini nel classico mondo greco,

latino e arabo. Ma non bastava tutto questo, poiché monca

sarebbe risultata la catanesità senza accennare agli innumerevoli

personaggi che nel tempo hanno illustrato con il loro

sapere e con il loro spirito artistico la città.

Ecco, dunque, apparire come vessilli inconfondibili le

figure di Tempio, Bellini, Rapisardi, Verga, Martoglio e non

solo quelle, ma anche le più antiche esposte nel viale degli

uomini illustri della villa Belllini, nonché recenti dello

spettacolo e di comici dello spessore di Leo Gullotta, Castiglia

e altri.

Ovviamente il quadro non è del tutto completo, ma

abbastanza esaustivo per descrivere le linee somatiche e

culturali di una città che non paga di tradizioni antiche si

proietta caparbiamente nel futuro mostrando interessi commerciali,

industriali e scientifiche nell’ambito europeo.

La catanesità, che non stona quindi con la cultura europea,

emerge anche nella frenetica crescita commerciale nata ai suoi

margini e al progresso tecnologico delle sue attività.

La descrizione di questi aspetti della città, pur nella sua

complessità, viene espressa dall’autrice in maniera semplice e

chiara. Chiunque, anche digiuno di dialetto siciliano, è in grado

di recepirne il linguaggio e il significato delle immagini di

sapore popolare.

L’impostazione armonica dei vari argomenti del libro lo

rendono piacevolmente gradevole senza alcuno sforzo di

coordinamento o necessità di collegamento tra le varie parti.

Concludo dicendo che siamo in presenza di una grande

opera dalla facile e piacevole lettura che arricchisce la conoscenza

della città in modo semplice e conciso.

 

 

 

 

PAROLA AL CIOCCOLATO

 

 

Ho terminato di leggere questa interessantissima raccolta

antologia edita da Akkuaria e curata da Vera Ambra.

Non vi nascondo che in me sono nate delle perplessità in

merito alla classificazione del libro, che non so proprio

definire.

Ho pensato di definirlo un manuale del cioccolato, dei suoi

pregi e delle sue qualità olfattive e nutritive, ma non è solo

quello.

Vi sono dei racconti, delle poesie, degli aneddoti, dei

riferimenti storici, delle considerazioni che superano l’elenco

dei suoi modi per essere confezionato e gustato. Pertanto non è

un manuale da utilizzare da parte di chi per professione fa il

dolciere.

Non è neppure un rigoroso trattato scientifico, atto a rilevare

le qualità organolettiche e gustative o che descriva il suo modo

di offrirsi in commercio.

Non è tutto di tutto questo ma in effetti lo è nel modo più

completo e assoluto, stupendamente descritto dai vari autori sia

in prosa che in versi.

Lo possiamo solo definire il libro del cioccolato, dove

convivono insieme a profusione e senza esclusione d’alcunché

tutte le caratteristiche e qualità di questo prodotto, descrivendone

qualità aspetto, impiego, origine, evoluzione del suo

impiego nel tempo, fatterelli piccanti, storielle e poesie

d’amore, apoteosi del suo gusto, località di produzione e di

perfezione, citazioni di persone che di tale prodotto ne hanno

fatto un monumento che emerge e supera ogni altro tipo di

dolci anche nel campo della sua confezione e uso nell’industria

dolciaria.

Figuratevi che qualcuno è andato fino anche a scoprire che

al povero Re Sole, Luigi XIV, si aggiunsero due raggi spuri al

suo splendore, che lo resero… più splendente, bevendosi la

storia che la moglie avesse dato alla luce una neonata mora a

causa del troppo cioccolato da lui consumato durante il loro

rapporto amoroso.

Sembra proprio quasi gustare il suo profumo e la sua

dolcezza nel leggere le poesie che aleggiano intorno a questo

prodotto, introdotto in Europa dal nuovo mondo dopo la sua

scoperta nel 1492, avvenuta da parte di Cristoforo Colombo.

Con la pubblicazione di questo libro Vera Ambra e la sua

casa editrice Akkuaria hanno effettivamente raggiunto il

massimo nel descrivere tutto ciò che concerne il cioccolato.

A questo punto non posso non definire questo libro, che uno

zibaldone il cui personaggio principale, anzi unico, altri non è

se non il cioccolato con in testa la corona e in mano lo scettro

di monarca assoluto del mondo favoloso dolciario per il suo

largo impiego nella corrispondente industria.

Di questo monarca, viene rivelato tutto, dalla sua

provenienza al suo impiego totale, comprese le leggende che

nacquero intorno alla sua nascita e al suo arrivo in Europa sui

Galeoni spagnoli e inglesi.

Per saperne di più e totalmente, non è necessario andare a

consultare l’enciclopedia Treccani. Basta cercare in questo

libro e trovarne la risposta legata ad ogni quesito.

“Cento dieci cum laude” a Vera Ambra, al suo libro e ad

Akkuaria, che ha rivelato la sua potenzialità non solo poetica,

ma anche utilitaria. Diciamo meglio che ha saputo sposare

l’utilità con il sentire poetico e l’amaro-dolce di questo

pregiato miracolo della natura.

Lunga vita al cioccolato.

 

 

 

 

COMMENTI ALLE OPERE DI ALCUNI

AUTORI DI AKKUARIA

 

 

 

 

LE COSE CHE NON ESISTONO

di Alessandra Felli

 

Resta ben poco da commentare dopo la prefazione di Anna

Manna a questo libro di poesie d’amore di Alessandra Felli.

Argutamente viene evidenziato il territorio su cui spazia la

poesia della Felli, fatta di sguardi, tentazioni, carezze, paure,

ansie, ingenue vittorie e amplessi veri e dell’immaginazione

della psiche e della carne.

I voli pindarici sulle “cose che non esistono”, ma che in

realtà avvengono perché sognate e desiderate, nonostante le

remore imposte da atavici tabù, danno un sapore dolce-amaro e

un colore variegato ai sentimenti affioranti dai singoli versi.

C’è un luogo scuro

dove il buio è pace

e il silenzio sa di zucchero

e gli occhi un momento dopo,

per sapere se sanno ridere.

Dal sapore di quei baci che non avrai

che non avrò, che non vorrai

Tra le labbra nascondi profumo di vaniglia

da condividere la sera

e saliva di sale

per gli istanti amari

È la descrizione di un mondo che oscilla tra il saffico

affiorante in tutte le sue sfaccettature e l’esaltante narcisismo

che fa capolino prepotente di tanto in tanto nel crogiolo dei

sentimenti.

Ingoierò i tuoi rimorsi

E baci e sguardi e risate

e quel che vuoi

fino a farmi dimenticare

Degli amanti mi seduce

Il gioco velato.

Sarei bella

così accartocciata?

Dimmi che sono bella

fino a che la mia vanità sia paga.

La forma poetica adottata è quella moderna che non tiene

conto delle impostazioni classiche del passato, in cui è tutto

preordinato secondo uno schema di metrica cadenzata e

occorrendo rimata. Nessuna metrica, nessuna rima, nessuna

impostazione schematizzata.

La musicalità dei versi è improntata spontaneità d’espressione

Ogni poesia è l’insieme di quadretti spontanei in liberi versi

di diversa grandezza, che riescono a sintetizzare concetti e

sentimenti altamente profondi.

Nel leggere le immagini poetiche, che si susseguono in

maniera armonica, sembra di assistere con la mente a pennellate

di parole che si stampano sulla carta, come potrebbe

avvenire con macchie di colore sulla tela d’un pittore impressionista.

Pertanto, piacevole e scorrevole ne risulta la lettura, che

sintetizza splendidamente i concetti di non facile comprensione

e condivisione.

 

 

 

 

NEL NOME DELLA VERITÀ

di Maria Stella Sudano

 

Ho letto tutto d’un fiato e riletto con attenzione il libretto di

poesie della Sudano e anche la prefazione, che ha pure la

valenza di commento, scritta da Gabriella Rossitto.

Dopo la dotta esposizione di quest’ultima poco mi resta da

dire in proposito, essendo stato centrato benissimo l’argomento

trattato esponendo con dovizia e sapiente tecnica i caratteri

salienti dell’opera della Sudano.

Si tratta, in sostanza, di poesie metaforiche imperniate sulla

descrizione dei vizi e delle virtù dell’umanità, considerate delle

vere “gabbie” dell’umano sentire, come le ha definite la

Rossitto, e esposte con una tecnica linguistica permeata di

allegoriche considerazioni, che hanno un significato filosofico

molto profondo e richiamano alla memoria concetti forse già

triti e ritriti dalla dottrina sociale e religiosa, che, però,

richiamano il gusto della modernità contemporanea al punto

tale da farle sembrare una novità assoluta.

Se mi è consentito il paragone, alla fine della lettura, mi è

sembrato di aver letto le teorie filosofiche di Emanuele Kant,

espresse con un linguaggio che richiama l’immediatezza

espressiva di Ungaretti.

Per l’appunto, la descrizione dei vizi e delle virtù dell’umanità

richiamano alla memoria le categorie Kantiane

dell’Io categorico e, non a caso, viene citato il Nietszche, che

ha molto in comune con Kant, il padre vero in assoluto

dell’idealismo.

Inoltre il linguaggio conciso, immediato, asettico, schematico

e incisivo, usato nel descrivere questo campionario

dell’umano sentire ricorda tanto lo stile di Ungaretti.

Anche le illustrazioni semplici e schematiche di Antonella

Maria Piazza, di cui è corredato il libro, richiamano questo

riferimento ad Ungaretti. Pochi segni e colori indispensabili

alla bisogna, senza eccessiva ridondanza delle forme, che

risulterebbe superflua e retorica.

Decisamente, per i motivi sopra esposti, siamo in presenza

di un’interpretazione letteraria moderna e contemporanea, di

concetti universali che sono alla base del sentire umano, come,

del resto riesce a esplicitare bene la Rossitto nella sua

prefazione.

 

 

 

 

AZZURROGUSTO

di Mariella Sudano

 

 

Ho finito di rileggere il libretto di poesie Azzurrogusto” di

Mariella Sudano e, come ormai è mia consuetudine, mi accingo

a scrivere le mie considerazioni sull’opera.

Si tratta di una ristampa e, quindi, quasi sicuramente di

poesie, che hanno preceduto quelle “Nel Nome della Verità”

della stessa autrice.

In proposito è da dire che lo stile, conciso, sintetico,

pragmatico, è identico e ispirato alla dialettica poetica di

Ungaretti. Versi semplici, brevi, taglienti, statuari, ricchi di

immagini che si attagliano a realtà intime dell’animo umano in

un fiume di metafore attinenti.

La differenza sostanziale tra le due opere sta nel contenuto

delle poesie. Mentre l’argomento delle poesie dell’altro libro

spazia su vari temi più generali, quello delle poesie di

Azzurrogusto è volto esclusivamente all’analisi del rapporto

sentimentale di chi è coinvolto in quella grande avventura

dell’animo umano che è l’amore.

Le stesse figure, disegnate dall’autrice, che accompagnano

ogni singola poesia risentono dello stesso stile poetico

sopraddetto e nella loro espressione ermetica, richiamano

quelle curve tipiche del cuore e rispecchiano con la loro

flessuosità la delicatezza dei sentimenti sfiorati, ma

intensamente sensuali.

Poesie, versi e parole usate, legate ai disegni sono delle

metafore stupende di ciò che l’animo umano sente nello stato

amoroso che, a prescindere dall’esperienza personale, assurgono

alla universalità del sentire umano nella sua espressione.

Ecco i versi d’una poesia:

 

Morbido confine

dagli angoli a sorriso

ti sfioro

con la lingua

dei lemmi del cuore

Ed ancora in un’altra poesia

brindisi

a sgorgare di fontane

nella notte di sole

fertile di semi

Ed in un’altra ancora

Ti accendi

Calore d’occhi di montagna

A sciogliere

il gelato come un dono

al sapore di papaya.

Potrei continuare a citare altri versi, ma tanto basta per

evidenziare la delicatezza delle immagini espresse che rivelano

la profondità dei sentimenti. Dovrei anche riportare i ghirigori

curvi o angolati riportati a fronte, ma non ne sono capace.

Bisogna saperli leggere e interpretare nel loro evolversi tra il

bianco e il nero fantasticamente composti tra curve e angoli

aguzzi..

Non so se possa trovare realizzazione il sogno dell’autrice di

diventare una grande scrittrice, poiché a mio giudizio, ogni

accadimento umano trova la sua realizzazione a seconda delle

circostanze.

A tal uopo cito il caso del Verga, il cui talento emerse in

seguito ad un caso fortuito, ossia, al clamore che suscitò l’esito

giudiziario mosso da lui all’editore Treves e a Mascagni

intorno all’opera della “Cavalleria rusticana”, tratta da una sua

novella. Chissà se, senza tale azione giudiziaria, sarebbe mai

emerso il suo genio e se oggi si discuterebbe in letteratura del

suo “verismo”.

Ma una cosa è certa, a mio avviso, che la Mariella Sudano

ha tutti i numeri per fare bella mostra di sé nel campo delle

lettere.

Le auguro che possa realizzare il suo sogno e avere quel

successo cui agogna e che, penso, meriti.

 

 

 

 

 

ULISSE SONO IO

di Gabriella Rossitto

 

 

Questo poemetto, che infine di questo si tratta, della

Rossitto ha inizio con il Proemio, dove l’autrice inizia la sua

esposizione poetica chiedendo perdono ad Omero per la sua

intrusione nei meandri della ciclopica opera dell’Odissea e

continua identificando se stessa con i vari personaggi femminili

incontrate da Ulisse durante il suo periglioso rientro ad Itaca

dopo la distruzione della città di Troia e, oltrepassando ogni

limite, finisce per identificarsi anche nella stessa figura

dell’eroe greco.

In effetti ha ben donde l’autrice di chiedere venia ad Omero,

poiché da questo suo poetico lavoro, tutto il castello di

considerazioni psicologiche avanzate dall’aedo per eccellenza

del mondo greco, crolla e si arena sulle rive sabbiose di un

nuovo modo di concepire la femminilità alla luce di una analisi

del tutto sentimentale e innocua, che infine risulta aperta critica

al passato.

I vari personaggi femminili, a cominciare da Calipso, Circe,

Penelope, Nausicaa e le stesse sirene, introdotte nell’Odissea

come un riempimento per esaltare la figura di Ulisse, finiscono

per diventare le vere protagoniste nel poema, mettendo in

ombra la figura dell’eroe nonostante le sue decantate virtù, che

sembrano ben poca cosa nei confronti di una grandezza volta

tutta al femminile.

L’autrice ottiene tutto questo semplicemente descrivendo le

sensazioni di queste donne, trascurate del tutto da Omero, a cui

interessava evidenziare solamente la forza, l’astuzia, l’amor di

patria, la vendetta, il maschilismo del suo eroe.

Ecco quindi emergere i sentimenti delle donne abbandonate,

a volte con sprezzo, dall’eroe greco, sentimenti che eviden-

ziano il loro alto valore morale e umano del tutto trascurato da

Omero.

È possibile così scoprire il dolore di Calipso per l’abbandono,

la disperazione di Circe, non più la maga adescatrice di

uomini nobili e virtuosi, la delusione di Nausicaa, non più

l’ostacolo sinuoso e silente al rientro ad Itaca, la felicità

repressa di Penelope, che non è più la sottomissione al marito

assente e anche le stesse sirene, ammaliatrici irriguardose del

mare, diventano delle sofferenti donne impedite nel loro

desiderio insoddisfatto di possedere quell’uomo strettamente

avvinto al palo dalle improvvide corde.

Inoltre nell’identificarsi con Ulisse, emerge la parte femminile

dell’eroe ignorata da Omero e che si manifesta nel sentire

egli stesso il diverso impulso dei sentimenti delle donne con le

quali è venuto in contatto durante il suo viaggio, che possiamo

identificare all’umano sostare dell’umanità in questa nostra

vita.

Ecco quindi che Ulisse non appare più come il marinaio

dalle avventure amorose in ogni porto che tocca, il caparbio

esploratore di mondi nuovi, come lo descrive anche Dante, non

più l’uomo forte capace di tendere l’arco, di cui altri uomini

non sono capaci, non più il vendicatore sagace dell’onore

inteso come possesso della sua donna, l’astuto vincitore del

Ciclope e dei Proci, non più lo sprezzante virtuoso capace di

respingere le tentazioni femminili d’ostacolo al suo amor di

patria.

La sua mitica figura di eroe viene mitigata e ridotta piuttosto

a quella di un uomo pieno di pregiudizi, di cui il peggiore è

quello di sentirsi al di sopra dei sentimenti intimi delle persone

e soprattutto alle donne che risultano nel suo complesso delle

semplici appendici al suo vivere trionfante di eroe.

Ma sicuro che Omero ha da essere certamente incavolato

per l’opera dell’autrice, la quale riesce a rovesciare tutto il suo

castello costruito intorno al suo Ulisse, con un poemetto

semplice, schematico, piacevole a leggersi con una tecnica

espressiva surrogata da versi brevissimi e con l’introduzione di

termini talvolta blasfemi alla luce delle regole grammaticali,

ma profondamente incisive nell’intento da sembrare singhiozzi

di commozione, laddove egli impiega un colossale poema ricco

di versi ridondanti di magiche espressioni, di lunghe

dissertazioni poetiche, ma anche retoriche, scomodando

l’intero olimpo del mondo greco e le superbe figure di

personaggi mitici.

È come paragonare il trionfo del piccolo Davide nei

confronti del mastodontico Golia.

Un altro motivo del risentimento di Omero è senza dubbio

l’aver richiamato, la nostra autrice, la funzione del coro, tipica

delle tragedie greche, di cui il sommo poeta non si serve,

ritenendo bastevole il suo dire.

Sentire la voce delle donne che condividono in coro i

sentimenti di ogni singolo personaggio potrebbe essere

considerata una novità, che tale non era nella letteratura teatrale

antica del mondo greco, di cui la nostra autrice dimostra di

conoscerne gli estremi.

Non posso non evidenziare, infine, la stupenda descrizione

della figura di Penelope, tratteggiata veramente con una

delicatezza sentita e di gran lunga superiore, a mio avviso, a

quelle degli altri personaggi, compreso Ulisse che appare nel

titolo del libro.

Nel concludere, mi preme evidenziare non solo la piacevole

tecnica espressiva della Rossitto, ma la sua profonda conoscenza

del mondo classico greco e una consapevole facoltà di

analisi del mondo femminile rapportata alle problematiche

esistenziali.

Siamo effettivamente in presenza di una donna, anzi di una

artista, colta, sensibile, attenta e profondamente cosciente dei

valori dell’essere donna, senza, per altro, inveire nei confronti

dell’altro sesso.

Ella riesce a dimostrare di essere lei il vero Ulisse,

solamente adoperando la sua sensibilità e la sua vena poetica e

con una signorilità che s’addice ad una grande donna.

 

 

 

 

DONNA, MERAVIGLIA DEL CREATO

di Paolo Salamone

 

 

Ho letto con attenzione il manoscritto inviatomi da Vera

Ambra che ha per oggetto le poesie di Paolo Salamone per un

mio giudizio critico su tutta l’opera, che non può non essere

che positivo per le motivazioni che mi accingo ad illustrare.

Egli, nelle singole poesie, non fa che descrivere i vari aspetti

che la donna assume nella vita dell’uomo, rispettoso e

ammirato delle sue qualità a cominciare dall’approccio,

all’addentellato con la divinità, proseguendo nella vita comune

di tutti i giorni con i riflessi su drammi, momenti di

ammirazione e analisi di situazioni diverse.

Tutto ciò costituisce la ricostruzione storica della vita di una

donna, quale emerge nel giudizio sociale lungo tutto il percorso

dei secoli. Inconsapevolmente o forse con voluta intenzione il

Salomone descrive con intenso calore umano tutto ciò che

l’uomo ha sentito e continua a sentire nei confronti della

donna, che prescinde dalle sue qualità spirituali e fisiche.

Siamo al superamento del concetto stilnovista della donna

come anello di congiunzione tra l’umanità e la divinità o di

quella meramente materialista della donna oggetto e fonte di

piacere. Spirito e materia si fondono in un unico concetto, che

è quello della fusione in un elemento unico che la natura le ha

assegnato: compagna assoluta e compartecipe della dignità

umana ed è sotto questo aspetto che la donna viene descritta

nell’immaginazione in tutte le situazioni, anche quelle

momentanee e di poco conto, quali le occasionali ammirazioni

o le tragedie cui va incontro.

Purtroppo così non è stato lungo lo scorrere del tempo. Non

va dimenticato che la donna “ab origine” era considerata di

ruolo secondario rispetto all’uomo, se non, addirittura, a quello

di schiava. Bisogna attendere l’avvento del Cristianesimo per

una rivalutazione della figura femminile, impersonata nella

madre del Figlio di Dio. Nonostante tale avvento, la figura

della donna ha sempre assunto un ruolo di secondo piano

rispetto alla figura maschile. Ebbene. Il Salamone cancella

questa disparità fra i due sessi assegnando alla donna il ruolo

che merita: dolce compagna alla pari dell’uomo. Da tutta

l’opera emerge, quindi, la figura di una donna che nulla ha a

che fare con la turbolenza manifesta in alcuni aspetti del

femminismo esasperato e la considerazione che tutti i suoi

pregi o difetti sono componenti comuni ai due sessi. È cosi che

vengono rivalutati i suoi impulsi amorosi, un tempo mortificati,

la sua forza del pensiero e le sue capacità sociali.

Anche dal punto di vista metrico, le poesie tutte trovano il

mio consenso, poiché rifuggono dalla rima e adottano lo stesso

sistema moderno che io adotto nelle mie poesie che, poi, è

quello del Leopardi: il settenario o l’endecasillabo alternati e

sciolti, armoniosamente e intelligentemente usati con le cesure

e gli accenti tonici. Preferisco non citare alcun verso, lasciando

la possibilità al lettore di leggerli tutti con attenzione e farne

bagaglio culturale.

 

 

 

 

TRA LE TUE DITA

di Dario Miele

 

 

Durante la manifestazione Viaggio tra le Vie dell’Arte a cura

di Vera Ambra, che si è svolta presso la Biblioteca Vincenzo

Bellini di Via Sangiuliano a Catania, mi è capitato tra le mani il

libro di poesie Tra le tue dita di Dario Mele.

Ho cominciato a leggerlo tralasciando la premessa, come da

mia abitudine. In verità a me, cui piace molto leggere, piace

pure lasciarla per ultima e dopo aver formulato un mio giudizio

sul testo.

In questo modo riesco ad avere una visione chiara di quanto

leggo, senza dover subire il giudizio espresso in premessa da

altri.Ho scoperto che il tema comune a tutti i versi che si susseguono

nel libro in questione è unico e solo: l’amore, riferito al

rapporto sentimentale e sensuale che si instaura tra l’uomo e la

donna, ma vissuto, raccontato e analizzato da parte dell’uomo.

Del resto è nella norma, essendo in presenza di un autore di

sesso maschile giovane che chiaramente non intende illustrare

trasgressioni in questo settore dell’umano operare.

Vengono ampiamente descritti i sentimenti dell’autore e le

sue reazioni emozionali, nonché di desiderio alla sua felicità

senza per altro soffermarsi su quello che possa provare

l’oggetto della sua passione, che risulterebbe, in ogni caso

totalmente immaginabile, ma non certo e reale.

Semmai, egli si limita solamente a esortare la sua amata ad

aprirsi maggiormente a lui, che offre tutto il suo amore, di

provare quello che lui prova

Ecco alcuni versi che evidenziano quanto detto, ma non

sono i soli, poiché anche gli altri sono dello stesso tenore.

“Seguimi nei giorni senza fine

che vivono negli occhi tuoi”

“Bruciami

e fai di me

temibile banchetto”

“Legami a te

angelo terrestre

dal volto ignoto”

“Assapora il respiro

Che t’ho soffiato sulla pelle”

Del resto, se così non facesse, le immagini, molto ricche di

sensualità potrebbero trascendere in qualche cosa che poesia

non è, ma mera descrizione becera di lussuria

Con molto piacere e intima soddisfazione letteraria, ho

notato che l’estrinsecazione dei sentimenti molto delicata ma

imperante, è accompagnata dal desiderio bruciante e

incontenibile dei sensi. Una vera ricerca della felicità attraverso

i sentimenti che suscita l’amore perfetto e equilibrato tra affetto

e passione.

“Versati verso me

io svanirò celatamente

dall’inseguire dei tuoi odori”

“Odori di te m’avvolgono

nel profumo setoso di rose rosse

essenze di anime mai assorte “

È un continuo attingere nel proprio io delle immagini

poetiche che esternano il suo sentimento e il suo desiderio per

l’oggetto del suo amore, che, magari è solamente sognato, non

reale, ma in ogni caso intensamente cercato e fonte di felicità.

Questo groviglio di sentimenti di desideri e di aspirazioni

quasi eteree ma fortemente sentite, sono esposte con un

linguaggio adeguatamente musicale e armonioso nella loro

brevità quasi mormorata e cosparsa di piacevoli sussurri.

Senza tema di smentita siamo in presenza di un menestrello

dell’amore che canta al mondo intero i suoi sentimenti alla

stessa stregua dell’usignolo innamorato a primavera.

Una figura questa non del tutto nuova nella letteratura

italiana, che ricorda i suoi albori, quelli che dettero l’avvio al

dolce stilnovo di Guido Cavalcanti, Dante e Petrarca e

successivamente alle ballate del Poliziano. Mi riferisco alle

improvvisazioni poetiche dei trovatori, che cantavano

composizioni amorose alle loro donne, principesse di sogni

stupendi, ma raggiungibili.

Sostanzialmente il Miele, pur con una tecnica diversa

all’ermetismo dell’ultimo periodo letterario riesce a farci

rivivere attimi di serena contemplazione interiore del suo ideale

dell’amore, che è elevazione spirituale e anche materiale della

figura femminile, oscillante tra il cielo e la terra e tutto ciò con

un modo di sentire antico e pur sempre attuale.

Non a caso la premessa al libro della Rapicavoli, ovvero di

una donna, da me letta e confrontata dopo, coincide nel plauso

per quanto esternato dall’autore.

Non nascondo che il mio giudizio del tutto positivo è

influenzato dal quasi mio identico modo di trattare questo tema

del sentire umano, basato sull’analisi del proprio io, da cui

trarre immagini poetiche e d’amore per la figura della donna,

che, nello stesso tempo è spirituale e materiale, ma lontano da

becere e volgari espressioni.

Per il futuro mi auguro che il Miele affronti, come del resto

ho fatto io, altri temi dell’umano sentire con la stessa foga,

armonia di pensiero e di immagini usate in questa occasione.

Esistono nel mondo altri temi dell’amore, il cui oggetto non

è solo la donna, ma l’umanità intera, la natura, la scienza, il

perdono, la carità e la giustizia sociale, tutte cose degne di

essere poeticamente e intensamente esplorate.

 

 

 

 

ITACA DISPERSA

di Dario Mele

 

 

Per prima cosa debbo chiedere scusa a Dario per non essere

potuto intervenire alla presentazione del suo nuovo libro di

poesie. Purtroppo ad una certa età non si è sempre pronti a

seguire i propri impulsi per una questione non di comodità, ma

di impedimento fisico. In seconda istanza devo ringraziare

l’amica Vera Ambra, che ne ha curato la stampa, per avermi

inviato una copia del libro e, quindi, di poterne commentare il

contenuto.

Non nascondo che la mia curiosità era alquanto al massimo

leggendo il titolo: ITACA DISPERSA! Ho iniziato a leggere

aspettando di veder emergere dalle pagine la figura dell’eroe

greco di cui Omero ne aveva fatto un mito per quella sua

assenza da Itaca durata venti anni dedicata ad una guerra e ad

un periglioso rientro in patria.

In effetti dai versi usati da Dario non emerge la reale

immagine dell’eroe, ma la sua gigantesca mole di sentimenti,

dei quali forse nemmeno lontanamente Omero teneva a

mostrarci, ma che altre leggende in merito hanno interessato la

sua figura.

Omero aveva in mente l’intenzione di mostrare solo la

furbizia di questo personaggio che grazie alle sue vicissitudini

ha assunto anche il ruolo dell’uomo innamorato della moglie

Penelope, il quale solca i mari, incontra infinite difficoltà che

vince pur di ritornare ad amarla.

Alla fine mi sono convinto che Dario abbia analizzato il

viaggio fantastico che si cela nell’animo di Ulisse descrivendo

nei particolari i momenti di un amore, anche se di altri amori

Omero l’ha descritto autore. In sostanza egli si sostituisce in

epigrafe allo stesso Ulisse descrivendo le tappe di una vicenda

amorosa, quella per la moglie Penelope, semplicemente citata

da Omero, ma che sicuramente ha influenzato la sua psiche più

che le altre donne.

Non poteva il suo Ulisse non osservare le tappe di un amore

che nasce spontaneo e che lo assorbe dall’inizio fino alla fine

della sua vita.

Pertanto egli narra i momenti dell’innamoramento con tutte

le ambasce, i dubbi, i sogni e le chimere che si affacciano

nell’attimo della conoscenza, una seconda fase in cui vi è la

pienezza dell’amore corrisposto pienamente e condiviso e

infine la terza fase che descrive l’abbandono.

Ricordo in proposito che, come Dante racconta nella sua

Divina Commedia, Ulisse lasciò Itaca nuovamente alla ricerca

di altre avventure e sicuramente avrà sofferto per soddisfare

questa sua esigenza di viaggiatore dovendo riabbandonare la

moglie.

Ecco quindi che Dario compendia nei suoi versi gli stati

d’animo delle tre fasi che sono l’ossatura di tutte le vicende

amorose, trovando per ognuna la giusta luce e ombra nei

risvolti fantastici che plasticamente si affacciano alla ribalta

della vita.

Da tutto questo lavorio di pensieri, movenze, aspettative,

delusioni e trionfi, pianti, mugugni, sorrisi dell’anima,

appagamenti spirituali e materiali prendono corpo figure che

sono state e sempre saranno finché il mondo vivrà. In

proposito, la prefatrice, che indubbiamente è più colta di me in

materia d’arte, cita, non a caso, i quadri di Fontana per la

plasticità delle immagini.

Alla luce del mio giudizio, che è quello dell’uomo in parte

digiuno d’arte e che si affida alle sensazioni che la lettura gli

consiglia, Dario usando le parole in un’armonia metrica che

tiene conto della tonalità dei versi, riesce a dare una completezza d’immagini veramente poetica e anche nuova. I versi non

sono tutti eguali, ma vari e adatti ad ogni circostanza: una

tecnica nuova che indubbiamente lo distingue dalla tradizionale

forma della poesia legata alla staticità del periodare.

Leggendo una qualunque opera letteraria nell’evidenziarne

le caratteristiche, mi sono sempre chiesto quali ne fossero

anche i limiti. La stessa cosa ho fatto nei confronti di questa

opera di Dario, dove tutto corrisponde ad un’armonica visione

chiara e convincente. Ebbene, non nascondo che nei ricordi

della terza fase la descrizione di alcuni risvolti che evidenziano

particolari momenti ci si addentra in visioni descrittive che, a

mio avviso, non giovano alla visione fantastica di un mondo

che è meglio lasciare alla fantasia del lettore. È come voler

mettere per forza le briglie ai cavalli scalpitanti impedendo loro

di dare libero impulso alle loro aspirazioni del momento.

Auguro a Dario il meglio del successo, che son certo

raggiungerà, per i suoi meriti non solo letterari, ma anche

umani.

 

 

 

 

IL FIATO DELLE STELLE

di Maria Rita Coppa

 

 

Leggendo questo libro di poesie di M.R. Coppa, mi è venuto

in mente il famoso Cantico dei Cantici, di cui or non è guari

l’estroso Benigni ci ha ricordato l’esistenza tingendolo di una

sua tutta particolare interpretazione.

L’attore in questione colora di sesso l’Amore di cui parla la

Bibbia e trascende in particolari del tutto materiali difficilmente

digeribili da chi è ligio alla tematica dottrinale cristiana

e relativi limiti espressivi.

La Coppa colora invece l’Amore di uno spiritualismo

consone alla dottrina cristiana tradizionale, ma anche lei

indugia, senza, alcun dubbio, su concetti assorbiti da altre

culture teologiche. Infatti, tra le righe esplicative in prosa e

alcuni versi, occhieggiano riferimenti al mondo iperuranico di

Platone, alla filosofia socratica e allo stesso scenario descrittivo

del paradiso islamico, non escludendo un pizzico dell’io

categorico kantiano e un riferimento a teorie orientali circa la

trasmigrazione delle anime. Sembra proprio che l’autrice

voglia vestire l’abito di un ANGELO TESTIMONE che superi,

pur riconoscendone la validità, la dottrina cristiana, scivolando

in un mondo olistico permeato di un soffuso panteismo

universale, che porta a considerare appunto il Fiato delle stelle

e tutto l’Universo non come l’opera di Dio, ma Dio stesso. Non

è, dunque, che Dio è dentro di noi come dice l’Autrice in una

sua nota iniziale, ma al di sopra di noi, in quanto Egli ci ha

creato a sua immagine e somiglianza come sostiene la fede

cristiana e non è che Lui sia entrato in ogni singolo uomo. Egli

ha semplicemente impresso nella sua anima i concetti del Bene

e del Male, lasciandogli la libertà di scegliere, come ha

dimostrato S. Agostino, citato dalla stessa Autrice. Se Dio è in

noi non siamo ovviamente liberi di fare il male, come

chiaramente avviene nel mondo. Noi siamo degni di Dio se

scegliamo di fare il Bene liberamente.

Tuttavia, nel susseguirsi dei versi, permeati veramente da

una fantasia poetica stupenda, inconsapevolmente l’Autrice

smentisce questa sua nota, rientrando nei canoni dottrinali

cristiani, ammettendo che gli stessi angeli altro non sono se

non creature di Dio da Lui destinati a fare da tramite con

l’umanità. D’altronde anche i concetti poeticamente espressi

dall’Autrice relativi alla Fede, la Speranza, la Carità, il

Perdono, la Comprensione e l’Amore per il prossimo, fanno

emergere la consistenza della religione cristiana, che non può

essere superata da altre teorie teologiche.

A prescindere dalle fantastiche descrizioni poetiche e dei

riferimenti pindarici al creato e ammirazione creativa

dell’opera di Dio, descritti con armonica melodia metrica

veramente magistrale, dove emerge maggiormente la poesia

nella sua espressione più alta in tutta l’opera è quando l’Autrice

affronta i sentimenti parentali e amichevoli. Mi limito a citare

semplicemente i titoli di alcune poesie che maggiormente mi

hanno colpito: Tenero idillio Ultima lettera d’amore, Abbracci

di compassione, Io per te, La compassione, omettendone di

descriverne il contenuto e di citarne i versi per stimolare alla

loro lettura.

Una nota particolare, oltre alla scioltezza dei versi e l’uso

appropriato delle parole, va ascritta alla profonda cultura

filosofica e teologica dell’Autrice, nonché alla conoscenza

dell’IO AUTENTICO di ogni singolo individuo, tratteggiate

con grande perizia e consoni al linguaggio poetico.

 

 

 

 

QUANDO CADEVANO LE NUVOLE

di Marta Limoli

 

 

A definire sinteticamente il contenuto di questa raccolta di

poesie di Marta Limoli sono sufficienti le parole che la stessa

autrice cita in prefazione: “siamo in presenza di palloncini

pieni di ricordi che si librano nel cielo azzurro”.

Il cielo è lo scenario poetico in cui sentimenti e pensieri

accumulati nel tempo salgono leggeri, spontanei, senza alcuna

remora restrittiva che li vincoli alla realtà se non quanto basti

per essere da supporto ad un mondo non descritto, ma intuito.

I palloncini dei ricordi vengono su non sparpagliati e

disordinati, ma seguendo l’ordine temporale del vivere umano.

Un vero quadro astratto, ma ordinato di emozioni

armoniosamente accennate nel silenzio del cielo, pari a nuvole

la cui forma è sempre varia e difforme.

Cominciano a salire quelli riguardanti il mattino e nell’ordine

si arriva a quelli della notte nel simbolismo preordinato e

composto della giovinezza e della maturità, insinuando dubbi

sulla realtà attraverso la sua stessa rappresentazione.

Infatti la sua poesia si avvicina al reale non per interpretarlo,

ma per mostrare il suo mistero indefinibile. Allude, ma non

definisce. Tutto rimane nel vago e nel meandro dei misteri del

pensiero e dell’anima, che giocano a rimpiattino nella psiche

dell’autrice.

Non emerge da tutta questa vasta produzione e impegnativa

azione letterale alcun suggerimento che possa modificare e

definire i fatti vissuti, i quali altri non sono se non fantasmi di

castelli svettanti nella fantasia.

Proprio da quest’ultima considerazione, scaturisce il clima

poetico di ogni singolo tratto di vita, specialmente al mattino,

cioè, nei sogni che si susseguono nell’età giovanile tra sogni,

indugi, irrequietezze, desiderio di provare, timore di abbandonarsi

agli stimoli dei sensi. Ma anche a sera, quando giunge la

maturità e la consapevolezza di esperienze vissute, emerge

prepotente il gusto del piacere e il nostalgico ricordo di

occasioni perdute.

A questo contenuto poetico contribuisce il linguaggio non

sempre comune, ma ricercato, agghindato, quasi studiato a

voler descrivere e non definire, alludere e non convincere o

materializzare eccessivamente sentimenti e azioni, nonché la

stesura quasi geometrica dei versi, realizzando a volte delle

figure geometriche triangolari cui viene quasi il desiderio di

applicare il teorema di Pitagora o di Euclide per trovare la

definizione della realtà appena accennata.

Quanto sopra analizzato rende interessante la raccolta delle

poesie di Marta Limoli, vera fonte di riflessioni profonde

proiettate in una analisi dettagliata, ma non definita della

psiche umana, quasi uno studio psicologico dei vari stadi della

vita, scevro da ragionamenti oberanti e affidato alla intuizione

poetica.

 

 

 

 

INNO AL LINGUAGGIO STRUGGENTE

Di Valeria Battiato

 

 

In verità, più che un inno al linguaggio struggente io lo

chiamerei il quadro delle nefandezze nello storico percorso

dell’umanità perduta.

L’autrice inizia con il descrivere orride scene che richiamano

alla memoria, se non vado errato, la rivoluzione francese

del 1789 e prosegue con quella dell’occupazione nazista e dei

bombardamenti americani dell’ultima guerra.

Segue il ricordo del ponte di Genova che contempla le sue

vittime, nonché Milano annichilita da terribili avvenimenti e

che ha visto corpi orrendamente penzolanti e successivamente

preda di grassazioni, egoismi, omicidi, suicidi e vessazioni,

nonché la descrizione della orrenda guerra nel Laos e accenni

al disastro della rivoluzione sovietica, che ha anche assorbito il

mancato ritorno in patria di soldati italiani mandati allo

sbaraglio. E in tutto ciò trovano spazio anche le contraddizioni

della politica, l’affiorare della figura di Pasolini, del tedesco di

Eco e di Borges. Segue anche un elenco di quartieri a rischio di

Catania simboleggianti il malcostume ivi imperante e il

soccombere di povera gente al supplizio della fame, della

incomprensione e della delinquenza.

È tutto un descrivere la violenza nel mondo, senza esclusione

alcuna di cui non solo queste località ne sono l’esempio. Ma

la descrizione non si limita a questo solamente. Lo sguardo si

volge ad una analisi dissacrante di tutti i difetti di questo mondo,

che vanno dall’omicidio, alla violenza alle donne, dall’incomprensione

all’egoismo, dall’accumulo disonesto di ricchezza

alla povertà più nera, dalla finzione d’affetti alla violenza

sfrenata sulle donne, dal latrocinio camuffato di bene all’aperto

saccheggio di riserve economiche, dal desiderio di riscossa del-

le donne che sbarca nella prostituzione …

Sembra proprio di assistere ad una sintesi dell’Inferno

dantesco, in cui emergono tutti i peccati capitali e anzi più di

quello poiché ai tempi del sommo poeta non era ancora in atto

la tragedia del coronavirus, alla cui apparizione e conseguenze

l’autrice dà uno spazio non indifferente.

La differenza sostanziale, però, consiste nel fatto che Dante

supera questo stato di miseria umana attraverso altrettante

cantiche del Purgatorio fino al trionfo della Fede e della

giustizia divina, ma nell’autrice di questo inno, nulla di tanto

appare. Anzi sembra che Dio in persona si vendichi di tutte le

malefatte dell’umanità e che i danni di cotanto cattivo operare

sia del tutto irreversibile e privo di spAnche gli stessi ministri

di Dio, i preti, sembrano aver tradito la loro missione. C’è fame

di Dio nel popolo, ma non fiducia negli uomini che lo

predicano. Ad un certo punto dice espressamente l’autrice:

“Questi margini sono frontiere che impediscono approdi nel

futuro”.

Ed ancora in un altro punto:

“Capitoli marci di questo tempoi fanno di me una strega

affamata”.

Il pessimismo più nero e disarmante insiste in tutta l’opera,

mitigato appena dal fatto singolare che conclude l’opera con

“Solo mio padre mi chiede come sto, mentre nel cielo vedo

passare nembi che oscurano il sole”. Tutta questa descrizione è

favorita da uno stile coatto e formalmente saltellante in versi di

diverso metraggio, ora squillanti, ora tacitamente ammiccanti,

che condiscono ed esaltano il pessimismo descritto, anche se

talvolta trascendono in metafore del tutto sibilline, che trovano

comprensione dopo aver letto tutta la composizione.

Direi che il linguaggio e i versi sono adeguati alle realtà

descritte. Forse in questo senso ha ragion d’essere il titolo che

inneggia al linguaggio struggente.

 

 

 

 

SICILIA FRA MITI E LEGGENDE

a cura di Maria Stella Sudano

 

 

Un plauso va all’insegnante Maria Stella Sudano e al corpo

insegnante collaboratore per aver curato la stesura di codesto

libro, sostanzialmente scritto e illustrato dagli alunni della V

primaria – Sez A del Plesso di via Bologna – Istituto Gaetano

Ponte di Palagonia (CT).

Il libro in questione, frutto di una ricerca attenta e

scrupolosa dei miti della Sicilia al tempo dei Greci e dalla

raccolta di fiabe e leggende popolari di Giuseppe Pitrè,

rielaborati dai suoi alunni, indubbiamente ha un alto valore

educativo poiché ha fatto rivivere a questi ultimi un aspetto

culturale della loro terra, la Sicilia, utilizzando anche il

linguaggio tipico siciliano, prestato da alcuni poeti e scrittori

dialettali.

Bravi gli alunni, che sotto la regia della loro insegnate

hanno dimostrato una non comune volontà di apprendimento

storico-culturale che li promuove ad artisti in erba, capaci di

suscitare interesse ed emozioni in chi legge i loro elaborati

disegnati e scritti talvolta anche in vernacolo. Cosa,

quest’ultima, che costituisce un valore aggiunto alla loro opera.

Dalle loro innocenti, ma precise descrizioni, scritte e

illustrate, traspare la meravigliosa scoperta delle ricchezze

culturali della loro terra, che riportano sulla carta con amore e

desiderio di far conoscere ai loro coetanei quanto hanno

scoperto e appreso.

Nulla viene da loro trascurato, dalla nascita fantasiosa della

Sicilia, alla favola di Demetra e Kore, al mito di Alfeo e

Aretusa e alla leggenda di Cola Pesce, che ancora sta

sostenendo il Peloro per non fare affondare nel mare la Sicilia.

Non manca nemmeno il riferimento al mondo sotterraneo di

Thalia, che dette origine alla leggenda dei fratelli Palici e al

nome della loro città, l’antica Palike.

Certamente non tutti i miti potevano essere inseriti in questo

libro, ma è indubbio il fatto che esso costituisce uno sprone ad

approfondire le cognizioni piantate come piccoli semi nel vasto

mondo della cultura, i quali sicuramente germoglieranno

facendo accrescere amore e rispetto per questa nostra Sicilia, di

cui non sempre vengono riconosciuti i suoi valori.

Io, che ritengo di aver contribuito in piccola parte al loro

lavoro, vedendo citati alcuni tratti dei miei lavori in proposito,

mi auguro che tra questi alunni, un giorno venga fuori una

artista, sia esso pittore, scultore o scrittore, capace più di me a

descrivere e onorare la Sicilia, descrivendone le sue bellezze e

ricchezze, nonché i valori culturali, che la distinguono nel

mondo.

 

 

 

 

IL TRIONFO DELL’ARCOBALENO

di Giancarlo Grassano

 

 

Leggendo le riflessioni rimate di Giancarlo Grassano, non

ho potuto non ricordare i miei primi passi nel fantastico mondo

delle lettere.

Ogni occasione per me era buona per poter esternare il mio

pensiero attraverso la lente delle mie osservazioni, che non

restavano mute, ma esternate.

Oggi era il tema della scuola ad ispirarmi, oppure l’amicizia

fraterna e l’amore agli albori dei primi sentimenti e poi la

famiglia e il lavoro Man mano che crescevo, dall’oggi al

domani, questi temi si arricchivano dei contorni della vita e

diventavano scene sognate e da sognare per il futuro. Gli

argomenti diventavano più incisivi, quasi un’analisi interiore

del mio intimo sentire ed ecco che mi si prospettavano

programmi e tendenze spirituali e materiali, che non avevo mai

prima considerato e provato.

Tutto questo mi sembra di rivedere leggendo le “cosette”

che ha scritto il giovane Giancarlo e scopro in lui una

personalità alla ricerca di un modello di vita che gli sembra

chiaro e limpido. Infatti dai suoi versi rimati emerge un insieme

di ideali che nella gioventù moderna è diventato raro scoprire:

interesse per la scuola che è alla base della cultura, la ricerca

della felicità, il superamento della solitudine il ricorso

all’amicizia come fondamento sociale e la scoperta dell’amore,

sintesi di sesso e sentimento, nonché l’aspirazione ad una

famiglia unita come fulcro della vita.

Sono questi i fondamenti su cui basare la propria esistenza

in seno alla società e che costituiscono la vera felicità.

Giancarlo crede in questi ideali e con la forza che nasce dal

suo intimo li espone candidamente, con profonda naturalezza e

sincera ammirazione e soprattutto senza piombare nel pessimismo

di maniera che fu del Leopardi o di altri romantici.

Leggendo questi versi, semplici, spontanei, ancorati alla

rima sempre presente, mi sembra di seguire il corso di una

personalità proiettata verso la luce della bontà e che delle

proprie sofferenze ne fa lo stendardo per vincere tutte le

difficoltà che appaiono all’orizzonte.

Tutto esattamente, come quando, da ragazzo, mi tuffavo

nelle lettere cercando di emulare gli antichi poeti.

Un grazie sentito a Giancarlo per avermi ricordato un tempo

ormai per me lontano e che, purtroppo, non mi è concesso di

ripetere a causa della mia età.

 

 

 

 

DELIRI EMOZIONALI

di Maria Tripoli

 

 

Dopo aver letto i Deliri Emozionali di Maria Tripoli non

posso esimermi dal commentare quanto da lei scritto con il

cuore in mano in uno zibaldone, come lei stessa lo definisce, di

pensieri, riflessioni e opere pittoriche.

Ella stessa lascia intendere in premessa che a fare scattare la

molla dell’ispirazione sia stata l’amore per l’arte e per la

scrittura, nonché il desiderio di un’analisi introspettiva della

sua personalità, che hanno determinato in Lei un travaglio

esistenziale e una trasformazione del suo modo di essere donna

e artista. Con questo, pur sostenendo una verità, non dice nulla

di nuovo e di straordinario.

Chiunque si proponga davanti ad un foglio bianco con in

mano una penna o davanti ad una tela con una tavolozza di

colori, fa esattamente quello che dice Lei. Pertanto il merito di

ciò che ha realizzato non è da ricercarsi nella motivazione che

l’ha spinta a scrivere, ma nella figura della sua personalità di

donna e artista che emerge da quanto lei espone liberamente e

con passione. Lei stessa sostiene che la scrittura è stata per lei

un mezzo per farla uscire dal guscio in cui temeva di restare

soffocata. In effetti appare in Lei in maniera eclatante il

dualismo in cui si dibatte tra una educazione obesa da tabù e

avvolta grettamente nella foschia di ambigue immagini

fantasmagoriche dell’inesperienza e il desiderio di libertà che

le rode dentro e che trova sfogo nella cultura dell’arte non solo

nel campo della scrittura, ma anche in quello della pittura.

Infatti le sue poesie, che assumono l’aspetto di una confessione

incondizionata preceduta da una analisi attenta e coscienziosa

della sua vita e del suo modo di intenderla e i suoi quadri

pittorici denotano gli aspetti caratteristici di questo dualismo

interno che trova libero sfogo nell’espressione ora simmetrica e

ragionata, ora asimmetrica e torbida di una realtà vagamente

sognata.

Le poesie in particolare, e le riflessioni di contrizione e

perdono per quanto di sbagliato abbia potuto commettere nel

passato, trovano un superamento del disagio con il libero

esercizio dell’arte pittorica, che sfocia in un espressionismo

conturbante e armoniosamente in sintonia con il nuovo modo

di sentire.

Direi che il dualismo emerso in lei viene superato non con i

piagnistei e i mea culpa o con la negazione di un mondo

sperato e fortemente cercato, ma con la libera esaltazione della

nuova dimensione in nome dell’arte redentrice di ogni possibile

mancanza o inefficienza, anzi un mezzo idoneo alla esaltazione

del proprio valore morale spirituale e materiale, sia come

donna, che come artista.

Alla luce illuminante di questo concetto, la lettura e la

visione di tutto lo zibaldone assume un aspetto particolare,

poiché alla fine del lungo riflettere poetico e pittorico sembra

di avere assistito alla contemplazione nel buco nero della vita

di una realtà dalle mille sfaccettature colorate, che sono di

raggiunto equilibrio interiore, superamento di crisi depressive,

trionfo delle proprie aspettative, turbamento ed esaltazione dei

propri sentimenti, nonché soddisfazione dei propri sensi, nel

perfetto equilibrio tra anima e corpo È infatti evidente alla fine

che Lei stessa plaude alla gioia di aver trovato l’armonia

interiore nel superamento di fantasiose ubbie, esprimendo i

sensi di una realtà che la ripaga della sua fede nel miracolo

dell’arte libera e cocchiera cui ha sempre creduto, sognato e

desiderato. Siamo in presenza di un’artista che diventerà

famosa? Questo non sono in grado di poterlo affermare poiché

io scrivo, leggo, commento solamente per il piacere di farlo,

senza avere la pretesa di avere una professionalità sufficiente in

merito.

Saranno i posteri a dare l’ardua sentenza, i quali, purtroppo,

risentono degli umori del tempo e della moda. Essi hanno il

potere di rendere celebre chi non lo era e viceversa. Non è un

mistero che Rapisardi, ritenuto un grandissimo letterato, oggi è

considerato poco più che un forbito paroliere e che il Verga,

allora ritenuto un modesto scrittore oggi è considerato un

maestro della letteratura moderna.

Allo stesso modo si può dire di Buzzati, che ha di gran

lunga superato nella stima il Marinetti di allora. Anche lo

stesso Dante, oggi sull’altare della letteratura italiana, al suo

apparire all’inizio venne considerato un arrabbiato ribelle da

esiliare. I posteri sono veramente imprevedibili! Per questo

motivo non azzardo un giudizio chiaramente non certo e sicuro,

ma mi auguro che Maria Tripoli venga sempre ricordata e

valutata come un’artista di indiscusso valore, esattamente come

la vedo oggi con il mio modesto intuito di semplice lettore.

Non a caso, ispirandomi alla sua costante applicazione alla

pittura, qualche anno fa, ho scritto un racconto molto allusivo,

dove parlo di una società dei colori, che evidenzia la sua

bravura. Ad ogni buon conto devo ammettere che lo scopo da

lei prefissatosi di creare emozioni con la sua scrittura e con le i

suoi quadri è del tutto raggiunto e soddisfatto.

Con la sua arte modellata sulla soddisfazione in amore

dell’anima e del corpo, del sentimento e dei sensi, ella riesce a

creare quell’alone di desiderio e intima felicità che regna tra

due persone che si amano e sono pronte ad offrire se stesse ad

ogni stimolo amoroso precipitando nello stato di atarassia

completa del gorgo senza fine della passione, capace di

annientare la stessa sofferenza della gelosia, considerata alla

stregua di un fantasma fugace. Potrebbe, dunque, non essere

considerata questa fatica letteraria di Maria Tripoli un’opera

d’arte, ma in ogni caso la sua lettura sarà, oltre che fonte di

riflessione profonda, una piacevole esperienza e un bagno di

sogni sempre accarezzati durante il divenire della vita sia di un

uomo che di una donna.

Una buona lettura, insomma, indice di una predisposizione

all’arte, di profonda conoscenza dell’animo umano e capace di

far assaporare la felicità di un rapporto amoroso perfetto, in cui

fantasia e realtà si fondono nel crogiolo della passione e la

sensualità si trasforma in romantica seduzione amorosa.

L’emozione scorre senza meno tra le righe dei versi scorrevoli

e sinuosamente indugianti sugli stati d’animo descritti e nelle

conturbanti espressioni dei suoi nudi femminili scevri di

pudicizia e apertamente incisivi anche nella scelta dei colori.

Se i versi della sua scrittura parlano, le sue tele gridano,

raccontano le sue esperienze, il suo travaglio, le sue ambasce e

la conturbante soddisfazione di averle liberamente esposte.

Sembra proprio che emerga dalle tele la sua indole non

rassegnata e aggressiva, come se ella abbia usato se stessa

come modella, posta in un antistante specchio. Naturalmente,

anche questo mio giudizio è piuttosto una sensazione dettata da

un modesto osservatore e non da un professionista del pennello

e dei colori.

 

 

 

 

DUE GIOVANISSIMI AUTORI A CONFRONTI

L’ARTE DI APPASSIRE IN SILENZIO e PETALI DI MARGHERITA

di Giuseppe Giorgio Pignatello e Martina Luvarà

 

 

I due libri in questione sono uno scritto da un giovanissimo

liceale e l’altro da una altrettanto giovane studentessa. Il caso

ha voluto e forse non solo il caso, che la lettura dei due libri sia

avvenuta quasi contemporaneamente, poiché mi ha dato modo

di riflettere su un argomento di vita vissuta che riguarda lo

stesso argomento che è sempre esistito e continuerà ad esistere

finché l’umanità vivrà.

È stato come vedere le due facce di una stessa moneta

analizzandone i contorni nei minimi particolari. La moneta,

ossia l’argomento, altro non è che l’Amore e più precisamente

il PRIMO amore, quello che nel bene e nel male tutti gli esseri

umani hanno vissuto e continueranno a vivere in futuro.

Nulla di nuovo, dunque sotto il sole.

L’argomento è sempre esistito ed evidenziato al punto di

mitizzarne il contenuto. Ricordo a tal uopo il dramma di Psiche

ed Eros esternato dal mondo classico greco e che ha dato luogo

ed impulso all’attività poetica di tempi più recenti. Mi sembra

abbastanza superfluo, ma bastevole citare Dante, Petrarca, il

dolce stilnovo fino ad arrivare alle nostra più moderne canzoni

d’amore.

Si potrebbe pensare che gli argomenti siano talmente triti e

ritriti che nulla aggiungono a quanto ormai è arcinoto e scontato,

ma non è cosi poiché entrambi gli scrittori (un uomo e una

donna) esternano dei sentimenti e delle vicissitudini, che senza

il dovuto controllo sono la causa di tragedie che ancora oggi

avvengono.

Entrambi i personaggi, Giuseppe Giorgio Pignatello e

Martina Luvarà, raccontano in maniera aperta e sincera la lor

esperienza arrivando alla medesima soluzione che la ragione

impone: il primo amore è semplicemente un amore, che può

anche non essere corrisposto o che, se corrisposto, può anche

cessare per i motivi più svariati. La cosa molto importante è

avere la coscienza di aver agito con sincerità e con onestà

d’intenti, serbando il ricordo dei momenti più belli, ma ormai

passati e irripetibili.

Parliamoci chiaro: ad un primo amore può sempre succedere

un secondo amore e forse anche un terzo, poiché l’esperienza

insegna, come dice una vecchia canzone napoletana che “è

bello il primo amore, ma il secondo più bello assai”.

“TUTTO PASSA E CAMBIA” ho anche scritto in un mio libro,

dove rimestolo tra le altre cose, anche questo argomento.

Quindi la cosa molto importante è che prima di amare

qualcuno, un essere umano deve prima imparare ad amare se

stesso poiché l’amore altro non è se non donare la propria vita

ad un altro essere. Non si può dare felicità se non si ha la

predisposizione alla felicità.

Questo, infine, è l’insegnamento che si può trarre dalla

lettura dei due libri.

Per quanto concerne la valenza formale dei due libri, non

posso non lodare l’impegno letterario profuso nell’esternare dei

sentimenti e degli impulsi che non è facile esporre. I versi in

entrambi i libri alternati al balenare di sprazzi ragionati in prosa

chiara e convincente non ricorrono a simbolismi o allegorie cui

è facile ricorrere.

Le parole denotano una sincera ed irruente esposizione di

quanto il loro pensiero ha elaborato.

È da dire che la Luvarà ricorre di tanto in tanto a delle

analogie con quadri di celebri pittori, mostrando una innocente

civetteria, quasi per evidenziare d’aver raggiunto un buon

grado di maturità, nonostante si sia lasciata avvampare da un

amore che non è stato corrisposto. Il Pignatello trae invece solo

dal suo intimo sentire il frutto dei suoi sogni, anche se mi nasce

il sospetto che Vancouver, la gelida città del Canada, scelta

come scena del suo fallito primo amore durato appena l’arco di

un anno, sia un simbolo, piuttosto che un reale soggiorno.

In entrambi i due giovani poeti i versi risultano brevi,

concisi, ripetitivi di suoni interrotti dall’incalzare dell’ansia e

dell’incertezza tipica delle giovani età. Mi auguro che entrambi

continuino a seguire la via che hanno iniziato a percorrere nel

campo letterario.

 

 

 

 

CERCANDO LE RADICI NEL VENTO

poesie di Gabriele Stefani

 

 

Dopo aver letto questo libro, mi son posto il quesito di

definire cosa sia infine la poesia e quali siano le finalità di ogni

singola composizione poetica in genere.

Alla luce della mia riflessione la poesia altro non è se non

l’esposizione in forma aulica e particolare d’argomenti umani

capaci di suscitare emozioni in chi li legge. Ma forse una tale

definizione è un solo aspetto della poesia. In effetti agli albori

della cultura classica greca qualunque cosa si scrivesse veniva

espressa in forma poetica, ossia, rispettando una certa tonalità

espressiva cui si badava.

Pare che Caronda, Epicuro e anche altri antichi filosofi

scrivessero i loro insegnamenti in forma poetica.

Anche nella cultura romana si rispettava questo concetto,

che trova nel “De rerum natura” di Tito Lucrezio Caro, uno dei

massimi esponenti; infatti l’argomento da lui trattato,

prettamente scientifico è descritto in forma poetica.

Ebbene, leggendo l’immane fatica letteraria di Gabriele

Stefani, più che un insieme di argomenti poetici, ho avuto la

sensazione di leggere un trattato di filosofia, anzi di “alta”

filosofia, dove, ad ogni pié sospinto inciampi in teorie di

pensiero, le più disparate e varie che io, modesto lettore di

media cultura ho avuto difficoltà a recepire. Mi riferisco ai suoi

voli pindarici, ai simbolismi, alle allegorie di immagini e a

termini di teorie filosofiche a me sconosciute o poco note, che

alla fine di ogni singola lettura, mi hanno fatto porre la

domanda inquietante del “Chissà cosa significhi quello che ho

letto o del chissà quale sia l’esatto significato di tanto

ragionamento o paragone.”

In effetti dalla lettura del libro, alla fine, ho recepito la

sensazione che la poesia dello Stefani denota una persona di

una cultura più profonda e cognitiva della mia. Gli stessi

simbolismi, per quanto difficili a recepirsi per i motivi che ho

detto, sono espressi in maniera elegante e stilisticamente

perfetti. Tutte le poesie risentono di un afflato poetico

veramente intenso ma difficilmente assimilabile da chi non ha

la medesima elevata cultura dello Stefani. Si tocca quasi con

mano il riferimento a culture orientaleggianti e il ricorso ad un

ermetismo non comune ad un lettore di media cultura. Si sente

in essi particolarmente l’influenza della poesia di Ungaretti,

che anche lui in materia non è da meno. In compenso le

composizioni di quest’ultimo sono brevissime e ti lasciano più

tempo alla riflessione, ma le poesie dello Stefani sono un

susseguirsi incalzante e contemporaneo di immagini nuove,

belle, piacevoli a leggersi, ma che non ti danno il tempo di

riflettere per il continuo susseguirsi d’immagini nuove.

Ad un’immagine ampollosa, nella stessa poesia, ne segue

un’altra più elaborata ed un’altra ancora fino al punto di

perderti in un meandro di pensieri che ti distraggono dal capire

la finalità di quanto letto. Lo stesso titolo di tutto il libro

“Cercando le radici nel vento”, per quanto sia intensamente

poetico, mi pone il quesito inquietante di non capire a cosa si

riferiscano esattamente codeste propaggini arboree.

Alla fine del libro, ho letto pure il dotto giudizio di Dario

Mele, che condivido e giustifico, dal momento che Dario ha

una preparazione più incisiva della mia in materia letteraria. Il

mio giudizio è semplicemente quello di un dilettante e non ha

alcuna rilevanza ai fini del merito artistico e della bravura dello

Stefani che ammiro in ogni caso per la sua profonda

conoscenza umanistica.

 

 

 

 

COMMENTI SULLE OPERE DI AUTORI VARI

 

 

 

NON CHIAMARLO PADRE

di Adriana Di Grazia

 

 

“Si propagavano in me emozioni, concetti, insegnamenti

che mi facevano capire come la vita di ogni essere umano fosse

la pagina di un libro infinito”

Queste parole ho letto nel Cap XII del libro.

In sintesi è questo il tema del romanzo, argutamente fatto

rilevare nella sua trama. Siamo in presenza di una robusta,

dettagliata e scrupolosa analisi psicologica di personaggi,

compreso quello dell’autrice, che esprimono veramente pagine

singole costituenti il volume infinito dell’esistenza umana nel

mondo dell’essere.

Sentimenti di amore, di odio, di perdono, sgomento per la

cattiveria che emerge dagli eventi, il disagio morale per

violenze subite, la forza di superarle, l’amarezza della sconfitta

e della rinascita si mescolano nel crogiolo del racconto, che

scivola sulle parole espresse con uno stile scorrevole, semplice

e ricco di considerazioni e riflessioni.

Alla fine del racconto emerge spontanea la considerazione

che mai bisogna sottostare alla violenza, che può essere vinta

con la volontà e la forza di crederci e quando sembra che essa

trionfi, vi è sempre in agguato la giustizia divina pronta ad

annientarla. Alla fine il padre violento, autore del disastro della

sua famiglia, scompare, forse per aggiungere ancora un’ultima

cattiveria alle altre, impiccandosi. Mi sembra in questo fatto di

scorgere la provvidenza divina di manzoniana memoria, che

alla fine elimina Don Rodrigo e i suoi perversi alleati per fare

trionfare l’amore e la giustizia.

La violenza di cui parla l’autrice è quella degli uomini nei

confronti delle donne introducendo la tematica dei frequenti

femminicidi. Ma ella, pur denigrando l’operato di alcuni

uomini, riconosce che ne esistano di sani principi morali e

degni di essere amati. Da ciò ne deriva l’insegnamento che

spetta alla donna di stare in campana e scoprire per tempo dove

sta il pericolo per evitarlo. La descrizione dell’attrazione

amorosa è descritta in maniera favolosa e da non lasciare dubbi

sulla purezza dei sentimenti nei rapporti intimi di due

innamorati e anche sul piano dell’amicizia sincera, ci si imbatte

in sentimenti di una delicatezza veramente stupenda.

Adriana Di Grazia, scrittrice e poetessa, riesce in questo

libro a descrivere l’infinito dell’essere, le cui pagine sono

singole vite, descritte con uno stile semplice, scorrevole ed

espressivo, assurgendo a simboli di condanna della violenza

contro le donne, ed esaltazione dell’amore, dell’amicizia e del

perdono. Il sentimento aleggia nella descrizione dei rapporti tra

i vari personaggi, dove la spiritualità si fonde con l’amore

fisico, superando paure e ansie vissute e temute, pur nella

crudezza della realtà ed è così che tutta l’opera assume un

valore non solo etico, ma poetico.

 

 

 

 

LA CAMELIA DEL PARTIGIANO

di Claudia Tortora

 

 

Gentilissima Claudia Tortorella, ho terminato di leggere il

tuo romanzo storico La camelia del partigiano, dove con molta

attenzione e una descrizione realistica prospetti gli aspetti

cruenti della seconda guerra mondiale con particolare

riferimento alla nascita del movimento di resistenza partigiana

colorandola di un romanticismo che si addice a tutte le imprese

permeate da idealismi universali.

Intanto comincio col dire che chiamarti Tortorella mi è

venuto spontaneo per due motivi ben precisi. Il primo è che,

oltre a ricordarmi le vicissitudini del povero Tortora televisivo,

mi sono venute in mente, spigolando tra i capitoli del tuo

romanzo, le tortorelle che nel periodo estivo allietano con il

loro caratteristico tubare il mio risveglio giornaliero nella mia

casetta a mare, soggette agli attacchi di pellicani affamati

(crudeli nazisti e fascisti) e il mio assomigliare ad un Gufo

(partigiano motivato) che osserva in silenzio le vicende da te

narrate, spiandole con una attenzione particolarmente acuta con

l’intento di coglierne gli aspetti più salienti.

La prima cosa che mi è saltata all’attenzione è il tuo narrare

tutta la vicenda nei panni di un autore maschio, sapendo che a

scrivere è invece una donna. Sostanzialmente tu, da donna, hai

avuto il coraggio di assumere la personalità del personaggio

narrante “Ruggero, alias Ruggine”, mentre sarebbe stato più

naturale che tu raccontassi il tutto dandone, ad esempio,

l’incombenza a Margherita, personaggio femminile.

Anche se, forse, anzi sicuramente, il tuo scopo principale era

quello di descrivere la vicenda storica del movimento

partigiano, tuttavia il romanzo segue il canovaccio romantico

di un amore tra i due protagonisti principali, appunto Ruggero

e Margherita, che diventa espressione di sentimenti universali e

l’aia di tutto il libro.

A raccontare i fatti in prima persona è Ruggero con la mano

e una preparazione culturale di una donna. Hai avuto un bel

coraggio, poiché poteva venirne fuori un bel papocchio. Invece

è venuta fuori una figura di uomo perfetta con la singolare

prerogativa di avere le caratteristiche che tu, in quanto donna,

vorresti o hai già apprezzato. Sì, proprio la figura emblematica

dell’uomo ideale sognato da tutte le donne: innamorato,

altruista, comprensivo di eventuali difetti o precedenti

esperienze della donna amata, rispettoso della sua libertà e

delle sue debolezze e lontano dal fenomeno di violenza alle

donne, nonostante quest’ultima fosse in auge grazie alla guerra

in atto. Un vero eroe romantico degno delle favole del

dopoguerra raccontate da Bolero o da Grand Hotel nel clima

conturbante bellico. Anche gli altri personaggi del romanzo

assumono quella colorazione rosa del tuo acume poetico.

La seconda cosa che mi è saltata all’evidenza è la perfetta

conoscenza dell’ideologia partigiana e il suo procedere alla

assuefazione alla violenza, nonostante il punto di partenza

fosse la lotta a quest’ultima. La figura di Paolo-Gufo ne è la

espressione più evidente. Egli aborrisce quella insulsa guerra,

diventa disertore, teme per la salvezza di quanti lo aiutano a

nascondersi, matura il disegno di combattere quella forma di

violenza praticata dai tedeschi ma, alla fine riconosce di essersi

anche lui ubriacato di potere essendo diventato capo di una

formazione partigiana e, come coloro che combattono, anche

lui diventa duro, violento, inflessibile, calcolatore e privo di

umanità. È la guerra il motore di questo circolo vizioso che

coinvolge i nemici ignorando la pietà, anche se sperata.

Non solo l’ideologia del movimento partigiano emerge dal

racconto, ma anche il metodo di lotta, fatto di resistenza attiva

e sotterranea nei confronti del mondo fascista, adottandone in

parte lo spionaggio e il silenzio prudente. Mi torna alla mente il

famoso cartello fascista del “Taci, il nemico ti ascolta” adottato

anche dai partigiani nei confronti dei fascisti.

Sostanzialmente il partigiano assume gli stessi atteggiamenti

e le stesse movenze di lotta del malefico e aborrito nemico.

La terza cosa che mi ha colpito è la descrizione apocalittica

del bombardamento di Treviso da parte degli alleati, che nel

danno coinvolgeva fascisti e antifascisti nello stesso tempo.

Gli alleati cercarono di giustificarne l’evento per motivi di

eliminazione di obiettivi militari ma, in realtà la loro strategia

era quella di stancare la popolazione e indurla alla rivolta

contro il potere fascista. Una sorta di terrorismo capziosamente

camuffato da esigenze salutari e benefiche per l’umanità

coinvolta.

I bombardamenti a tappeto avvennero a Treviso, in Sicilia e

ovunque in Italia e in Germania senza alcun rispetto per la

popolazione civile. Le identiche scene di strazio e di dolore io

ricordo di aver visto a Castelvetrano, in Sicilia, dove mi

trovavo bambino insieme alla mia famiglia. Vi era in quella

cittadina un aeroporto militare, dove mio padre, sergente

maggiore del personale di terra dell’aviazione, faceva servizio.

Gli alleati non si limitarono a bombardare l’aeroporto, poiché

di volta in volta rovesciavano bombe a iosa pure su tutto il

paese distruggendo case, chiese strade senza alcuna distinzione

nella scelta degli obiettivi.

La quarta cosa che mi ha colpito è la sintonia tra questo tuo

lavoro e la mia filosofia di vita, che ho espresso nel titolo del

libro che hai avuto in dono da Vera Ambra: Tutto passa e

cambia.

In conclusione, nel tuo romanzo, passata la bufera della

guerra, tutto ritorna come prima, compresi i pettegolezzi, le

piccole cattiverie di ogni giorno, il trionfo del sentimento sulle

ideologie e lo stesso perdono occhieggia tra gli ultimi approcci

alla realtà. Tutto esattamente come nella mia raccolta di

racconti autobiografici, dove li distinguo in due settori: quello

della guerra e quello del dopoguerra. Nel primo racconto la

guerra vista con gli occhi del bambino che ero e nel secondo gli

episodi della vita che continua, scevra di odi repressi e volta

alla gioia di vivere cercando di mettere una pietra sul passato.

Ritengo che dopo tanto odio d’ambo le parti, non può non

emergere il bisogno del perdono per continuare a vivere e non

piombare nella disperazione. Questo mio pensiero, emerge

anche dalla mia poesia che qui di seguito trascrivo. Esso mi

sembra rispecchiato nella conclusione del tuo romanzo.

 

VENTICINQUE APRILE

 

Il ticchettar spasmodico e compatto

delle chiodate scarpe sul selciato

ormai non s’ode nella piazza antica

perché cessò la guerra ed ora pace

nel cielo aleggia rotta solamente

dal cicaleccio della gente in festa.

Non più di condannati i corpi esposti

al crepitare di spianati mitra

né sul balcone sventolante arcigna

la svastica signora della morte

ma solo il rintoccar dell’orologio

in cima al campanile della chiesa

circondato dal volo dei colombi

o dal notturno e silenzioso canto

delle candele accese per la pace.

La nube, stesa all’orizzonte, pare

Giuditta che conosce dove giace

la testa d’Oloferne, ma lo tace

sotto quel rosso lieve che traspare

per dire al mondo intero che la pace

è ritornata in terra e che l’oblio

già vinse la violenza del passato.

Non più quei corpi stesi sul selciato

nell’orrido scenario dell’eccidio

convien mostrare al vindice futuro,

ma del perdono sollevar la voce

fino a toccar le stelle e l’infinito

poiché non teme la giustizia il pianto

dell’uomo che perdona e in Dio confida.

 

Sei stata bravissima a gestire e curare gli aspetti di tutti i

personaggi nel groviglio di eventi veramente tremendi e anche

lontani dalla tua realtà. Io non ci sarei mai riuscito. Proprio per

questo mi piace scrivere, oltre alle poesie, dei racconti più o

meno brevi. Da questo punto di vista, forse sono un po’ pigro,

anche nel leggere. Cosa quest’ultima che facevo nei piccoli

intervalli che il lavoro mi concedeva.

Per quanto concerne lo stile, trovo abbastanza scorrevole e

incisivo il tuo modo di raccontare, che rifugge dalla ricerca di

espressioni retoriche con un approccio al linguaggio comune.

Mi piace il tuo ricorrere ai dialoghi diretti che favoriscono

l’immediatezza dei concetti espressi.

 

 

 

 

VOLEVO LA LUNA

di Franco Di Blasi

 

Ho finito di leggere il libro, che gentilmente Franco mi ha

inviato e che ho letto con molta attenzione. Mi sembra più che

doveroso esporre le mie considerazioni sull’opera.

Il libro, sostanzialmente, secondo la moda introdotta dal

decadentismo italiano, in cui sfociò il romanticismo prima di

approdare al neo realismo, attinge nell’autobiografia la sua

ispirazione., ma con diversi aspetti. Mentre, ad esempio,nel

famoso romanzo del Fogazzaro, Malombra, la vita dell’autore

descrittavi in penombra, è l’occasione per far emergere la

personalità di altri personaggi, come appunto la malefica donna

da lui amata, nel libro di Franco Di Blasi, tutte le figure che

ruotano intorno alla sua vita, sono degli orpelli, dei manichini,

spogliati in parte della loro personalità, tranne qualche

eccezione, introdotti nel libro al solo fine di dimostrare il

carattere e le finalità dell’autore, unico egocentrico monumento

di potenzialità … umane.

Le donne amate, tranne l’ultima, Anna, ma appena

larvatamente, sono quindi prive di sentimentalismo romantico,

tutte affogate nell’esternazione sessuale, che sembra loro più

congeniale.

Del resto il mondo descritto da Franco è quello dei figli dei

fiori, esploso negli anni sessanta, periodo in cui venne rivendicata

dalle donne la libertà sessuale, ignorando spiritualità connesse

ed è da questo mondo che l’autore si lascia investire ed è

in questo mondo che si tuffa senza remore e pregiudizi, peregrinando

da Roma, all’Elba, al Piemonte, alla Sicilia e al Trentino.

Un altro riferimento alla letteratura del passato è l’amoreodio

per “il selvaggio borgo natio”, argomento già toccato da

Leopardi. Ovviamente vi sono delle differenze. Recanati per il

mesto Giacomino, resta eternamente l’aborrito luogo dove è

nato ed è costretto a vivere, generando in lui quel pessimismo

metafisico che non riesce a superare, nonostante il progresso e

le soddisfazioni dei suoi studi sulle “sudate” carte.

Pedagaggi è per l’irruente Franco il luogo dove è nato, dal

quale vuole fuggire per raggiungere… la luna e, quindi un

luogo da odiare perché pesa come una grossa palla al piede, ma

nello stesso tempo motivo di nostalgia perché gli ricorda il

calore del desco familiare nei momenti di sosta nel volo

planetario che lo coinvolge e lo spinge verso l’edonismo più

sfrenato, simbolo di vita e d’ottimismo.

Ma parliamo adesso di questo volo, che ha per meta finale la

luna, ossia, il sogno di diventare un attore del cinema, le cui

immagini scorrono con dovizia di nomi di attori e immagini di

film, di cui si è lautamente infarcito.

La luna non verrà mai raggiunta, ma resta quell’ultima

speranza, che, non si sa mai, potrebbe sempre arrivare, anche

se, alla fine, la posizione raggiunta è quella mediocre del

ferroviere, intrapresa con l’adesione al genio militare delle FS.

Non è certo il massimo, ma è quanto basta per assicurare un

lavoro sicuro e una vita in parte serena, che altro non è, infine,

se non la massima aspirazione del padre, che per assicurargliela

voleva fare di lui un prosecutore della sua attività agreste.

Il volo verso la luna,dunque, cessa, con la discesa molle

sulla realtà della terra, che, tutto sommato, infine, può anche

essere soddisfacente.

Resta, infine, da evidenziare la figura e il ruolo della

famiglia, il cui rapporto trova dei veri momenti di trasporto

lirico, che contrasta con il crudo realismo sensuale delle varie

“cite”, descritto, secondo me, con un’enfasi eccessiva e ricca di

particolari che nuocciono alla fantasia, piuttosto che spronarla.

Descrivendo delle scene erotiche, secondo me, bisogna lasciare

più spazio all’immaginazione del lettore e meno alla

descrizione particolareggiata e dire quel tanto che basta per

accendere la lampadina del desiderio.

Il giudizio finale non può essere che positivo. Certamente

non siamo in presenza di Manzoni, Fogazzaro, Verga, Sciascia,

Camilleri e altri, ma non si sa mai! In effetti l’esposizione

scorre piacevolmente e si presta ad essere letta tutta d’un fiato

fino all’ultimo rigo.

 

 

 

 

SECONDO ME

di Sebastiano Ministeri

 

Carissimo Bastiano, debbo, innanzi tutto ringraziarti per

l’invito alla presentazione del tuo libro Secondo me in data 28

Dicembre 2019 presso i locali dell’AVIS di Scordia.

Un vero tuffo nel passato! Avrei voluto aggiungere, come

testimonio diretto della tua personalità, il mio contributo

d’affetto alle belle parole che i vari oratori hanno profuso nei

tuoi confronti, ma non ho osato non avendo avuto modo di

leggere prima il tuo libro.

La paura di sproloquiare a vanvera senza aver letto e

riflettuto sulle righe da te vergate e l’emozione che mi è salita

alla gola, mi hanno impedito di intervenire.

Adesso che ho letto il tutto, mi accingo ad esternare il mio

giudizio.

L’atmosfera che si è creata nel salone dell’AVIS è stata una

delle più belle e profondamente emotive, cui ho partecipato.

Dei presenti, all’infuori di te e del mio ex collega Nino Gualdo,

non ho avuto modo di conoscere, ma i cognomi (Centamore,

Gambera, Barchitta, ecc, ecc.) hanno suscitato in me dei ricordi

vivi che non possono essere dimenticati. Sicuramente si

trattava dei discendenti dei nostri comuni coetanei.

Noi due, per le varie circostanze che la vita ci ha offerto,

abbiamo avuto modo di condividere le nostre prime esperienze

giovanili a Scordia.

Come tu sicuramente ricordi, abitavo al casello ferroviario

del PL attiguo alla stazione FS di Scordia. Mio padre, reduce e

fortunatamente restato vivo dopo la guerra, venne assunto in

ferrovia e dovette però lasciare Catania e accettare di trasferirsi

nella tua città. Erano gli anni a cavallo del 1950.

Anche per me la vita non fu facile; primo di cinque figli, per

andare alla scuola media e al Liceo a Catania, mi alzavo alle

cinque del mattino per prendere il treno (di cui ricordo il nome

4900) e ritornare la sera con l’altro 4901 intorno alle 16,00. Per

fare i compiti di scuola dovevo usare il lume a petrolio, poiché

l’alloggio fornito dalle FS era sfornito di elettricità.

Ovviamente sono stato più fortunato di te, che nella

maledetta guerra hai perso il padre e per un tozzo di pane,

come tu dici, hai dovuto, a nove anni, andare a lavorare e

interrompere di andare a scuola.

Quello, dunque che accomunava me, te e i non dimenticati

Pippo Liggieri, Nino Giordano, Nino Azzarello, Centamore,

Castiglia, Meli e altri che in questo momento sfuggono al mio

ricordo, era il comune desiderio del riscatto della nostra vita

che trovò un punto di riferimento nella parrocchia di San

Giuseppe e nella persona del parroco Padre Maroncelli.

Anche se non è stato ricordato, fu quest’ultimo ad

inculcarci, oltre all’educazione cattolica, il seme dell’amore per

l’arte e per la vita.

Se ben ricordi fu lui, che in seno alle attività dell’Azione

Cattolica, ci avviò alla Filodrammatica. Ricordo le recite

presso il collegio del Convento e nei locali della parrocchia.

Fu lui il nostro primo maestro di vita, che ci spinse sull’erta

della risalita sociale. Allora era molto sentita la disparità tra le

classi ed Egli, da buon educatore e ottimo rappresentante della

Chiesa Cattolica, ci guidò con sicurezza facendo di noi degli

ottimi cittadini per il futuro.

Non ti nascondo che anch’io, come te, ho sentito il forte

squilibrio tra chi aveva forse troppo e chi nulla aveva. Voglio

dire che anch’io guardai con un certo interesse verso quel PCI

che ostacolava il percorso della DC, ma non cedetti alla lusinga

di esserne coinvolto per un semplice motivo di metodo.

Il PCI nell’evidenziare la disparità delle classi sociali in atto,

poneva come soluzione il metodo marxista della lotta di classe

senza quartiere e limite (la cosiddetta praxis). Proponeva la

distruzione del potere capitalista e della relativa classe con la

violenza e la rivoluzione, come quella bolscevica, per il trionfo

della classe lavoratrice e ottenere in tal modo la parità di tutti i

cittadini di fronte allo stato, diretto da una sola persona. Per me

questo significava ricadere in una forma simile al fascismo,

che, tra l’altro, vigeva in URSS con Stalin.

La DC e il mondo cattolico prospettavano una soluzione più

morbida che non poneva la violenza come metodo, ma l’amore

verso il prossimo, la spinta a compenetrarsi tra le esigenze

delle due classi, l’armonia tra capitale e lavoro, il giusto

riconoscimento dei diritti del lavoratore nei confronti

dell’imprenditore, la parità di diritti e doveri tra tutti i cittadini

nei confronti di uno stato retto democraticamente e che

escludesse l’assolutismo politico individuale.

Per questi motivi non ho mai aderito al PCI, anzi l’ho

ritenuto una piaga per l’umanità pari al Fascismo.

Il vero socialismo era quello della religione cristiana, basato

sull’amore e sulla reciproca comprensione e non sulla violenza.

Del resto i fatti mi dettero ragione. Il PCI si smembrò e venne

fuori il PSI di Nenni e poi il PSDI, tutti in disaccordo circa la

formula iniziale della lotta di classe. Alla fine scomparve quasi

del tutto con il compromesso storico voluto da Moro.

Io so per certo, caro Bastiano, che la tua adesione al PCI fu

del tutto formale e di protesta al lento percorso della ricostituzione

dell’ordine sociale, ma in effetti, tu sei rimasto sempre

nell’orbita dell’insegnamento del buon parroco Padre Maroncelli

e dei dettati della Rerum Novarum di Pio XII.

La prova evidente di quanto affermo è l’esempio della tua

vita, dedicata all’amore per la vita per la cultura, per la

famiglia e per la società. Nulla traspare dai tuoi elementi e atti

di convivenza sociale che possa assecondarsi a manifestazioni

di violenza o di insofferenza sociale tracimante nell’illecito.

Tu hai dato tutto te stesso al lavoro, al costante desiderio di

migliorare te, la tua famiglia e la società intorno a te.

Ti hanno chiamato maestro, pur avendo tu, come istruzione

la terza elementare, e hanno avuto ragione, poiché hai saputo

proporti come simbolo di comportamento del cittadino e come

esempio da seguire.

La tua grandezza non è nell’avere aderito al PCI, ma

nell’aver voluto fare tutte quelle cose che hai pensato di fare e

che le circostanze della vita te lo hanno impedito, nella bontà

dei tuoi propositi, nella caparbia volontà di migliorare te stesso

e la società e nell’essere riuscito ad imporre la tua personalità

nei confronti di altri più fortunati, ma meno efficienti.

A ben ragione, il tuo scagliarti contro personaggi politici

inconsistenti, impreparati, vuoti e volti al proprio interesse

personale ha il suo buon motivo di esistere. È di persone con il

tuo cipiglio e il tuo caparbio desiderio di emergere e migliorare

la società che ha di bisogno l’Italia nel frangente attuale.

Dopo essermi dilungato sulla fisionomia del personaggio

che tu rappresenti, degno, sicuramente, come qualcuno ha

detto, di meritare l’intestazione di una piazza o di una via di

Scordia col tuo nome, voglio spendere alcune considerazioni

sulla tua attività culturale, che si innesta con quella della tua

vita.

Indubbiamente l’attività teatrale ti ha dato una spinta nel tuo

percorso culturale e la faccenda non mi ha stupito perché ho

apprezzato queste tue qualità quando da ragazzi recitavamo

nella filodrammatica di Padre Maroncelli a San Giuseppe. Io

non avevo la tua stessa verve. Ero molto timido e l’apparire sul

palcoscenico mi turbava molto. Tu avevi una padronanza della

scena veramente superba.

Quello che mi ha veramente stupito è stata la tua attività

letterale, il tuo misurarti con un’arte che ha bisogno di un

substrato cognitivo e di informazione non indifferente. Ciò

significa che hai molto letto, conosciuto e appreso e che hai

acquisito una forma mentis culturale che molti giovani di oggi

non hanno, per il semplice motivo che non leggono e

apprendono notizie a sbalzo carpendole dal telefonino o dal

computer, senza maturarne il significato.

Tu hai letto e molti scrittori che neanche io mi sono mai

sognato di leggere perché fuori dal mio interesse culturale,

sono stati per te motivo di apprendimento e di riflessione.

Il fatto che tu possa incappare in qualche errore

grammaticale è del tutto spiegabile, comprensibile e anche

naturale per noi siciliani.

Prendi atto che il nostro dialetto è una lingua al pari di

quella italiana. Anzi secondo i glottologi la lingua italiana altro

non è se non il nostro parlare siciliano che si è evoluto con il

toscano di Dante. Ne consegue che quando noi siciliani

scriviamo in italiano risentiamo il nostro vecchio modo di

periodare. Devi sapere che, a scuola, nonostante ritenessi di

scrivere bene in italiano, il mio professore di letteratura

segnava in rosso alcuni tratti dei temi che generalmente

vengono fatti in classe, con la dicitura “costrutto dialettale”.

Per poter evitare questo giudizio ho dovuto fare i salti mortali a

furia di leggere sempre.

Adesso, che è tornato in auge il dialetto, per quanto mi

sforzi, non mi riesce sempre farlo nei lavori cui mi dedico per

hobby. Quindi, il tuo parlare parafrasando il siciliano è … di

moda! Non deve preoccuparti.

Dai tuoi scritti, emerge pertanto uno stile semplice, sciolto e

… veritiero, che dà pane al pane e vino al vino, senza tanti

fronzoli e ricercatezze di termini.

Mi piace il tuo ironizzare su alcuni aspetti della vita e …

della morte! Su alcuni libri di poesia che ti ho lasciato, sia in

dialetto che in italiano ne troverai riscontro. Come vedi, le fonti

della nostra cultura di base, quella popolare, è identica.

Anche io ho subìto il mio infarto, ma tanto tempo fa. Era il

1996, esattamente dopo circa otto mesi dalla quiescenza! Sono

passati 23 anni da allora ed io sono ancora qua! Quindi non

preoccuparti! “Ammucca” pillole, segui le istruzioni del

cardiologo e vedrai che andrà tutto bene.

Io spero che in futuro ci sentiremo. Ormai, da pensionato,

non inseguo più treni e faccio una vita più serena. Ti auguro un

felice Anno Nuovo.

 

 

 

 

MACERATA MAGLIANA

di Anna Pasquini

 

La sinossi allegata che anticipa il contenuto del breve

racconto di Anna Pasquini è esaustivo nel senso che descrive

esattamente ciò che l’autrice ha scritto: un tuffo nel passato di

una giovane donna la cui origine è legata al quartiere romano

della Magliana e alla provincia di Macerata, dove la famiglia

ha una seconda casa.

È però in questo viaggio a ritroso nel tempo che emergono

dall’attenta analisi descrittiva dell’autrice degli elementi

veramente degni di essere sottolineati.

Essi sono fondamentalmente due: il problema sociale che

investe la vita in determinati quartieri di periferia e l’umanità

che si manifesta in essi in modo indiscriminato evidenziando

lacune, risentimenti, desiderio e speranza di una vita migliore.

L’autrice si sofferma maggiormente su questo secondo

aspetto, quello umano, incidendo, quasi scolpendo con la penna

gli aspetti più amari e sensibili.

Se pensate che lei si sia soffermata a descrivere storie

strappalacrime d’amore non corrisposto o drammi della incomprensione

amatoria, oggi di moda, a condimento dei cosiddetti

femminicidi, vi sbagliate. L’argomento è molto più interno e

profondo e analizza i rapporti parentali di una famiglia tipo,

dove, oltre a sentimenti di dedizione e amore profondo,

esistono anche atteggiamenti di fredda convivenza dettati

dall’egoismo, dalla mania di superare gli altri, parenti o meno

che siano. Ecco, quindi spuntare alla ribalta la vecchia zia, che

nonostante qualche piccola passata manchevolezza su cui è

stato steso un velo di buon senso, viene sommersa da una

malattia che la rende non solo accetta, ma ricolma d’amore e

pietà Ma ecco che, quasi a fare da contraltare compare la figura

della cugina fredda, altezzosa, insensibile ai sentimenti di

affetto, tutta avvolta nel suo ruolo di superiorità basata su

pregiudizi e elementi i più discriminatori della società.

Esattamente come diceva Alberto Sordi in un famoso film: “Io

son io e voi non siete un cazzo”.

Già! Solo che a non esserlo non sono dei poveri villani

come nel film, ma i parenti più prossimi.

Altre figure non per niente trascurabili fanno da contorno in

tono minore, come la cugina maggiore che da mostra di se

giocherellando con i belletti dimostrando la fatuità della vita

che si manifesta anche all’interno della parentela.

Altre immagini sono degne di nota, come quella della

bambina che osservando la foto della madre sposa felice con

l’abito bianco, si rammarica di non essere stata presente, lei,

che è nata dopo.

Insomma è un mondo descritto minuziosamente e con molto

impegno dall’autrice, che denota, in senso forse autobiografico,

un attaccamento affettuoso alla folta parentela, non omettendo

di evidenziarne anche i difetti.

Il secondo aspetto è quello sociale che richiama alla mente

le implicanze psicologiche e del vivere sociale. Vivere in

periferia, ovvero, ai margini di una società più evoluta che

esiste nell’ambito di tutte le grandi città, crea un senso di

disagio nel soggetto che lo subisce. Il sentirsi inferiore quasi

per disgrazia ricevuta crea uno stato di infelicità perenne che lo

spinge ad auto commiserarsi senza porre alcun limite al proprio

disagio.

Quello che è ancor peggio è che tale atteggiamento spinge i

facinorosi ad assumere e far crescere quello stato di bullismo,

manifestato apertamente da alcuni in diverse occasioni, sfociando

in aperte manifestazioni di delinquenza endemica, che

condanna le periferie come zone a perdere della società e a

considerarne gli abitanti, senza alcuna discriminazione, gente

da buttare in galera o per lo meno da tenere a distanza. Si fa,

come suol dirsi, di ogni tipo d’erba, un solo fascio.

Purtroppo questa generalizzazione di pensiero non è valida

solamente per la Magliana di Roma, ma anche per i quartieri

spagnoli di Napoli, per i quartieri di San Cristoforo e Librino di

Catania, per la Ucciria di Palermo e tante altre periferie di altre

città.

Quello che scaturisce da questi due aspetti non è che uno

solo, larvatamente prospettato come speranza dall’autrice: il

superamento di questo stato di cose, ossia il recupero delle

periferie e, se non altro, il poter distinguere il buono dal

marcio.

Ovviamente l’autrice, nell’offrire questo suo lavoro alla

attenzione di chi legge, ha solo l’intenzione di evidenziarne gli

aspetti, senza volerne dare indicazioni di soluzione. È lontana

da lei l’idea di dare dei suggerimenti pratici che lascia come

tema da svolgere alle future generazioni. Il suo problema è solo

quello di illustrare la realtà come appare ai suoi occhi,

mostrando la modestia del suo pensiero, limitato al compito di

mostrare solamente. In tal senso le sue parole sciolte, senza

alcun ricorso a roboanti teorie o termini altisonanti, quali si

leggono nei discorsi di gente interessata alla politica, riesce nel

suo intento modesto, ma proficuo.

Una cosa che ho notata e mi fa piacere evidenziarla, è la

scioltezza dei periodi, brevi, corti, incisivi, senza orpelli e

intrusioni di termini dialettali tanto di moda in questo periodo.

Certamente ritengo sia un po’ arduo per un romano che si

cimenta nello scrivere non ricorrere a qualche intrusione di

termini dialettali, esattamente come per un siciliano. Non

nascondo che io cedo sempre a questa piccola civetteria. La

Pasquini non lo fa e acquisisce il merito di una universalità

geografica totale. Il suo linguaggio non è quello di Roma o di

Macerata, ma quello di puro italiano e di conseguenza il suo

pensiero non è discriminante. Pertanto quello che dice delle

suddette località è valido anche per altre della nostra Italia, a

volte così varia, regionale e distaccata dalle altre.

Mi auguro, pertanto, che chiunque legga il racconto in

questione sappia trarre insegnamento dalle basi prospettate

dall’autrice.

 

N.B.

Per quanto mi concerne non posso che prospettare che le

mie esperienze in proposito. Io sono nato in una zona di

Catania molto simile a quella della Magliana di Roma. Mi

riferisco al quartiere di San Cristoforo di Catania Mio nonno,

ex ferroviere, con i propri risparmi, aggiunti alla cosi detta

buonuscita, comprò una casa in quel quartiere, la quale dette

come bene dotale a mia madre. Fu da lui scelto quel quartiere

per il semplice motivo che, essendo in periferia, la casa, non

solo costava meno, ma aveva il vantaggio di trovarsi

vicinissima alla stazione ferroviaria di Catania Acquicella.

Cosa quest’ultima per lui importante perché gli consentiva di

poter agevolmente prendere il treno per recarsi a Lentini, suo

paese d’origine.

Io nacqui lì nel 1937 e per le note vicende belliche insieme

alla mia famiglia andammo via per ritornarvi a guerra conclusa.

Purtroppo la situazione era cambiata. Quella zona, da che

era tranquilla, dopo la guerra diventò turbolenta. Noi si viveva

lì ed io ho assistito a tutte quelle brutte vicende che ancora oggi

sussistono. Siamo andati via. I miei genitori non ci sono più le

mie sorelle si sono sposate e non vivono più là. Io pure sono

andato via. Solo ricordi

A vecchiaia inoltrata, alcuni degli gli ex allievi di Don

Bosco della locale Parrocchia della Madonna delle Salette, in

pieno centro del quartiere San Cristoforo, abbiamo avuto modo

di riunirci e durante una cena a Pedara, si parlò del quartiere.

Eravamo ormai affermati cittadini che avevamo subito la

diaspora da quel luogo e avevamo un certo ruolo nella città,

anzi nella nazione, per non dire nell’Europa. Eravamo una

diecina, qualcuno ex prof, io ex CS titolare di Catania C/le, un

altro capitano d’industria, un altro chirurgo, un altro

funzionario del comune…

Insomma gente che pur essendo nata a San Cristoforo ne era

ormai lontana e però ne sentiva la nostalgia e il disagio. Si

prese una decisione: quella di fare qualcosa per il quartiere,

magari appoggiandoci all’Istituto dei Salesiani. Si decise di

istituire una Società libera ONLUS allo scopo di dare un

orientamento di sviluppo culturale in pieno quartiere di San

Cristoforo.

I Salesiani ci misero a disposizione dei locali di loro

proprietà dandone donazione all’Associazione, approvando e

condividendo il nostro statuto. Quest’ultima si auto finanzia

con l’offerta spontanea dei soci e è ormai una realtà che opera

nell’ambito culturale e sociale: Preciso non opere di elemosina,

cui pensano i salesiani per loro conto. La nostra funzione è

quella di portare avanti i problemi del quartiere e di fare dei

seminari culturali nell’ambito scolastico, fornendo borse di

studio ai meno abbienti e roba del genere. Ovviamente non ci

occupiamo a dare “il panino salesiano”, ma di dare il massimo

supporto alle attività culturali e portare avanti i problemi del

quartiere. Siamo riusciti a convincere la Metropolitana della

necessità di poter far nascere nel quartiere una stazione, che è,

ormai nel progetto.

Chiaramente non ci occupiamo di questioni politiche, ma

semplicemente di finalità sociali, prospettando le soluzioni

adatte, senza alcuna volontà di imporle ad ogni costo. Che cosa

ci auguriamo e prospettiamo; la rinascita e la rieducazione del

quartiere. Nulla di più. Ognuno dei soci sborsa una certa quota

a seconda delle proprie possibilità senza trarne alcun vantaggio

personale.

Questa la mia, anzi la nostra esperienza nel quartiere di San

Cristoforo di Catania. Perché non far nascere qualcosa di simile

anche alla Magliana od altrove?

 

 

 

 

OLTRE LO SPECCHIO

La mannaia di Oilerua

di Alfredo Scaglia

 

 

Dopo aver letto il romanzo di Alfredo Scaglia, il cui titolo è

Oltre lo specchio, ho avuto la sensazione che l’autore trascinato

dalla foga di descrivere i suoi personaggi e di illustrare tutta la

vicenda da lui raccontata, ad un certo punto, spinto dalla

necessità di concludere il tutto, abbia deciso di far morire

repentinamente il personaggio principale inventandosi una

conclusione imprevista ed estemporanea, che lo traesse

dall’impaccio di dover continuare.

A questa sensazione ha contribuito la particolareggiata

descrizione dei personaggi tutti fin dall’inizio, costellata da

profonde riflessioni giuridiche, sanitarie familiari e sociali, che

mi lasciavano presagire una conclusione, anche semplicemente

pensata dal lettore, infarcita da considerazioni di tipo morale.

Infatti, tutto il romanzo, che trae l’inizio da una scena di

mala… animalità, apre uno scenario di umanità complessa e

intrigante dove i personaggi danno lo spunto all’autore di

evidenziarne le pecche più eclatanti in tutti i campi.

È così che dalle considerazioni sul trattamento degli animali

egli passa alla descrizione di fattori negativi nell’amministrazione

della giustizia, della politica, dello stesso “menage” familiare

e del comportamento degli uomini nei rapporti di ogni

giorno con i loro simili.

Dal personaggio del Professore Eugenio Calenda, muto

osservatore partecipe di tutta la vicenda, a quella del

protagonista Aurelio Fossali, detto Benito, dei suoi figli

Annibale e Candido e della moglie Viola, nonché di Tiberio

Lacroce, del Signor Cicca e di tutti gli altri minori, quale ad

esempio quella del panettiere, tutti descritti con dovizia di

particolarità morali e considerazioni obiettive dell’autore, si

coglie l’aspettativa che il romanzo potesse avere un altro

epilogo, dove le cattive azioni venissero punite e le buone

premiate. Invece tutto si conclude con la malattia improvvisa e

invalidante del protagonista e lo stesso specchio, presentato

come un muto osservatore e giudice della coscienza, diventa

improvvisamente una manifestazione della malattia, la prima,

che è di tipo mentale, ma sembra fornire l’alibi all’autore per

non continuare a scrivere.

Tuttavia, nella logica del “Tutto passa e cambia”, come da

me ribadito in un mio libro autobiografico dal titolo in

questione, il romanzo “Oltre lo specchio” di Alfredo Scaglia

una filosofia c’è l’ha.

Si tratta di una filosofia che affonda le sue radici nel mondo

dell’imprevedibile e dell’evoluzione muta e inconsapevole

dell’umanità, dove aspettative, agitazioni, interessi, aspirazioni,

disegni contorti od anche lineari riguardanti il futuro, possono

improvvisamente cessare perché non si sa mai quello che può

esserci dietro l’angolo.

È un po’ la filosofia del “Carpe diem”, senza la carica

edonistica attribuita all’espressione. Quasi il dire, con altre

parole, che al comportamento degli uomini nel presente, non

sempre corrisponde un futuro sperato.

Ed è così, che Aurelio Fossali, da uomo sicuro e sempre

attivo, cosciente, padrone della realtà che lo circondava,

improvvisamente resta in balia della sua malattia invalidante,

che le aspirazioni del figlio Annibale, naufragano miseramente

contro gli ostacoli della politica, che un matrimonio felice e

sicuro sfocia nella separazione e nel divorzio, che lo stesso

Lacroce, pur avendone motivo, rinunzia al suo risentimento e

che il prof Calenda alla fine non potrà portare a termine la sua

missione.

Siamo, in ogni caso lontani dall’ottimismo manzoniano,

secondo cui la provvidenza divina aggiusterà ogni cosa.

Aleggia piuttosto il pessimismo verghiano esteso su una realtà

che va per il proprio conto senza la speranza che qualcosa o

qualcuno dall’alto possa far andare le cose nel giusto verso.

Quanto potrà accadere è imprevedibile e casuale e inoltre non

coordinato da una causalità divina.

Qua e là occhieggia anche qualcosa di pirandelliano, come

ad esempio nella descrizione del carattere di Benito, votato a

rompere le scatole con un’interpretazione dei concetti sulla

giustizia, che ricordano tanto il “don Lollò” dello scrittore

siciliano.

Evidente inoltre appare la tendenza, rampante critica popolare

dei nostri tempi a manipolare e ad interessarsi di questioni

sociali, politiche e giuridiche che poco hanno a che fare con i

recenti avvenimenti vissuti dai nostri padri più prossimi. Tant’è

che Benito, proveniente da una cultura, dove chi comandava

aveva sempre ragione in maniera indiscussa, manifesta, dalla

sua posizione di pensionato, l’intenzione di manipolare la

giustizia ricorrendo a sotterfugi poco leciti, ma che hanno la

parvenza di legalità, come certa stampa dei nostri tempi.

Concludo, esaminando il linguaggio di tutta l’opera, che,

all’inizio, offre delle difficoltà a farsi seguire, per l’incedere

dell’autore in concetti piuttosto tecnici riguardanti la giustizia e

la politica, che si mischiano alla narrazione e che, in ogni caso,

evidenziano il grado di cultura e competenza dell’autore in

proposito. Ma col procedere della narrazione e l’intreccio dei

rapporti tra i personaggi, specie nelle questioni familiari, che

toccano sentimenti e affetti piuttosto sensibili, il periodare

scorre più veloce e intrigante, spingendo sempre più il lettore a

soddisfare la sua curiosità nella soluzione del significato di

quella parola OILERUA e a conoscere come si concluda tutta

la storia.

 

 

 

 

LE ROSSE PERGAMENE di ANNA MANNA

 

 

Il 5 Giugno u.s. si è concluso a Roma, presso la biblioteca

Treccani, il ciclo delle “Rosse Pergamene”, magistralmente

ideate e condotte dalla regia attenta e scrupolosa di Anna

*Manna, non solo delicata poetessa, ma coordinatrice e

conduttrice del corso moderno del sentire poetico, definito

“nuovo umanesimo”.

Pertanto le Rosse pergamene restano le cronache indiscusse

e durature di questo nuovo corso poetico.

Ometto di descriverne la cronaca già largamente illustrate e

documentate da eloquenti foto e resoconti, dove, purtroppo,

sono stato partecipante virtuale, non essendomi potuto rendere

realmente presente per circostanze non volute.

Ciò non mi ha impedito di seguire l’evolversi dell’evento,

che ho seguito con attenzione e di conoscere nuove persone e

figure di poeti e artisti, a me precedentemente ignoti, belle

immagini di un album da conservare con scrupolosa attenzione.

Ho inoltre scoperto l’esistenza di un vero “cenacolo” di

artisti e poeti che mi hanno richiamato alla memoria “i salotti

letterari” che fiorirono a Firenze, capitale del neonato Regno

d’Italia e successivamente a Roma, e che videro alla ribalta

poeti e scrittori dello spessore di Mario Rapisardi, Giovanni

Verga, Giosué Carducci, Gabriele D’Annunzio e altri.

Penso che nella storia della letteratura italiana, questo

evento troverà una nicchia di ricordi, dalla quale usciranno le

nuove figure di poeti e scrittori emergenti moderni.

Vedo all’orizzonte il profilarsi soprattutto di poetesse

veramente consistenti ed esaltanti, le quali, sicuramente in

futuro verranno ricordate, un vero plotone pronto all’assalto

della poesia e dell’arte.

Ho avuto l’opportunità di aver letto, ad esempio, la poesia di

Maria Buongiorno, dedicata alla sua terra d’origine, la

Calabria, meritevole di un’attenzione particolare.

Un vero inno di nostalgico amore per una terra, ricca di

eventi storici, dove, nonostante il rifiorire di civiltà passate,

ancora vive nell’immaginario comune, è stata resa schiava di

eventi ingrati.

La speranza di un futuro migliore emerge dai versi accorati

e dalle descrizioni georgiche del territorio, dove l’oro del grano

e il verde perduto dei boschi tratteggiano sentimenti di

profonda nostalgia.

La poetessa nel suo trasporto lirico, fatto di ricordi, non

omette il volo delle rondini che nidificano sotto le tegole rosse

dei tetti, contrastanti con il nero specioso di pece di tetti

cosparsi di smog, né lo sciorinare al vento e al sole di candidi

lenzuoli appena lavati e le frotte dei bimbi, che con essi si

confondono in mille giochi, né lo scrosciare dell’acqua della

vecchia fontana e la pula spumeggiante dalle trebbiatrici al

ritorno dai campi…

Una descrizione stupenda, che nulla ha da invidiare alla

descrizione leopardiana del “Sabato del villaggio”e che rende

più pregnante e vivo il sentimento nostalgico del posto dove

visse da bambina, abbandonata sul letto in preda a sogni più

grandi di lei.

Se a tutto questo si aggiunge una forma letteraria che

rifugge da rime e gabbie metriche dei versi, liberi e suadenti,

affidati al semplice effetto tonico delle parole, possiamo ben

dire che viene raggiunto un effetto lirico veramente

sorprendente.

Certamente non siamo ai livelli dello “Addio ai monti”di

manzoniana memoria, né della “pioggia nel pineto” del

D’annunzio, ma son certo che questa poetessa riuscirà in futuro

a raggiungere cime sempre più elevate di liricità.

Con questo esempio, chiudo la mia riflessione sull’evento

romano delle “Rosse Pergamene del nuovo umanesimo” di

Anna Manna, in attesa di nuovi eventi lanciati da colei che ho

definito, per il suo cipiglio deciso e la sua fervida attività, la

“leonessa di Roma”.

ancora un commento su “LE ROSSE PERGAMENE”

2018 di Anna Manna

Avendo ricevuto i ringraziamenti per il mio precedente

commento alla poesia, seconda classificata nella sezione

AMORE PER LA CALABRIA delle Rosse Pergamene, sia

dall’organizzatrice Anna Manna e sia dall’autrice Maria

Buongiorno, ho chiesto a quest’ultima di inviarmi il testo

dell’altra sua poesia premiata nella sezione AMORE PER

ROMA, per poterne meglio valutare la personalità.

Eccola qui, sotto i miei occhi. L’ho stampata sul cartaceo e

l’ho letta e riletta più di una volta, soffermandomi sulle parole,

sui versi e soprattutto sul contenuto della poesia, che oso

definire un vero poema, essendo completo di tutti gli elementi

validi per essere definito tale.

L’autrice nel comporla non ha scelto l’amore banale che può

avvenire in ogni singola città non solo italiana, ma mondiale,

tra un uomo e una donna, anche se ciò fosse anche previsto dal

regolamento.

Ella ha preferito l’argomento, più corposo, dell’Amore puro

per la città di Roma, in quanto tale, senza, pertanto, dare spazio

agli amorucci di contrada, i quali, anche se resi celebri dalle

stornellate romane e dalle canzoni famose, quali ad esempio

quelle cantate da Claudio Villa, restano un semplice e mero

argomento di comune accadimento.

Scelta difficile da realizzare, non solo per il complesso

aspetto storico e artistico della città, che comporta da parte del

poeta una visione più che erudita da poterne annullare e

inficiare l’impatto poetico, ma anche perché bisognava

misurarsi con dei “giganti” della poesia sull’argomento, di

livello non solo nazionale, ma mondiale.

Mi viene in mente Goethe e anche Giosuè Carducci, il

quale, nonostante la sua retorica, riesce ad infondere un lirismo

insuperabile in quella sua famosa poesia nell’annuale della

fondazione di Roma. Non so se ricordate… quella che inizia

“Te, redimito di fior purpurei april te vide … ecc., ecc.”

Un contenuto, quindi, non solo difficile dal punto di vista

poetico ma anche ambizioso e non poco. Non nascondo che

anch’io ho provato a misurarmi con questo argomento con ben

due poesie nella cosiddetta silloge, ma riconosco di non essere

riuscito nel mio intento. Troppo difficile, troppo complesso.

Non sono riuscito a trovare l’anello di congiunzione tra la

storia e la poesia, tra il reale passato e la fantasia creatrice.

Troppa erudizione descrittiva, ma senza l’ala della vena

poetica, nonostante il mio ricorso alla rigorosità metrica

dell’endecasillabo.

Ebbene, leggendo la poesia di Maria Buongiorno, ho

scoperto che ella è riuscita a trovare questo legame tra realtà

storica e fantasia poetica, con un espediente molto semplice,

simpatico, forse intuitivo, ma che ha l’effetto di una creazione

poetica stupenda, aiutata, tra l’altro, dalla visione fantasiosa su

muri sgretolati e ricchi di memoria di una lucertolina, che ne

addolcisce il contesto.

Ecco che appare, sullo scenario di colonne antiche, di ruderi

famosi, di archi statue corrose, di quell’amore, nudo in Grecia

e a Roma, come lo definì Carducci, la moderna Roma,

aggirarsi, negletta, sconsolata e obesa dai ricordi, su quanto è

stato distrutto e vilipeso non solo dal tempo, ma dall’incuria

umana.

Da questa visita fantastica della Roma di oggi alla Roma di

ieri, emerge un contrasto veramente stupendo che dà la

possibilità alla poetessa, di descrivere i vecchi cimeli

architettonici e storici della città con arguzia non retorica, ma

incisiva, e lo stupore commosso e non di maniera di se stessa in

altra veste.

Da questo contrasto emerge l’amore di Roma… per Roma.

Nessuna intrusione in questo rapporto d’amore, da parte di

terzi, che potrebbe suonare di sapore politico o strumentale,

leggermente sfiorato.

È Roma che piange se stessa. È Roma che commossa leva il

suo grido d’amore a se stessa. È Roma che, genuflessa su se

stessa si adora per la sua storia e per la sua grandezza.

“T’amo Dea Roma”, si sente echeggiare tra i versi semplici,

non ricercati, ma affidati al sentimento, anche se queste tre

parole non vengano mai usate esplicitamente.

È un’estatica contemplazione di se stessa nel divenire

ineluttabile del tempo, alla luce soffusa del ricordo permeato da

una mestizia accennata e superata dalla realtà storica della sua

palese eternità.

Tutta la poesia è compendiata nel contenuto poetico,

ingentilito da questa trovata intelligente e geniale.

La premiazione, da parte della Giuria, trova effettivamente

un giustificazione all’intraprendenza poetica e creativa della

poetessa, rapportandola a quella di altre composizioni

concorrenti che io sconosco e non sono in grado di valutare.

Spero che alla manifestazione faccia seguito la

pubblicazione di un’antologia, con almeno le poesie premiate e

i commenti della Giuria, per fissare nel tempo, l’importanza

delle Rosse Pergamene, così ricche di contenuti artistici e

creativi.

 

 

 

 

ALLA TAVOLA ROTONDA di ANNA MANNA

 

 

Non mi sono mai richiesto e pertanto nemmeno in

quest’anno, se scrivere poesie possa farmi ritenere fortunato o

meno. A pensarci bene, in occasione dell’attuale pandemia,

ritengo per me sia stata una fortuna perché mi ha permesso di

superare prono sulla scrivania momenti difficili e di

scoraggiamento.

Secondo me, chi legge le mie poesie e anche quelle degli

altri, lo fa per completare se stesso e soprattutto per scoprire se

i suoi sentimenti e i suoi pensieri trovano una risposta

nell’altrui pensiero. Diciamo pure che lo fa per completare se

stesso spiritualmente. Almeno io scrivo un po’ per mia

soddisfazione, ma soprattutto perché ritengo che chi mi legga

abbia modo di analizzare i suoi sentimenti in relazione alla

interpretazione che ne dà.

Farei senz’altro di più. I miei studi giovanili erano

indirizzati verso il settore scientifico e matematico, ma mi

sentivo portato verso lo studio delle lettere, al quale sono

approdato da dilettante e autodidatta.

Scrivo solamente per il piacere di scrivere, di raccontarmi,

di leggere dentro me stesso e per la sete di comunicare i miei

pensieri e le mie esperienze agli altri perché ne traggano motivi

di riflessione ed esperienza.

La memoria è fondamentale nella poesia, almeno per me,

poiché in essa appare lo specchio dei propri sentimenti, del

proprio modo di pensare e agire ed esaltano la gioia e il dolore

insite nell’animo umano.

La domanda non è nemmeno da porsi, poiché la poesia è

sempre esistita fin dai tempi più antichi e continuerà ad esistere

finché il genere umano vivrà. Nei geroglifici, nei manoscritti

antichi, nei testi religiosi di tutte le religioni antiche e presenti,

nei resoconti storici e finanche nei fatti di cronaca, serpeggia

l’alito della poesia in maniere diverse. Essa fa parte

dell’umanità. Quello che cambia in essa è la modalità

espressiva, che si evolve nel tempo. Potrà essere più o meno di

tonalità elaborata, oppure rimata oppure accompagnata dalla

musica, ma sarà sempre presente e costante nell’uomo.

Aggiungo pure che non solo l’umanità, ma la natura tutta è

espressione di poesia, anche nel silenzio delle immagini

nell’alito del vento e nel profumo dei fiori.

 

 

 

 

 

 

ANDANDO A TEATRO

 

 

 

PENSACI, GIACOMINO

 

 

È una novella del Pirandello, pubblicata nel lontano 1910, la

quale ebbe molto successo, poiché, per certi aspetti, metteva in

ombra l’etica clericale, in un periodo in cui il papato

evidenziava il suo dissenso nei confronti del novello stato

italiano, considerato un usurpatore dei suoi beni temporali.

Da questa novella ne nacque uno spettacolo teatrale in

vernacolo, fortemente voluto dall’attore catanese Angelo

Musco in tre atti.

Lo spettacolo in questione ebbe tanto successo che ne

comparve una traduzione in italiano, interpretato con successo

da artisti del livello di Sergio Tofano (STO)

L’argomento, particolarmente tratteggiato parla della storia

di un anziano professore, che rimasto vedovo, decide di

sposare una ragazzina per costringere lo stato a corrisponderle

la pensione di reperibilità per almeno una cinquantina d’anni

dopo la sua morte. La sua scelta cade su una giovane allieva,

rimasta incinta per il rapporto con un altro suo allievo.

Nonostante lo scandalo suscitato da questa vicenda, egli sposa

la giovane, che non solo mette al mondo un neonato, ma

ottiene di convivere con il ragazzo che ama, nella casa del

professore, ufficialmente suo marito. Questo che viene

considerato un “menage à trois”, ma che in effetti non è, suscita

lo scandalo e il dissenso etico sia da parte dei genitori della

stessa ragazza che da parte della famiglia del ragazzo.

Interviene il parroco che cerca di mettere ordine per convincere

il professore a cambiare indirizzo di comportamento, mentre

il ragazzo viene costretto ad abbandonare la madre di suo figlio

e a fidanzarsi con una ragazza di buona famiglia.. A questo

punto il professore, portando a casa del ragazzo il frutto del suo

amore, in una scena in cui viene evidenziata l’ipocrisia del parroco

e di una società formalista, riesce a ristabilire il rapporto

umano tra i due giovani.

La scena si conclude con la frase al parroco, che lo taccia di

non credere non solamente all’amore, ma nemmeno a Cristo.

Oggi forse la novella del Pirandello e la relativa commedia,

fanno un po’ sorridere, essendo stati superati molti tabù, ma

allora ebbe molto successo, poiché sbandierava un

comportamento poco umano e ipocrita delle istituzioni

religiose nei confronti dei sentimenti dell’onore e dell’amore,

di cui il novello stato si faceva paladino.

Inoltre, va ricordato che molto più tardi l’allora Governo

presieduto da Saragat, essendosi verificato nella realtà che,

effettivamente un pensionato, avendo sposato una ventenne era

morto appena qualche mese dopo, costringendo lo stato a

corrispondere alla giovane vedova la pensione di reperibilità a

vita, provvide a correggere la norma, stabilendo che la vedova

poteva accedere alla reversibilità della pensione solo dopo un

periodo di convivenza con il pensionato non inferiore ad un

congruo periodo.

Successivamente, pur ammettendo il diritto alla reversibilità

della pensione, un successivo governo ha condizionato

l’importo non più pari alla metà dell’importo della pensione del

coniuge, ma al rapporto inversamente proporzionale di tale

metà con gli scaglioni di reddito possedute dalla vedova. In

altri termini, si tende ad eliminarla del tutto.

 

 

 

 

UNA SERATA AL METROPOLITAN DI CATANIA

Con Tullio Solenghi e Massimo Lopez.

 

Una caratteristica del pubblico melomane e anche teatrale a

Catania è quella improntata ad una certo modo di pensare e

agire, che oserei definire molto corretto, specioso, educato e

esaustivo.

Se lo spettacolo piace ai convenuti, generalmente gente di

gusti artistici non certo grossolana che preferisce il

palcoscenico ad uno schermo cinematografico, tutti rimangono

composti ai loro posti applaudendo nei momenti giusti e

salutando gli attori con un lungo applauso finale.

Se lo spettacolo non piace per il modo di porgersi degli

attori o perché l’opera non soddisfa le aspettative, non volano

fischi e schiamazzi, ma a trionfare è il silenzio e …

l’abbandono alla chetichella dei posti in platea.

Quando alla fine si chiude il sipario, non si sentono applausi

perché la sala è … vuota.

Io ho un abbonamento per gli spettacoli di opera lirica al

teatro Massimo Bellini e uno per il Metropolitan per gli

spettacoli teatrali e in entrambi i locali ho notato questo tipo di

comportamento, che oso definire signorile e per certi versi

anche disarmante.

Ricordo che al Metropolitan alcuni anni fa ad un attore di

discreta fama e celebrità scappò una frase non tanto gradita al

pubblico che suonò come un rimprovero ai convenuti.

Non successe nulla di spiacevole, né alcuna reazione, ma il

silenzio regnò da quel momento in sala. La esibizione continuò

e man mano che la rappresentazione andava avanti, la gente,

alla chetichella con ordine e silenziosamente si allontanò

finché, alla fine il sipario si chiuse davanti ad una decina di

persone rimaste, che non applaudirono nemmeno.

Evidentemente fu un flop. Non credo che costui tornerà mai

più a Catania.

Ciò, chiaramente non è avvenuto qualche settimana fa ed

esattamente il 15 Dicembre 2018 al Metropolitan, dove ha

avuto luogo uno show interpretato da due sole persone: Tullio

Solenghi e Massimo Lopez.

Sinceramente, prendendo posto, ho pensato che sarebbe

stata una serata barbosa, da mettere nel dimenticatoio

certamente e che sarebbe stato meglio occupare il tempo

diversamente.

Mi son dovuto ricredere. Fin dalle prime battute ho trovato

lo spettacolo non solo interessante, ma divertente e

coinvolgente. Lo show consisteva nella imitazione verbale e

gestuale di una miriade di personaggi della canzone, dello

spettacolo, della politica e anche della religione.

Il tutto scorreva liscio, senza intoppi, con una classe

veramente signorile e lontano da volgarità cui qualcuno ricorre

a volte. Una satira, leggera, simpatica, senza contrasti di

pensiero e superficialmente condotta senza offendere i

personaggi e criticare l’eventuale loro ideologia, lasciata da

parte e nemmeno sfiorata.

Ho assistito allo scorrere di una miriade di personaggi che

ho conosciuto lungo la mia abbastanza lunga esistenza, che mi

hanno strappato il sorriso e mi hanno costretto più di una volta

ad accodarmi agli applausi del pubblico. Ho riascoltato voci a

me care di Pippo Baudo, Corrado, Alberto Sordi, il tenente

Sheridan, Modugno non escluse quelle di cantanti donne, come

ad esempio Patty Pravo e altre ancora, tutti imitati anche nelle

loro movenze, senza il ricorso a camuffamenti di trucco o

vestiti.

Quando è stata la volta dei politici, mi aspettavo che si

tradissero e che saltasse fuori qualche riferimento alle loro idee

e ad eventuali avversioni e invece nulla. Il tutto si è limitato ad

una mimica veramente esilarante, ma superficiale senza

scendere in profondità di pensieri o strategie. Una satira

veramente corretta e leggera, che non ha per nulla influito sulle

coscienze politiche degli astanti. Simpatica l’imitazione di

Berlusconi e di Di Pietro; quest’ultima veramente divertente e

interpretata dal Lopez in maniera veramente magistrale.

Quando si è passati alla satira religiosa e ho visto apparire

sulla scena il personaggio del papa emerito imitato dal

Solenghi e quello del papa regnante interpretato dal Lopez, mi

son detto: ci siamo vediamo che cosa ci scappa a sti due

adesso. Vuoi vedere che domani i giornali … Invece niente.

Tutto è filato liscio come l’olio. L’imitazione era formale e

accattivante anche nei giudizi nei confronti del malcostume

della società. Nulla che potesse nuocere all’eticità dei

personaggi, senza alcun riferimento alla situazione un poco

anomala rispetto a a quella tradizionale. Posso ben dire che il

tono ha assunto quello di esortazione al ben operare da parte di

entrambi i personaggi e che sia stato occasione di riflessione

religiosa per il pubblico. L’effetto proprio di una predica

piacevole e benevola da parte di entrambi i Papi.

Dire chi dei due sia stato più bravo non mi è concesso di

dire, poiché mi sono piaciuti entrambi e non solo a me, ma a

tutto il pubblico che ha seguito con attenzione sottolineando

con lunghi applausi le fasi più salienti. Se fossi costretto a dare

un voto darei un dieci e lode ad entrambi, poiché hanno operato

senza la necessità di effetti scenici particolari, semplicemente

puntando sulla loro bravura personale.

Se dovessi fare un confronto con altri imitatori, ad esempio,

con Alighiero Noschese, per quanto costui mi piacesse un

sacco, opterei per la bravura del duo Polenghi-Lopez per il

semplice fatto che loro sono riusciti ad ottenere degli effetti

veramente esilaranti, senza ricorrere al trucco ampiamente

usato dal Noschese e non solo per questo, ma anche per il fatto

che la satira di quest’ultimo era a volte un tantino velenosa,

mentre quella di Polenghi e Lopez no.

Se dovessero tornare a recitare a Catania, sarei ben lieto di

rivederli e insieme a me, anche il pubblico, forse nostalgico di

una satira piacevole e sorridente in contrasto con quella dei

nostri giorni feroce e offensiva.

 

 

 

 

LA CAPINERA

 

 

Ieri, 6 Dicembre 2019, al Teatro Massimo Bellini di Catania

vi è stata un’esplosione di catanesità assoluta. È andato in

scena per la prima volta il melodramma lirico di Gianni Bella,

Mogol e Ferretti, “La Capinera”

Catanese Gianni Bella, già noto cantautore e musicista

debuttante nella lirica; catanese il teatro che ricorda il celebre

Bellini; catanese l’ambiente presentato sul palcoscenico;

catanese lo spirito del Verga che aleggiava su tutta la vicenda

rappresentata; catanese il pubblico che alla fine ha applaudito

per 20 minuti sia l’opera che i cantanti, nonché lo stesso Gianni

Bella apparso sul palcoscenico.

L’opera si ispira al romanzo verghiano la storia di una

capinera e racconta il dramma di una giovane donna, costretta

dalle necessità della vita, a prendere il velo, nonostante quella

non fosse la sua vocazione

Il Verga finì di scrivere questo romanzo alla fine dell’anno

1869, ma venne pubblicato solamente nel 1871.

Il romanzo che seguiva il filone del languente romanticismo,

non trovò all’inizio molto successo, ma dopo l’esploit del

Verga, seguito alla rappresentazione dell’opera lirica “La

cavalleria rusticana”, ispirata al Mascagni da una sua novella,

fu notata dal pubblico e, parimenti al “Mastro Don

Gesualdo”,“I Malavoglia” e le altre novelle veriste, raggiunse

quel favore del pubblico che rese celebre il Verga.

La curiosità storica vuole che il Verga nello scrivere questo

romanzo si ispirasse ad un suo amore giovanile non realizzato

per una ragazza, conosciuta a Vizzini nel periodo del colera

negli anni 1854/55, una certa Rosalia, destinata per indigenza a

diventare suora. Ciò è quanto emerge da ricerche effettuate da

un biografo del Verga, ma la verità certa è che la scrittura di

questa sua opera, gli dette la scusa di frequentare con una certa

assiduità Giselda Foianesi, conosciuta a Firenze e trasferitasi a

Catania per insegnare in un convitto di novizie. Ciò, allo scopo

di acquisire modi di pensare e di fare delle novizie utili al suo

lavoro. Fra i due nacque del tenero, ma non approdò a nulla per

una certa avversione del Verga ad una situazione matrimoniale

stabile. Fu così che la Foianesi accettò la corte e la proposta di

matrimonio dell’illustre Professore Mario Rapisarda, titolare di

cattedra di Retorica all’Università di Catania. È storia accertata

che il matrimonio tra i due naufragò, poiché Verga fece da terzo

incomodo e che la Foianesi se ne tornò a Firenze senza marito

e… senza amante, disprezzata da entrambi.

In ogni caso, “la storia di una capinera”, è un documento

storico che evidenzia, la tendenza di quel periodo a ricorrere

alla monacazione dei meno abbienti, in genere contadini, per

sfuggire all’indigenza endemica della popolazione. Lo spettro

della “roba”, capo saldo del verismo, già aleggiava nella mente

del Verga. Era sotto i suoi occhi il verificarsi di vocazioni

sospette di preti e monache ai quali era da stimolo solamente la

fame o la fuga da una vita di stenti e miseria. Chissà, forse

anche lui avrebbe scelto quella via se costretto dall’indigenza.

Certamente egli, portato a godere i piaceri della vita e

dell’amore per le donne, notò il contrasto che sarebbe nato in

lui nel caso di una simile scelta.

Quindi, la storia di una capinera è sicuramente frutto non

solo del ricordo di un’ eventuale sua avventuretta giovanile o

del desiderio di esporre una realtà storica, ma di esternare una

sua sensazione personale di sgomento e di disagio d’innanzi ad

una sua eventuale scelta in proposito.

Un’altra considerazione che mi viene spontanea è, che se

Gianni Bella e Mogol sono al loro primo debutto nella lirica, il

Verga è pure al primo debutto in questo campo, dopo la sua

morte. Il primo battesimo lo ha avuto con “la cavalleria

rusticana, ma da vivo.

 

 

 

 

TEATRO GRECO TAORMINA

 

 

Sono riuscito per la prima volta nella mia vita ad assistere

ad uno spettacolo seduto sugli spalti del teatro greco di

Taormina, laddove gli antichi greci e anche quelli romani

hanno poggiato le loro tunicate chiappe per godersi gli

spettacoli. Mi sono emozionato, non lo nego, anche se

l’atmosfera è stata sicuramente diversa. Intanto gli spalti erano

occupati “a saltare” come previsto dalle norme anti-covid 19.

La gente non indossava la tunica, ma in compenso aveva la

maschera anti-virus. La scena era illuminata non dalle fumose

tede, ma da lampadine ad elettricità e poi lo spettacolo non era

una tragedia greca, ma il RIGOLETTO, la famosa opera lirica

dei nostri tempi e i musici non erano gli aedi, ma i musicanti

del Teatro Massimo Bellini. Non sono mancati gli applausi. Si

poteva accedere solo se in possesso di green-pass.

 

 

 

 

UNA SERATA AL MASSIMO BELLINI

 

 

Ieri 06 Marzo 2022, domenica, al Teatro Massimo Bellini

serata di recupero di spettacoli del passato periodo di chiusura

a causa della pandemia del Covid. È stato d’obbligo indossare

la mascherina ed esibire il Green Pass.

Dopo la lunga attesa per il controllo finalmente si è potuto

accedere ai posti previsti e ascoltare il programma: La

Cavalleria Rusticana e I Pagliacci. L’atmosfera è stata quella

di sempre, a parte le mascherine bianche sui musi degli

spettatori. Bellissime le scene, Bravi i cantanti, impeccabile

l’accompagnamento musicale

Nel seguire i due lavori, specialmente quello della

Cavalleria Rusticana mi è sorta una riflessione che mi appresto

ad esternare relativamente agli usi e costumi di allora e quelli

odierni. Il tema di sempre, molto sentito nella nostra società è

quello dei rapporti amorosi e relativi tradimenti, che forniscono

un alimento costante alle tragedie coniugali con risvolti letali,

ma diversamente espresse. Purtroppo in queste tragedie tra i

due coniugi vi è sempre un terzo incomodo che fa scoppiare

dei risvolti poco piacevoli che molte volte si concludono con la

uccisione di qualcuno. Appunto in questo “qualcuno”sta la

differenza tra allora e adesso.

Ai tempi del Verga, dalla cui novella è stata tratta la trama,

dal Mascagni, si interpretava la tragedia secondo un

canovaccio già sancito dalla Commedia Napoletana: “Issu, Issa

e u mal’homme”. (Lui, Lei e l’uomo cattivo). Secondo questo

tracciato, ce tendeva a difendere il rapporto coniugale ritenuto

sacro, a dover soccombere ed essere punito del tradimento

coniugale non era mai uno dei due coniugi per quanto

colpevoli, ma il “terzo incomodo” ossia l’uomo cattivo che

aveva osato spezzare l’idillio amoroso benedetto da Dio. Nel

caso specifico in questione, nonostante le malefatte di “Lola”,

moglie fedifraga e incostante, a pagare il fio della colpa è lo

sprovveduto “compare Turiddu” per mano del marito tradito

“compare Alfio”. Per quanto si possa considerare che tale

canovaccio venisse dettato dal bisogno sociale di difendere

l’istituzione del matrimonio, non è da sottacere la posizione di

protezione nei confronti della donna, come se fosse una

proprietà esclusiva del marito da non dover sciupare e

mantenere nonostante un suo cattivo comportamento.

Anche l’altra opera “I Pagliacci”, che tratta una storiella

d’amore e di corna, ad avere la peggio dallo sfascio del

matrimonio non è la donna, ma il marito, ossia l’elemento

maschile nei confronti del “terzo incomodo”, ossia l’amante.

Insomma, in entrambi i casi in questi tipi di tragedie

coniugali è sempre l’elemento maschile a dover farne le spese,

proprio per questo rapporto di sudditanza della donna nei

confronti dell’uomo, come se fosse un bene voluttuario da

dover proteggere in ogni caso.

Nei tipi di tragedie che invece avvengono nei nostri giorni, i

rapporti hanno altri risvolti. Nella maggior parte dei casi “il

terzo incomodo” e in genere l’elemento maschile riesce sempre

a farla franca e a pagare lo scotto è sempre la femmina. Tant’è

che è stato varato il termine di “femminicidio” in sostituzione

del classico uxoricidio. Questa diversa evoluzione della

tragedia coniugale nella realtà scaturisce dal fatto di attribuire

alla donna una personalità più autonoma rispetto al passato, la

quale tra l’altro è stata rivendicata da lei stessa in modo sempre

più eclatante. Il paradosso di questa nuova concezione tragica è

l’implicito riconoscimento della personalità della donna non

più considerata un bene di proprietà maschile da proteggere,

ma un elemento cosciente delle proprie responsabilità e di

essere punito in caso di cattivo operare. Insomma allo stato

attuale la donna non è più preda del “mal’homme”, ma un

essere umano cosciente di avere delle responsabilità e di dover

pagare di persona il fio di una sua eventuale colpa, secondo il

copione tradizionale di “occhio per occhio, dente per d

ente”,

molto negativo per lei la cui prestanza fisica difficilmente può

contrastare quella maschile.

A parte di codesta riflessione sul cambiamento del modo di

concepire le nuove tendenze sociali, è trascorsa una serata

domenicale tutto sommato piacevole e diversa dalle ultime di

questi due anni bruttissimi di pandemia.

 

 

 

 

 

I FIGLI DELLA SICILIA

 

 

 

 

ROSA BALISTRERI

 

 

Grazie a Vera Ambra, presidentessa dell’Associazione

Akkuaria, nonché editrice dell’omonima Casa, ho avuto modo

di conoscere e frequentare un personaggio del tutto particolare,

che, armata di chitarra, ama proporre le canzoni di Rosa

Balistreri, di cui ha anche scritto un libro “Cancia lu ventu”

(Cambia il vento), dove vengono riportate le composizioni

dialettali da lei cantate con la chitarra e avendo anche

compilato un CD in proposito.

Per quanto brava possa essere la mia amica Cinzia Sciuto, di

cui sto parlando, non è di lei che voglio evidenziare i meriti,

ma della Balistreri. A Cinzia resta il vanto di avermela fatta

conoscere attraverso le sue interpretazioni.

Ma chi era Rosa Balistreri? Una donna, certamente, ma

anche un’artista che grazie alla sua chitarra ha girato in lungo e

in largo su molti palcoscenici della nostra Italia, strimpellando

con la sua chitarra e cantando nella sua lingua ( che è anche la

mia) delle composizioni dialettali, ricche di pathos e immagini

di vita.

La Sicilia è ricca di menestrelli dialettali, che assumono il

nome di Cantastorie, ossia, quei popolari cantori delle vicende

umane che in palcoscenici di fortuna, accompagnandosi con la

chitarra, fanno conoscere al mondo che li circonda le loro

composizioni poetiche su vicende e fatti di cronaca eclatanti,

esattamente come avveniva nell’era romanza-provenzale agli

albori delle lingue neolatine con il liuto e le poesie d’amore.

Ma mai si era verificata l’evenienza che a fare questo lavoro

artistico in Sicilia fosse una donna, che fu capace di trasferire

questo tipo di manifestazione artistica dalle piazze ai

palcoscenici e di sostituire ai personaggi d’occasione la natura

stessa del mondo siciliano e il suo modo di essere.

Con lei appare nello scenario teatrale questo modo nuovo di

intendere l’arte del Cantastorie. È la Sicilia intera che canta la

sua malinconica storia, dove “l’acquazzina, la siminzina e la

rosa marina” assurgono al ruolo di personaggi maestosi e degni

di attenzione, quali eroiche manifestazioni di un mondo

sconosciuto, coperte da un velo, che lei riesce a strappare con

la forza delle sue note cadenzate dal peltro attraverso le corde

della sua chitarra.

Del resto il suo canto malinconico, la sua voce dolce e

rassegnata, le sue note inventate ad hoc, rispecchiano i dolori di

una vita vissuta sull’orlo del bisogno e della povertà al limite

della disperazione e della perdizione.

Ecco che qui entra in gioco l’opera di Cinzia Sciuto, la quale

riesce a far riemergere questi momenti drammatici della vita

della Balistreri e della sua costante lotta per non essere

sommersa dalle sue tristi vicissitudini.

Già, tristi vicissitudini! Poiché Rosa non ebbe una vita

serena da dedicare all’arte cui fin da bambina sembrava

destinata, sia per la mentalità di allora, sia per lo stato

d’indigenza in cui era nata.

Infatti ella venne al mondo nel 1927 nel profondo Sud della

Sicilia, a Licata, figlia di un modesto operaio lavoratore del

legno e di una castigatissima casalinga siciliana e faceva parte

di una famiglia composta da un fratello e altre sorelle il cui

livello culturale era quello del tempo, improntato alle norme

del tirare avanti per vivere.

Si tenga presente che tutta l’Italia, e non solo la Sicilia, si

dibatteva nella crisi economica dei postumi della prima guerra

mondiale e che il subentrato rivoluzionario periodo fascista,

dedito all’esaltazione dell’ italico nazionalismo autarchico,

dava poco spazio alle aspirazioni di crescita artistica, in modo

particolare alle donne, relegate al ruolo di fattrici d’eroici

virgulti. Inoltre, a venti anni, Rosa Balistreri si trovò ad

affrontare un’altra crisi altrettanto tremenda, quale quella della

seconda guerra mondiale, dove l’unico spazio era quello di

sopravvivere al disastro e trovare qualcosa da mettere sotto i

denti.

Eppure Rosa, fin da bambina, aveva una voce che si

prestava al canto, ma non poteva essere curata per le avverse

circostanze.

Come tutte le ragazze dell’epoca, ella fu destinata ad una

vita da casalinga al seguito di un marito che badasse alle sue

necessità e a quelle di tutta la famiglia e un marito, in effetti, le

venne procurato attraverso un “matrimonio portato”

(combinato).

Lo sposo predestinato fu un tale, chiamato Jachinazzu (il

rozzo contadino Gioacchino Torregrossa), che, purtroppo, non

risultò essere persona a modo. Infatti aveva il vizio del bere e

del gioco e non esitò a dilapidare tutti i beni che la famiglia di

origine le aveva dato in dote. Egli arrivò al punto di giocarsi

anche i soldi destinati al futuro corredo della figlia Angela, che

intanto era nata.

Era quella l’usanza del tempo di accumulare, fin dalla

nascita di una figlia femmina, dei soldi per l’indispensabile

corredo per il matrimonio, cui era destinata. Più ricco era il

corredo, più possibilità aveva la neonata di trovare un buon

partito. Il famoso assioma della “roba”, che il Verga aveva

evidenziato in altri tempi era sempre valido e vigente,

nonostante, anzi grazie, allo stato di bisogno del dopoguerra.

Al colmo della disperazione, durante una ennesima lite, che

ebbe come esito la peggio per il marito, al punto di crederlo

morto, si costituì ai carabinieri, che l’arrestarono. Per fortuna

sua e del marito, quest’ultimo non morì e Rosa venne

scarcerata con la condizionale.

Ovviamente fu la fine del matrimonio, ovvero, della

convivenza, poiché allora non esisteva il divorzio, ma la

semplice separazione legale.

Per allevare la figlia, che manteneva in collegio, fu costretta

a ad andare a lavorare abbracciando tutti i mestieri, anche i più

umili, quali la raccolta delle olive e delle mandorle in

campagna, nonché la conservazione delle acciughe, l’ andare a

servizio presso famiglie abbienti e quant’altro era in grado di

fare. Infine trovò una sistemazione quasi stabile a servizio

presso una famiglia benestante, ma ecco che venne accusata di

furto, quasi certamente perpetrato per lo stato di necessità in

cui versava.

Venne arrestata e, scontata la pena, si trasferì a Licata a

Palermo dove, per intercessione di un benefattore, trovò lavoro

come custode e sagrestana presso la chiesa di Santa Maria degli

Agonizzanti. Ma il suo soggiorno nel capoluogo siciliano non

le fu certamente favorevole. Essendo morto il vecchio parroco,

il nuovo sacerdote pare che non la trattasse in maniera del tutto

ortodossa, per cui, insieme al fratello, calzolaio, dopo aver

rubato la cassetta delle elemosine, fuggì da Palermo alla volta

di Firenze, dove visse fino al 1971, per poi ritornare, dopo

dodici anni, nella sua Palermo, dove continuò e consolidò la

sua attività artistica. Fu durante questo periodo che avvennero

altri fatti tremendi che forgiarono il carattere di Rosa.

Visse per un buon periodo con il fratello, che, mise su un

laboratorio di calzoleria e ospitò lei e le altre due sorelle Maria

e Mariannina. Avvenne, poi, che una delle due, Maria, fuggita

dal marito violento insieme ai figli, venne da quest’ultimo

uccisa. Il loro padre, al colmo della disperazione e del dolore,

si impiccò e avvenne pure che Rosa, alla fine conobbe il pittore

Manfredi Lombardi con il quale andò a convivere e che la

introdusse nel mondo degli artisti.

Dice un proverbio antico siciliano a proposito delle donne

che “l’uomo che ti piglia ti pinge e ti dipinge”. Grazie a lui,

infatti, e alle sue doti artistiche, venne introdotta nel mondo

artistico e conobbe personaggi del calibro di Dario Fo, Ignazio

Buttitta e Mario De Micheli, i quali la spinsero ad

intraprendere l’attività artistica a lei congeniale, quella del

cantastorie, utilizzando quel suo spontaneo dialetto in versi e la

sua chitarra.

Finita la relazione con il pittore Manfredi Lombardi, che

l’abbandonò per una modella più giovane di lei, decise,

incassando anche questo dispiacere, di andare a vivere a

Palermo con sua figlia, che, intanto aveva lasciato il collegio e

… era incinta, proseguendo nella sua attività artistica, che la

portò sulla cresta dell’onda e alla notorietà, anche perché dal

1976 si accompagnò con il compositore musicista Mario

Modestini, che dette ordine alle poesie da lei interpretate,

scrivendone le musiche adattate al suo talento.

Ed è cosi che ancora oggi, intellettuali che con lei hanno

collaborato, quali Andrea Camilleri, Leo Gullotta, Otello

Profazio, Gianni Belfiore, la ricordano occupandosi della sua

opera.

Ella morì nel 1990, a soli 63 anni, vittima del suo immenso

travaglio, a Palermo, dove trovò la verve e l’ispirazione per la

sua attività di cantastorie e poetessa vocale del popolo.

Indubbiamente Rosa Balistreri è una pietra miliare

dell’essere donna del mondo artistico moderno, poiché

racchiude nel suo personaggio tutti gli elementi emergenti del

folklore che diventa arte e del caparbio voler superare non solo

le ambasce della vita, ma anche i soprusi di un mondo tutto

votato al maschile, oltre che lo specchio riflettente delle virtù

proprie dell’essere donna.

Nata e vissuta in un ambiente decisamente ostile, priva di

una istruzione adeguata e di mezzi per condurre una vita

serena, seppe reagire ribellandosi alle angherie del marito e

nonostante fosse piombata nel disonore del carcere e sommersa

dalle negatività della vita, seppe risollevarsi con la caparbia

volontà delle donne, fino a raggiungere l’apice del trionfo.

Oggi, in un periodo in cui ormai la donna, dopo il 1968, ha

iniziato ad intraprendere un ruolo di competizione nei confronti

degli uomini, ella appare come una guerriera in prima linea a

combattere contro ogni avversità e angheria.

Un esempio dell’essere donna della nostra futura Europa,

proiettata verso l’eguaglianza tra i due sessi, senza, per altro,

scagliarsi infine, come fece nella prima gioventù, contro il

mondo maschile, ma attingendo nel suo intimo la forza

dell’arte, della poesia e della musica, nell’imitarlo e utilizzarlo

per il suo trionfo artistico personale.

Oggi, infatti, parlando di Rosa, ci si dimentica quanto di

brutto ella abbia potuto fare, del suo tentato omicidio, dei suoi

furti e del carcere subito, ascoltando le sue malinconiche

canzoni, che si possono gustare attraverso i dischi da lei incisi

al suono della sua chitarra.

Mi auguro che la mia amica Cinzia Sciuto, siciliana come

lei e animata di un particolare talento a lei similare, con la sua

voce e la sua chitarra, riesca sempre di più a svelare le cime

nascoste della personalità di Rosa ancora non emerse,

proiettando sempre di più nel mondo europeo la cultura e la

gioia di vivere della mia terra.

 

 

 

 

GIUSEPPE PITRÈ

 

 

“Pi’ casu Vossia è chiddu ca scrivi favuli pe’ picciiriddi?” Si

sentì dire Giuseppe Pitré dal contadino che lo aveva chiamato

per visitare la sua bambina in preda ad una febbre improvvisa

manifestatasi durante la notte.

“No. Io sono il medico Giuseppe Pitré. L’altro che avete

detto è un’altra persona. Uno che ha il mio stesso nome e

cognome.” – rispose, mentendo, il solerte dottore, togliendosi

dalle orecchie l’auricolare con il quale aveva visitato la bimba.

In verità egli e il favolista erano la stessa persona, ma ci teneva

a dire sempre che non lo era, poiché distingueva tra le sue due

professionalità. Di buon mattino impiegava le prime ore del

giorno allo studio delle lettere, scrivendo racconti per i bambini

traendoli dalla sua cultura siciliana, Dopo una certa ora si

dedicava invece al suo lavoro di medico. Era come se in lui

effettivamente convivessero il letterato e il medico, ma in fasi

differenti e in modo che le due attività non si intralciassero a

vicenda.

Ma chi era in effetti Giuseppe Pitré? Alla luce di quanto

riportato da Internet, era uno dei tanti figli di questa nostra

Sicilia che si distinse nel mondo letterario e culturale. Egli

nacque nel quartiere di Santa Lucia a Palermo da una modesta

famiglia di pescatori il 22 Dicembre 1941. Rimasto orfano di

padre, morto di pellagra nel 1847 in America, dove si trovava

imbarcato, fu educato dalla madre con grandi sacrifici. Grazie

anche alla generosità dei Gesuiti, cui venne affidata la sua

educazione culturale, egli coltivò lo studio del latino e della

storia della sua terra. Notò la sostanziale differenza tra la lingua

italiana, che egli era costretto ad usare e il suo modo di parlare

prettamente dialettale. Lo appassionò, quindi, fin da piccolo

questa differenza linguistica, cercando di individuarne i motivi.

Grazie alla sua costante applicazione e alla conoscenza di usi e

costumi della sua città, concepì che il dialetto siciliano altro

non fosse, se non una lingua neolatina parallela a quella

italiana. Scoprì la connessione tra il latino e il siciliano e pensò,

sulla falsariga di quanto appreso della Scuola Siciliana di

Federico II di Svevia, di evidenziare le regole di mutazione

fonetica del siciliano dalla lingua madre latina, senza dover

passare attraverso l’italiano. Praticamente, concepì il siciliano,

una lingua a se stante rispetto all’italiano. Pertanto cercò di

individuarne l’essenza, scrivendo una grammatica vera e

propria della lingua siciliana, scevra dal parallelismo

linguistico dall’italiano. Fu facile, quindi, per il Pitré fare ciò,

grazie alla sua conoscenza, che oso definire naturale, scivolare

nello studio particolare dei modi espressivi dei suoi

concittadini. Non solo studioso di lingua siciliana fu il Pitré,

ma anche profondo e attento scrittore degli usi e costumi del

suo tempo e si accorse così della diversità dei dialetti siciliani a

seconda delle località. Notò la mollezza del dialetto

palermitano e ad oriente della Sicilia e d il tono quasi musicale

di quello occidentale, caratteristico del mondo greco.

Giovanissimo, si arruolò nelle truppe garibaldine, giunte in

Sicilia nel 1860.

Nonostante la sua attività militare momentanea, non trascurò

non solo lo studio delle lettere, ma nemmeno quella

dell’istruzione universitaria nel campo sanitario.

Nel 1865 si laureò in medicina e chirurgia, diventando

medico. Fu questa la sua attività che gli consentì di vivere e

inserirsi nella società in modo produttivo, ma il Dottor Pitré

non dimenticò le lettere che gli avevano permesso tanto

successo nella vita e continuò imperterrito ad approfondire la

sua cultura letteraria. Pertanto, prima che medico, fu anche

insegnante di lettere e Filosofia nel liceo della sua città. Il suo

pregio consisteva nel distinguere le due attività, nelle quali

eccelse con pari fortuna.

Ottimo medico fu dunque, come la tradizione ce lo mostra e

ottimo letterato come la sua produzione letteraria ce lo porge

superbamente impegnato a scoprire i significati profondi del

suo dialetto e l’origine etimologica e fonetica di molti vocaboli

dialettali.

Per mia fortuna, ho avuto modo di conoscere il Pitré

attraverso un opuscolo da lui scritto con l’intento di dettare le

regole grammaticali del dialetto siciliano attingendo le notizie

relative ai termini latini. Un’opera certosina e scrupolosa di

ricerca degna di molto riguardo e di vero accademico.

Ovviamente per chi non conosce i rudimenti della lingua latina

non può recepire in pieno il lavoro del Pitré; tuttavia avrà modo

di rendersi conto del significato esplicito di alcuni termini e

della profonda conoscenza del folklore siciliano, che è alla base

del suo operare. Non solo questo, ma anche della giusta

valutazione di molti poeti dialettali siciliani che per parecchio

tempo sono rimasti nell’ombra. Mi riferisco, in particolare, al

Martoglio e a Domenico Tempio. Specialmente in quest’ultimo

risulta evidente la connessione tra dialetto catanese e lingua

latina. Oserei dire che quasi, quasi è più semplice tradurre in

latino piuttosto che in italiano, le poesie dialettali del Tempio.

Non a caso quest’ultimo ha ricevuto la stessa base culturale

d’apprendimento del Pitré. Entrambi ricevettero l’influsso del

latino attraverso Santa Madre Chiesa, rappresentata dai Gesuiti

nell’uno e dal Monastero nell’altro. Per quanto non sia tanto

noto, il Tempio studiò in gioventù per diventare prete.

Ovviamente il rigore scientifico, legato alla conoscenza del

latino rende un poco ostico il contenuto dell’opuscolo in

questione, poiché non tutti conoscono questa antica lingua

madre. Tuttavia aiuta a comprendere il significato di molti

termini siciliani e la loro origine, non sempre legata ai

successivi idiomi scaturiti dall’occupazione di altre

popolazioni. Dal momento che anche la lingua italiana è legata

al latino, l’opera del Pitré risulta molto utile, anche se non

risolutiva al livello popolano. È da dire che il Pitré era assillato

dal cruccio di voler dimostrare che il siciliano non era una

deformazione della lingua italiana, ma un diverso modo di

evoluzione linguistico parallelo ad essa. In effetti dice una cosa

vera e certamente non confutabile. Però, ai fini utili, chi parla

già l’italiano ha necessità di far riferimento alla sua lingua per

comprendere alcuni termini e modi di dire siciliani. In parole

povere, non si può praticamente tradurre un concetto

dall’italiano al siciliano attraverso il latino, ormai desueto e da

molti non più conosciuto. Necessita, quindi di un rapporto

immediato e più diretto ai fini della comprensione perfetta. In

ultima analisi, bisogna conoscere le regole grammaticali del

comune modo di esprimersi di entrambe le lingue. Esattamente

come avviene tra l’italiano e il francese o l’inglese o qualunque

altra lingua. Da questo punto di vista l’opera del Pitré

sembrerebbe inutile e superflua, ma non è così poiché il suo

studio nelle mani di uno studioso di lettere attento riesce ad

indirizzarlo nella traccia di un piano di intendimento universale

applicabile in ogni caso tra il siciliano e qualunque altra lingua.

Proprio per questo il Pitré è famoso. Grazie al suo continuo

riferimento del siciliano al latino, riesce ad eliminare accenti,

apostrofi e quant’altro nella scrittura dialettale, rendendola più

comprensibile e immediata nella rappresentazione delle

immagini e, quindi, più facile ad essere tradotta in altri

linguaggi. Seguendo il tracciato del suo studio letterario, sono

nati dei dizionari e delle regole grammaticali siciliane che

consentono il rapporto con altri linguaggi di facile

consultazione e uso.

Purtroppo, non esiste una vera storia di letteratura dialettale,

che è rimasta, come suol dirsi, al palo. Ciò per la sua

caratteristica prettamente popolare e finalizzata soltanto a poter

dialogare tra conterranei. Tuttavia c’è nel dialetto l’elemento

poetico che emerge e che sembra standardizzato senza seguire i

canoni che invece caratterizzano le varie lingue, non solo

parlate, ma studiate e migliorate. Così accade che un poeta

siciliano, pur scrivendo e recitando poesie nel suo dialetto,

quando si tratta di dover esplicitare dei concetti del suo

pensiero in prosa, utilizzi l’italiano. Accade pure che le sue

poesie in siciliano non seguano gli indirizzi storici, che

emergono periodicamente e assumano una forma sempre

uguale, caratterizzata dalla rima che può essere alternata e dal

classico sonetto d’antica memoria. In particolare, per il poeta

siciliano la rima è sacra! Ed anche il popolo che ama la poesia

siciliana, la pretende espressa in rima e non la considera tale

senza di essa. Per quanto mi concerne, dal momento che

anch’io scrivo poesie in dialetto, oltre che in italiano, ho

pensato di superare tale forma, ricorrendo sovente

all’endecasillabo sciolto, magari alternato con settenari,

esattamente come faceva il Leopardi, mettendo in atto una

maggiore attenzione nel rispetto degli accenti tonici, ossia della

metrica, anch’essa derivata dal mondo latino. In molti casi mi

sembra che l’esperimento sia riuscito abbastanza bene, anche

se qualcuno non è per niente d’accordo, legato alla rima nella

poesia siciliana.

A conclusione di questo mio dissertare sul dialetto siciliano,

è da dire che a livello popolare la poesia gode ottima salute,

così come viene espressa, ossia usando la rima, anche se gli

argomenti molte volte non sono proprio poetici. La stessa cosa

non possiamo dire della prosa. Il siciliano scrive in italiano,

anche se pieno di errori grammaticali, ma nel parlare e nel

dialogare stenta ad usarlo. Preferisce esprimersi in dialetto e se

cerca di mostrare una certa talentuosità sfoggiando un italiano

contorto e infarcito di espressioni tipiche dialettali, ne vien

fuori una specie di fiume, dove prende quota un italiano

maccheronico, misto a sicilianismi, che trova anche fortuna

artistica nel campo teatrale. Usando questo modo di esprimersi

alcuni attori siciliani hanno raggiunto la celebrità, facendosi

nello stesso tempo portavoci del dialetto siciliano, rendendolo

comprensibile anche agli spettatori che siciliani non sono. Cito

fra questi il mai dimenticato Angelo Musco e ancora, Turi

Ferro, Franco Franchi, Ciccio Ingrassia, nonché Gilberto

Idonea, Lando Buzzanca Tiberio Murgia. Pino Caruso, Leo

Gullotta, Nino Frassica, Pattavina e altri ancora sulla breccia.

Non bisogna dimenticare inoltre quanti dal mondo dialettale

siciliano, pur scrivendo in italiano hanno tratto gli spunti per

raggiungere la celebrità. Anche qui mi piace citare tra tutti il

Verga, Nino Martoglio, Pirandello, nonché Bufalino, Sciascia e

non ultimo Camilleri con le sue vicende poliziesche risolte dal

commissario Montalbano.

Insomma, in questo campo, il dialetto ha fatto sfoggio di

preziosismi linguistici più che apprezzabili e tali da trovare

un’icona nel mondo artistico-letterale italico.

Sostanzialmente, ho parlato del dialetto siciliano

riferendomi alla nostra realtà di Italiani e quindi delle

connessioni con il linguaggio italiano. Trova inoltre molto

interesse anche linguistico il linguaggio che scaturisce dal

contatto con la lingua inglese, adottata dai nostri emigranti in

America. È un misto di italiano, siciliano e inglese che è anche

possibile notare nelle loro lettere epistolari ai congiunti In una

di queste lettere, ad esempio, un emigrato informava la moglie

di aver trovato a Nuova Yorka lu jobbu (il lavoro) che aveva

problemi, però, per accucchiare i dollari, che poi sono le lire,

che non poteva mandare. Lì, nella terra lontana dalla Sicilia, il

dialetto a poco a poco muore e i figli degli emigrati

apprendono l’inglese e raramente ricordano qualche parola

appresa dai loro genitori. Non ricordo chi lo abbia detto, ma

proprio questa mescolanza di termini di diversa origine, tende

ad un linguaggio, che, ipoteticamente, sarà comune agli uomini

tutti di diversa nazionalità ed etnia. Qualcuno che ha inteso

anticipare i tempi ha tirato fuori una lingua comprensibile a

tutti dandogli anche un nome: l’esperanto. Ma da quanto mi

risulta l’esperimento non ha avuto fino adesso buon esito.

Tuttavia son convinto che alla fine, ciò avverrà, ma quando

solo Dio lo sa!

 

 

 

 

TOMMASO CAMPAILLA

 

 

Dopo aver letto questo cognome, Campailla, nel Gruppo “I

fan di Pippo” di FB, mi sono arrovellato il cervello perché ero

certo di averlo sentito in altre occasioni. Ma dove? In che

occasione? Alla fine ho ricordato: fu visitando Modica in veste

di turista che sono venuto a conoscenza di Tommaso

Campailla. All’ingresso della Chiesa di San Giorgio, vi è una

lapide che ricorda questo illustre patrizio di Modica, ìl quale,

dopo la sua morte, venne sepolto ai piedi dell’altare maggiore

del tempio, assurto a Duomo della cittadina siciliana.

Ma chi era Tommaso Campailla per aver avuto tanto

riguardo e tanto onore da parte dei suoi concittadini? Egli fu

uno studioso, un poeta, un letterato di rilevante importanza,

nonché un filosofo e un medico che lasciò la sua impronta

anche nel campo della ricerca scientifica. Egli nacque a Modica

il 6 Aprile del 1668, in una via alla base della rupe dove sorge

il Castello, da una famiglia patrizia di Modica. A causa del suo

precario stato di salute, venne dal padre fatto crescere in

campagna nella speranza di irrobustirlo al contatto con la

natura. Tuttavia il padre curò che il suo figliolo venisse educato

nello studio e infine, nel 1684 lo fece trasferire a Catania per

conseguire la laurea in giurisprudenza, forse mai ottenuta,

poiché sopravvenuta la morte del genitore, ritornò a Modica

vivendo di rendita, avendo ereditato una cospicua posizione

economica. Da Modica non si mosse più, nemmeno per recarsi

a Palermo, previo invito, per l’incoronazione di Vittorio

Amedeo II di Savoia, allora re di Piemonte e Sicilia. (Solo

dopo, i Savoia preferirono cedere la Sicilia in cambio della

Sardegna.) Tuttavia continuò ad occuparsi dei suoi studi, che

toccavano un po’ tutto lo scibile d’allora, raggiungendo una

certa fama che lo rese celebre nel mondo. Da questo punto di

vista, cioè, per il vasto campo di interessi di cui si occupò, lo si

può annoverare tra gli spiriti eclettici di quel periodo, alla pari

con Galileo Galilei, Leonardo da Vinci e altri illustri letteratiscienziati.

Allora la cultura era ancora basata sulla famosa

distinzione del trivio e del quadrivio di dantesca memoria, ma

molti scrittori e letterati si occupavano di entrambi i rami,

sicché erano contemporaneamente letterati e scienziati. Scrisse

dei poemi storici sulla falsariga di altri suoi contemporanei, fu

un fine poeta, ma si occupò di filosofia studiando il pensiero di

Cartesio, alla cui corrente riteneva di appartenere e anche

geografia, nonché sismologia, avendo vissuto il terremoto che

investì il Val di Noto. Non disdegnò inoltre di occuparsi di

medicina, avendo indagato sulle cause che determinavano la

pestifera lue e avendo sperimentato in proposito un sistema di

cura, che passò alla storia come il metodo delle botti di

Campailla. Pur partecipando alle varie correnti letterarie, come,

ad esempio quello dell’Arcadia, apportando il suo contributo

fattivo, rifiutò prestigiosi incarichi di insegnamento presso gli

Atenei italiani più in voga. Accettò comunque di ospitare nella

sua Modica personaggi celebri europei, come il Berkeley e

intavolare anche con altri dei rapporti epistolari, quali ad

esempio, quelli con Ludovico Antonio Muratori. Non pago di

tali interessi, si occupò pure di astronomia, fisica e financo di

teologia esternando il suo pensiero sull’esistenza di Dio, in

relazione alla filosofia cartesiana e quella cristiana. Egli

combatté l’eresia del “Quietismo”, scaturito dalle teorie di

Miguel Molinos. Chiaramente, fu anche latinista e cultore del

mondo classico. Insomma era una mente aperta a tutto lo

scibile, raggiungendo una celebrità che lo rese famoso in tutto

il mondo culturale di allora.

Egli morì nella sua Modica il 7 Febbraio del 1740 a causa di

un colpo apoplettico e venne tumulato ai piedi dell’altare

maggiore della chiesa di San Giorgio. Ancora oggi il suo

personaggio è celebrato e ricordato tra gli uomini illustri di

Modica. Esiste oggi a Modica un Museo a lui dedicato. Pure a

Catania una via è stata intestata al suo nome, per ricordare la

sua frequenza all’ateneo catanese. Va evidenziato che il suo

sapere era frutto della sua applicazione di autodidatta anche nel

campo della medicina. Geniale la sua cura intuitiva della lue

con l’invenzione della famose botti, che altro non erano se non

degli ambienti in cui gli ammalati venivano costretti a respirare

i sali di mercurio che allora curavano la malattia. Non si

conosceva ancora la penicillina, che dette la stoccata finale a

questa malattia venerea. In applicazione del suo metodo,

scaturito dalla cura a lui nota dei sali di mercurio, fino a tempi

quasi recenti, presso le caserme dei militari di leva, esistevano

delle stanze adibite al lavaggio con i sali sopra citati, a scopo,

preventivo. Il transito nelle suddette stanze era da ritenersi

obbligatorio, oltre che consigliato, per coloro i quali avessero

avuto dei rapporti sessuali occasionali o sospetti. Oggi

sicuramente non esistono più, dal momento che il servizio di

leva è stato abolito e inoltre risulta molto efficiente l’uso della

penicillina, capace di troncare questo tipo d’infezione. Oggi

chiunque esercita la professione di medico la cura facilmente,

ma allora l’aver messo in atto le famose botti, dettero al

Campailla una fama internazionale. Certamente non fu lui a

scoprire il potere dei sali di mercurio in proposito, ma

l’applicazione del suo metodo fu senz’altro geniale e risolutivo.

Purtroppo ai nostri tempi, votati alla specializzazione più

capillare in assoluto dei singoli rami della scienza e della

cultura, è molto difficile trovare dei personaggi e delle figure

eclettiche come quella di Tommaso Campailla, siciliano del

profondo Sud.

 

 

 

 

GIUSEPPE DE FELICE GIUFFRIDA

 

 

Il 30 Maggio 1894 venne arrestato e condannato a 18 anni

un illustre uomo politico catanese. Si trattava di Giuseppe De

Felice Giuffrida, accusato di sedizione, nonché ribellione e

sospetta appartenenza ad una cosca mafiosa. Egli, aveva

aderito al movimento dei Fasci Siciliani cui aveva dato vita il

Verro a Palermo, rivendicando i diritti dei contadini e lavoratori

dello zolfo a non essere sfruttati dalla politica del neo eletto

governo Crispi, permeata della sua improvvisa aderenza alla

destra, garante dei privilegi terrieri delle classi benestanti. Pur

di trovare degli aiuti alla sua politica, il Verro, temendo anche

di essere ucciso, aderì alla cosca mafiosa detta dei “Fratuzzi”.

Tale sua scelta e anche i tafferugli creati dalle rivolte dei

contadini, costrinsero il Crispi ad usare il pugno di ferro.

Vennero, così, arrestati il Verro che venne condannato a 12 anni

e il De Felice, quali capi storici del movimento reazionario dei

Fasci Siciliani. Essi, dopo appena due anni di detenzione a

Volterra, vennero amnistiati, perché essendo stati rieletti, a

furor di popolo, ebbero riconosciuta dalla magistratura

l’eccessiva condanna loro imposta.

Il verro diventò anche sindaco di Corleone, ma venne

successivamente ucciso dalla Mafia per essere venuto meno al

giuramento di adesione alla cosca dei Fratuzzi.

Ben altra sorte ebbe il De Felice, che divenuto deputato al

Parlamento per un periodo di circa trenta anni, occupò anche la

carica di sindaco di Catania, acquisendo stima e plauso da parte

dei cittadini che lo ritenevano un giusto e anche un santo.

Ma chi era esattamente il De Felice? Un figlio del popolo,

nato nell’indigenza e vivamente proiettato con le sue capacità

intellettuali a conquistare la benevolenza del suo mondo.

Egli nacque a Catania il 17 settembre del 1859, dal padre,

Sebastiano Giuffrida, che nel 1868 venne ucciso dai carabinieri

durante una rapina e dalla madre Maria, che, per vivere si

prostituiva. Per tali motivo il giovane Giuseppe venne affidato

all’ospizio comunale, dove venne educato alla religione

cattolica e ottenendo anche l’istruzione fino al conseguimento

della licenza elementare. Nel diciassettesimo anno della sua

vita, conobbe Giuseppina De Simone che sposò, mettendo al

mondo ben quattro figlie. Nonostante il matrimonio e il suo

impegnò politico, non disdegnò dall’avere dei rapporti con

altre donne, riscuotendo anche in questo campo dei lusinghieri

successi. La sua permanenza all’ospizio, la conoscenza inoltre

di uomini importanti del suo tempo, quale, ad esempio quella

con Mario Rapisardi, gli fruttarono l’impiego presso la

prefettura come archivista. Contemporaneamente si dedicò alla

pubblicazione di un giornale di critica politica di cui era

direttore, “Lo staffile”. Per questo motivo, non certo gradito

dalle autorità politiche del suo tempo, nel 1881 venne destituito

dall’incarico e per vivere e sostentare la sua famiglia, si dedicò

ai lavori più umili, non escluso quello di venditore di vini e

olio. Nonostante ciò, continuò a studiare presso l’Università di

Catania riuscendo a laurearsi in legge. Tuttavia non esercitò

mai la professione d’avvocato, dedicandosi interamente alla

politica, che, ovviamente, era quella di sinistra, favorevole ai

lavori più umili a danno dei loschi interessi delle classi più

abbienti. A testimonianza del suo impegno politico, al cognome

iniziale di Giuffrida, aggiunse quello opzionale di De Felice,

appartenente ad una modesta famiglia di Catania, che viveva in

povertà e di lavoro. Fondò, insieme ad altri giornalisti, il

quotidiano “L’UNIONE”, riprendendo i vecchi temi del

giornale “lo staffile” che era stato costretto ad abbandonare.

Egli aderì al socialismo collettivista e progressista, che nulla

aveva a che fare con quello marxista. In sostanza era molto

vicino al PSI, anche se sosteneva di avere una semplice

aderenza di percorso a tale partito, ritenendo di essere

socialista, ma di non dipendere dai suoi dirigenti. Il suo

socialismo era solamente siciliano, lontano dai dettati

nazionali. Erano suoi alleati e compagni di percorso politico i

mazziniani, i radicali, i democratici e i socialisti. Suoi avversari

politici furono le destre, cui appartenevano le classi più

abbienti e a Catania il Sapuppo e anche i Carnazza. Nel 1885

venne eletto consigliere comunale e subì anche una prima

condanna a 18 mesi per accuse nei confronti del sindaco

d’allora Carnazza, che, in effetti non scontò per essere riparato

a Malta. Eletto deputato, riuscì a far cadere il governo Crispi e

di appoggiare quello di Rudinì, nonché di Pelloux, ma alla fine,

anche per i contrasti nati con il mondo cattolico, dovette cedere

all’avanzata del governo presieduto da Giolitti. Fu nel 1894 che

venne condannato a 18 anni per sedizione, essendo ritenuto uno

dei capi del movimento dei Fasci Siciliani. Tuttavia egli ebbe la

meglio sui suoi avversari, riuscendo a farsi eleggere deputato e,

dopo, anche sindaco di Catania, dove riscuoteva maggior

credito e stima da parte del popolo, dei nobili e anche delle

donne.

Fu a Catania, che eccelse per la quantità e qualità di opere

che resero la vita dei cittadini più accettabile e progressista.

Famoso resta il suo provvedimento in occasione alla serrata dei

fornai. In quell’anno per una sopraggiunta cattiva annata della

produzione del grano, i fornai pretesero dal Comune un

aumento del pane di 5 centesimi al chilo. Grazie alla sua opera

non solo non venne concesso l’aumento, ma addirittura il suo

prezzo diminuì di colpo poiché il pane venne prodotto

direttamente dal Comune, che affidò ai fornai solo il compito di

venderlo. A tale provvedimento bisogna aggiungere anche le

numerose opere pubbliche cui dette impulso.

Furono opere sue: il prolungamento del Viale Regina

margherita a ovest con il Viale Mario Rapisardi e ad est con il

viale XX Settembre, la creazione della Piazza Esposizione,

divenuta poi Piazza G. Verga e ancor prima campo di calcio per

la squadra catanese, la costruzione del carcere di Piazza Lanza,

che sostituiva quello borbonico di piazza Lupo, la realizzazione

della rete tranviaria a Catania, la costruzione dell’Ospizio dei

Ciechi, l’Ospedale Garibaldi di Piazza Santa Maria di Gesù, gli

scavi archeologici dell’anfiteatro romano di Piazza Stesicoro,

che erano state sepolte subito dopo il terremoto, la costruzione

dell’aeroporto di Fontanarossa, la stessa passeggiata a mare

adiacente alla stazione di Catania Centrale, che lo stesso Crispi

aveva prospettato. Insomma nessun altro uomo politico a

Catania è riuscito a fare quanto da lui realizzato nei suoi 28

anni di vita politica. A ben ragione, dopo la sua morte avvenuta

per causa naturale nel 1920 partecipò, quasi al completo tutta la

cittadinanza, che, nel cimitero di Catania ha costruito un

mausoleo per onorare la sua salma.

Ancora oggi, i Catanesi, nel giorno della festa dei morti, non

mancano di deporre anche un solo fiore sulla sua tomba e in

Piazza Roma, a Catania, gli hanno dedicato un istituto tecnico

di Scuola media superiore.

A causa dei suoi trascorsi giudiziari, alcuni hanno definito il

De Felice un populista e addirittura un demagogo. In verità, per

l’acume politico dimostrato e per la capacità di mostrare un

pensiero poliedrico costante di operosità non è possibile

attribuirgli tali demeriti alla luce dei pasticci messi in atto dei

veri populisti e demagoghi. Il rispetto che egli aveva per il

popolo, in quanto simbolo dell’umanità, non va confuso con il

forsennato ricorso a piacere alle masse popolari con

provvedimenti del tutto fatui e appariscenti, quali donazioni,

giochi e divertimenti. Non circenses, sed panem oportet donare

populo, dovremmo dire oggi.

 

 

 

 

 

PINA LICCIARDELLO

 

 

Chi è Pina Licciardello per essere da me citata tra i figli

della Sicilia degni di essere commentati e ricordat? Non è una

scrittrice, anche se ha tutte le capacità per esserlo, ne una

musicista e nemmeno una grande attrice, ma semplicemente

una modesta insegnante di scuola superiore profondamente

immersa nel suo ruolo ed a tal punto di essersi posto

l’obbiettivo di insegnare non solo agli studenti a lei affidati, ma

a tutte le persone disposte ad ascoltarla, mettendo a

disposizione di tutti le sue profonde conoscenze della Sicilia da

lei acquisite nel tempo

Lei ha semplicemente realizzato un sito su INTERNET con

un titolo che sembrerebbe pretenzioso, ma in effetti è una vera

fonte di cultura e notizie sulla Sicilia veramente infinite. Il

nome del sito è: GOCCE DI PERLE. Vi si accede tramite Google.

Dire che trattasi di una vera fonte di notizie, storiche, culturali,

geografiche, turistiche interessanti la Sicilia è poca cosa. In

effetti si è in presenza di un vero manuale per conoscerla a

fondo.

Intanto non appena si apre il sito in questione si ha la

possibilità di scegliere la lingua da utilizzare. Cosa,

quest’ultima, che gli dà la veste dell’internazionalità. Indi si ha

la possibilità di accedere con un semplice “Click” nei vari

settori che, pensate un po’, ne comprende anche uno battezzato

“LE VOSTRE PERLE”, in cui sono pubblicate le opere scritte dai

vari autori che lo richiedono ed anche uno finale di dialogo con

quanti chiedono chiarimenti e notizie.

Da quanto detto emerge che Pina Licciardello è veramente

un raro esempio di insegnante per vocazione ed una profonda

conoscitrice della nostra isola e dei suoi usi e costumi di tutti i

tempi.

 

Poiché Essa mi h accolto con molta simpatia, ho pensato di

doverla citare in questo mio commentario, pubblicando anche

l’ultima lettera che le ho inviato nel libro degli ospiti e che

riporto:

 

Gentilissima Pina,

Troverai dal portiere l’ultima mia fatica. Penso che sarà

proprio l’ultima per un cumulo di motivi, che cercherò di

spiegarti. Allego alla presente copia della prima di copertina e

il testo in pdf. – Non ti invio la bozza originale nel formato più

semplice poiché … è un altro libro! Vera Ambra ha tagliato,

movimentato, rimodellato il tutto, comprese le foto esplicative,

che ha sostituite. Lei ha avversione per testi che superano

circa le cento pagine (“ne facciamo un altro libro”).

Ad ogni buon conto se trovi difficoltà ad inserire il pdf nel

tuo sito, non farlo trovando una motivazione tecnica. Ti dicevo

che ho deciso di volere smettere d’imbrattare carta per diversi

motivi. Uno di essi è che tutto sommato ho

già detto tutto quanto mi consente il mio stato culturale…

Non farei che rimescolare e riproporre sempre gli stessi

argomenti ormai riti e ritriti … Ho paura di diventare noioso.

Ho parlato di tutto ciò che ho saputo o potuto: la guerra, un

po’ filosofia e di politica, l’amore, gli affetti familiari, la

pandemia, l’Etna, Catania, la Sicilia. Ho scritto poesie anche

in siciliano, oltre che in italiano. Insomma non sento di poter

raccontare altro al mondo intero. Il secondo motivo è che non

mi sento bene di salute.

Questi due ultimi anni mi hanno distrutto. Non mancavano

gli acciacchi di mia moglie, nel momento in cui ti scrivo non

sto bene: mi è venuto il fuoco di Sant’Antonio, l’herpes zoster

che sarà magari una sciocchezza, ma che è tremendo e mia

figlia dice che ne avrò per una decina di giorni.

Saluti a te e a tuo marito.

 

 

 

 

 

 

 

 

Note sull’Autore

 

Giuseppe Nasca, chiamato familiarmente Pippo, nasce a

Catania il 2 Febbraio 1937 nel periodo “nero” dell’Italia,

Frequenta le scuole dell’obbligo ed il Liceo Scientifico a

Catania. Si iscrive nella facoltà d’ingegneria di Catania, ma

superato il biennio propedeutico, abbandona gli studi per

entrare nelle FFSS come capostazione. Attualmente in

pensione, vive nell’isola amministrativa di Tremestieri Etneo.

Nonostante l’indirizzo scientifico degli studi e l’attività

prettamente operativa, spinto da una passione innata per lo

studio delle lettere, continua a coltivare ed ampliare le nozioni

acquisite al Liceo, cimentandosi in scritti (racconti, saggi,

poesie), che inizia a pubblicare dopo l’entrata in quiescenza (1

Luglio 1996) e partecipando con successo a numerosi concorsi

di premi letterari, tra i quali Le Rosse Pergamene di Anna

Manna, L’Accademia del Parnaso di Gero La Vecchia e

Akademon di Aci San Filippo.

Ha pubblicato con Libroitaliano World di Ragusa:

“Quando l’alba del tramonto incombe”, una raccolta di

poesie in italiano e con Anninovanta-Antasicilia Onlus:

“Sicilianaeneide” una rivisitazione completa dell’omonima

opera virgiliana in versi dialettali siciliani.

Con Lampidistampa ha pubblicato:

“I me’ pinseri”, Raccolta di liriche in dialetto siciliano;

“I salateddi”, raccolta di poesie satiriche in dialetto

siciliano;

“Scarabocchiando briciole di sogni”, raccolta di liriche in

italiano.

 

Con Akkuaria, oltre al presente volume, ha pubblicato:

“Ju fazzu ‘n-soccu mi piaci fari”, un saggio su lingua e usi

siciliani;

“La Fede del Gatto e del Topo”, raccolta di racconti

fantastici;

“Lu stranu viaggiu”, un poemetto in versi siciliani;

“Ilaria e Catania” racconti ambientati a Catania;

“Di Tia leggiu lu chiantu”, una rivisitazione in dialetto

siciliano delle poesie più celebri del Leopardi;

“C’era na vota nta l’antica Grecia”, rielaborazione dei più

celebri miti greci in versi siciliani, preceduti da presentazione

in italiano.

“L’importanza di chiamarsi Asdrubale”, trenta vicende di

non comune cronaca.

“Gli sproloqui di Pippo”, Libertà di pensiero sul freddo

ragionamento della convenienza.

“Dare tempo al tempo” (Spigolando su pensieri e

sentimenti) – raccolta di poesie in italiano.

“Mamma li Turchi” Romanzo ambientato nel catanese.

“Divinità del vino” Raccolta di poesie dedicate al vino.

“Tu dormi tenendomi la mano” Raccolte di poesie.

“Manuela Filiberta di Savoiano” Romanzo.

“Tutta Catania e dintorni in versi” Raccolte di poesie.

“Cronaca di un trapasso” Narrativa.

“Soffi scomposti: Zibaldone di poesie” Raccolta poetica.

“Catania tra fatti e fattacci” Raccolta di racconti.

“C’era una volta a Catania” Racconti sparsi.

“La guerra degli Scazzamureddi” Ricordi, Racconti e

Quarantene al tempo del Covid-19

“Antichi miti e leggende di Sicilia” Raccolta

“U fumu di l'Etna” Raccolta poetica.

“Pasticcio di colori” Raccolta poetica.

“Fatti e Ri-fatti” Racconti nati nella pandemia.

“Lu caputrenu cu’ li cugliuna” Ricordi al tempo del Covid

“L’asino di Via Belfiore” Ricordi al tempo del Covid

Suoi scritti, quali racconti, saggi, commenti e poesie,

compaiono nelle antologie pubblicate da Akkuaria.

 

 

 

 

 

INDICE

 

Prefazione di Grazia Maria Scardaci Pag. 7

COMMENTI ALLE OPERE DI VERA AMBRA

La polvere e il vento “ 13

Pudore “ 15

DIgnità calpestata “ 18

Al giungere della nave “ 20

Pegaseium nectar “ 23

Il gabbiano e la luna “ 27

Insabel “ 29

Piume baciatemi la guancia ardente “ 33

Viaggio nella memoria “ 41

Un uomo nell’ombra “ 45

Prefazione Catania: alla scoperta della catanesità “ 47

Catania: alla scoperta della catanesità “ 51

Parola al cioccolato “ 53

COMMENTI ALLE OPERE DI ALCUNI AUTORI DI AKKUARIA

Le cose che non esistono di Alessandra Felli “ 57

Nel nome della verità di Maria Stella Sudano “ 61

Azzurrogusto di Mariella Sudano “ 57

Ulisse sono io di Gabriella Rossitto “ 64

Donna, meraviglia del creato di Paolo Salamone “ 68

Tra le tue dita di Dario Miele “ 70

Itaca dispersa di Dario Mele “ 74

Il fiato delle stelle di Maria Rita Coppa “ 77

Quando cadevano le nuvole di Marta Limoli “ 79

178

Inno al linguaggio struggente Di Valeria Battiato Pag. 81

Sicilia fra miti e leggende a cura di M.Stella Sudano “ 83

Il trionfo dell’Arcobaleno di Giancarlo Grassano “ 85

Deliri Emozionali di Maria Tripoli “ 87

Due giovanissimi Autori a confronti

L’arte di appassire in silenzio e Petali di margherita

di Giuseppe Giorgio Pignatello e Martina Luvarà “ 91

Cercando le radici nel vento di Gabriele Stefani “ 94

COMMENTI SULLE OPERE DI AUTORI VARI

Non chiamarlo padre di Adriana Di Grazia “ 99

La camelia del partigiano di Claudia Tortora “ 101

Volevo la luna di Franco Di Blasi “ 106

Secondo me di Sebastiano Ministeri “ 109

Macerata magliana di Anna Pasquini “ 115

“Oltre lo specchio” La mannaia di Oilerua

di Alfredo Scaglia “ 121

Le rosse pergamene di Anna Manna 124

Ancora un commento su “Lr rosssse pergamene” “ 127

Alla tavola rotonda di Anna Manna “ 130

ANDANDO A TEATRO

Pensaci, Giacomino “ 135

Una serata al Metropolitan di Catania

Con Tullio Solenghi e Massimo Lopez. “ 137

La Capinera “ 141

Teatro Greco Taormina “ 144

Una serata al Massimo Bellini “ 145

179

I FIGLI DELLA SICILIA

Rosa Balistreri Pag. 151

GIuseppe Pitrè “ 157

Tommaso Campailla “ 164

Giuseppe De Felice Giuffrida “ 167

Pina Licciardello “ 172

Gentilisima Pina “ 173

Note biografiche dell’Autore “ 175

180