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"La guerra degli Scazzamureddi"

di Pippo Nasca

RICORDI, RACCONTI E QUARANTENE AL
TEMPO DEL COVID 19

 

 

I° VOLUME

 

 

Nota Bene

    Avendo letto e scritto parecchio durante il periodo in cui ho dovuto affrontare l’emergenza  Covid  19 e relativa quarantena ho ritenuto opportuno suddividere tutto quanto in diversi volumi dei quali questo è il primo.

   In questo primo volume  ho raggruppato tutti gli scritti di racconti di fantasia che costituiscono delle metafore da me elaborate relative alla pandemia del Covid 19

 

                                        Pippo Nasca

 

 

 

 

 

 

PREMESSA ALLA “SCRITTURA COME RIMEDIO ALLA QUARANTENA”

 

 

    La storica peste di tantissimi anni fa ispirò al Boccaccio il famoso Decamerone,  fruttandogli la fama che credeva di aver raggiunto con le sue poco note poesie e con gli scritti in latino di cui nessuno più si ricorda.

    Egli immaginò che dieci estrosi personaggi, per sfuggire ai pericoli della peste, si riunissero in quarantena per dieci giorni e per trovar pace e delizia raccontassero ognuno una novella al giorno.  Ne uscì fuori la sommatoria di cento novelle il cui tema veniva stabilito ogni singolo giorno da uno di loro che, a turno, veniva dichiarato re (oggi diremmo moderatore). 

    Se fisso era il tema giornaliero, il suo svolgimento risultava vario e di largo respiro umano, toccando i vari sentimenti ed aspetti della vita.

Di questo schema ne approfittò il Boccaccio per sciorinare il suo pensiero e la sua fantastica personalità che affonda le radici non certamente nei concetti di alta spiritualità teologica dantesca o prettamente sentimentale del Petrarca.

     Tuttavia, egli si illuse di seguire le orme di questi due personaggi, specie del Petrarca di cui divenne amico fraterno, mentre di Dante si accontentò di imparare a memoria la Divina Commedia, di cui divenne il lettore ufficiale per celebrarne il trionfo postumo a Firenze. Egli scrisse in volgare le sue novelle, quasi per scherzo e per soddisfare le sue tendenze all’edonismo ed anche alla lussuria. Infatti il Decamerone diventa un po’ il manuale del suo modo di concepire la vita per accattivarsi le simpatie e l’amore della sua amante  Fiammetta, che altri non era se non la figlia del Re di Napoli Roberto e della regina Giovanna, di cui si conosce la sua fama di mangiatrice di uomini.

      Basti pensare che il Boccaccio vituperava le donne che non si davano agli uomini ed esaltasse quelle che invece si  lasciavano concupire facilmente. Sicché le vere cattive erano le monache che avevano rinunciato agli uomini e le vere sante erano quelle che non negavano le loro grazie. Una morale rovesciata.

Tutto questo egli pensava e metteva in pratica sul piano della vita senza, per altro, concepire di trarne vantaggi letterari, che invece vennero, grazie alla loro spontaneità e sincerità d’intenti.

     Nell’invitare tutti in questo triste periodo, permeato di coronavirus e quarantene, a leggere le deliziose novelle del Boccaccio,  esorto scrittori ed aspiranti tali a seguire in tutto le sue orme letterarie

Chissà che oltre a salvare le pelle qualcuno non diventi celebre come lui.

    Per quanto mi concerne, non avendo avuto la possibilità, come fece Boccaccio di riunire un gruppo di amici ed amiche che raccontassero delle novelle per poter passare il tempo allegramente, onde vincere la solitudine e non restare inetto con la mente, non ho trovato di meglio che scrivere … Ma cosa? Tutto e di tutto quanto mi passasse per la mente.

Ho ottenuto il duplice scopo di farmi compagnia nella solitudine e ricordare tempi ormai trascorsi .

Ho fatto di necessità virtù!

   Una cosa, comunque,  intendo precisare una volta per tutte: Le pandemie sono causate da Virus che  altro non sono se non  una forma di vita del nostro pianeta. Bisogna immaginarli come una popolazione del microcosmo planetario.

   Da un punto di vista prettamente scientifico forse non sono definibili proprio una forma di vita, ma dall’alto della mia ignoranza in proposito, preferisco considerarla tale.

Esattamente, come per la razza umana, penso che vi siano diverse etnie di virus. Come esistono uomini di diversa etnia ( bianchi, negri, gialli), così esistono virus di diversa conformazione fisica. Alcuni di essi vivono nel regno animale ed in ambienti di razza diversa. Sicché vi sono virus  tipici degli uccelli o degli animali in genere e virus tipici della razza umana. Generalmente questi virus vivono bene o male nell’ambiente loro assegnato dalla natura e non destano molta preoccupazione nei loro ambienti. Tipico, negli uomini è il virus dell’influenza, che bene o male non è tanto pericoloso poiché facilmente domabile e quindi meno dannoso. Ma se un agglomerato di virus decide di passare dal mondo animale a quello umano e viceversa per i soggetti  colpiti non vi è alcuna via di scampo, a meno che non venga trovato un antidoto.(leggi: vaccino) Questa transumanza dei virus avviene generalmente quando l’intera popolazione virale viene messa in pericolo di vita nel proprio ambiente naturale. E’ il caso del covid 19 ed altri tipi di virus quali Ebola, Aviaria,  HYV ed altri similari. Questi virus che hanno il potere di trasmigrare hanno generalmente un aspetto fisico a corona e vengono appunto chiamati coronavirus.

    Particolarmente pericoloso è il covid 19, poiché le sue caratteristiche fisiche e potenzialità, nonché punti di debolezza, non sono del tutto noti agli uomini. Di esso si sa precisamente e solamente che è trasmigrato dai pipistrelli e che ogni singolo individuo è particolarmente longevo, quanto la vita stessa del suo ospite  originario (circa 40 anni).

E’ da chiedersi: come mai avviene questo tipo di trasmigrazione dall’animale all’uomo? Questo è forse un mistero della natura. Secondo una mia teoria non suffragata da prove, il virus cerca altri ambienti diversi da quello abituale, quando insorge un pericolo di estinzione del suo ospite. Non è un caso, secondo me, che il covid 19 sia passato dal pipistrello all’uomo in seguito alla distruzione di una gran quantità di boschi, dovuta ad incendi, dove questi animali abitualmente vivono. Qualcosa di simile è avvenuta con le precedenti pandemie.

    E’ stato, inoltre, rilevato che ad essere soggetti al contagio sono stati, al primo impatto uomini in un certo senso debilitati per età e per patologie varie . Chiaramente l’esodo istintivo ed in massa ha favorito il contagio nei confronti delle persone  più deboli, ma sicuramente lo spirito di conservazione spingerà il virus ad individuare obiettivi più sicuri e che gli permetteranno di avere una vita più longeva, ossia le persone giovani. Cosa, quest’ultima, che si verifica generalmente  in una  seconda ondata del contagio.

     Insomma, i virus si comportano esattamente come gli uomini che abbandonano il loro ambiente naturale a causa delle guerre, della fame e del pericolo di morire per raggiungere ambienti migliori. In un primo momento si accontentano di sbarcare in un’isola, ma successivamente tentano di trasferirsi verso luoghi più ospitali e ricchi.

Quindi il pericolo del Covid 19 è reale. Dire che esso è una invenzione politica è una grossa bufala, che fa aumentare il contagio.

 

  

 

 

 

La guerra degli “Scazzamureddi”

 

   Nell’antico paese di Godilandia ed anche nelle altre parti del mondo, nonostante i continui contrasti e la continue incomprensioni di sempre, la vita scorreva non proprio serena, ma scorreva, come l’acqua di un fiume che di tanto in tanto fa le bizze ed esce fuori dagli argini.

    In alcune parti del globo terrestre vi erano ancora delle guerre tra popoli diversi, ma ciò rientrava nel contesto storico di sempre.

Ciò che turbò veramente l’equilibrio, sia interno che esterno, di tutti gli stati del globo, fu la guerra degli Scazzamureddi.

Chi erano costoro?

Degli esseri viventi infinitamente piccoli da non poter essere apprezzati ad occhio nudo che avevano deciso di combattere contro il genere umano e di annientarlo

    E’ da dire che questa lotta dell’infinitamente piccolo contro il genere umano non era una novità. Esso, il piccolo infinitesimale, nel corso dei secoli, si era già presentato altre volte e sempre  più agguerrito e mutato nell’aspetto per non essere individuato e distrutto, ma con altri nomi ed altre caratteristiche.

    In principio l’uomo, che non aveva ancora individuato questi suoi nemici, li personifico in esseri fantastici di un mondo metafisico  ricco di folletti, gnomi, ed essere piccolissimi e strani sempre in lotta con l’umanità, da combattere con la magia. 

    Più tardi ci si accorse che non solo nel mondo metafisico ed immaginario, ma anche storicamente, questa lotta tra microcosmo e macrocosmo sulla terra si era realmente realizzata. Sostanzialmente l’uomo prese cognizione dell’esistenza reale di questo microcosmo pericoloso e lungo il percorso della storia,  ha dovuto affrontare questi piccolissimi esseri malefici, subendo, delle perdite non indifferenti.

Essi si presentano con caratteristiche sempre diverse e mietono vittime fino a quando non vengono studiati, analizzati e neutralizzati dai così detti vaccini, scoperti dall’uomo.

     Ritornando a parlare nello specifico degli Scazzamureddi, così chiamati ironicamente da chi li sottovaluta, essi assumono un aspetto fortemente diverso dai primitivi esseri e tali da poter più facilmente aggredire gli organi interni degli uomini, incapaci di poterne ostacolare la contagiosa marcia.

     Si dice che essi siano nati  nel vecchio mondo del Katai, passando dai pipistrelli agli uomini. Altri dicono che siano stati prodotti in laboratorio per una millantata guerra batteriologica oppure perché sfuggiti da ambienti di ricerca … Le discussioni in merito hanno assunto motivazioni politiche vere, non vere, presunte e non certo attendibili.

Sta di fatto che gli Scazzamureddi, hanno invaso il Paese di Godilandia  e tutti gli altri Paesi del globo terrestre, mietendo vittime in quantità.

Queste ultime, generalmente, sono persone che hanno raggiunto una certa età o che hanno delle carenze immunitarie dovute a patologie di cui sono affetti.   

La tecnica di conquista di questi virus si realizza attraverso gli occhi, le nari e la bocca dell’uomo. Dicono che entrati nell’organismo da queste porte, raggiungono i polmoni, le viscere e gli altri organi interni e se ne cibano distruggendoli. La loro struttura a forma di sfere con aculei insensibili ed infettanti agevola l’azione distruttrice permettendo il loro trasferimento in altri esseri umani. Sicché il contagio avviene in modo sicuro e rapido, senza alcuna possibilità di ostacolarlo.

    In attesa che vengano studiati e capiti le strutture fisiche degli Scazzamureddi, le autorità sanitarie hanno posto in auge un sistema di difesa empirico consistente nell’individuazione degli ammalati, nel loro isolamento e di quanti sono con essi venuti a contatto. Per le cure, ossia la distruzione del virus si va per tentativi che non sempre danno dei risultati.

    Sostanzialmente il sistema di difesa prevede, dunque, l’individuazione degli ammalati, la loro quarantena di almeno quindici giorni e le cure empiriche con medicinali atti a combattere altre malattie infettive..

    L’individuazione avviene mediante il tampone. Consiste nel prelevare del muco dalle nari e dal cavo faringeo dell’ammalato e sottoporlo ad un esame fisico in laboratorio e nel rilevamento della sua temperatura basale, che, generalmente sale intorno a 37 e mezzo. Se il tampone risulta positivo  si è dichiarati ammalati di covid 19, nome effettivo del Virus Scazzamureddu.

    La quarantena adottata  consiste nell’isolare l’ammalato e gli eventuali presunti contagiati  per almeno 15 giorni, periodo previsto per l’ incubazione.

     La cura consiste nel dare medicine già utili per eliminare altri tipi di virus oppure iniettando il plasma di sangue ottenuto dal prelievo di gente già guarita. Un ammalato viene dichiarato guarito se almeno due tamponi di seguito risultano negativi e per maggiore sicurezza è previsto anche un terzo tampone negativo.

      Gli Scazzamureddi non hanno un capo che li guidi. Ognuno di essi è autonomo ed è nello stesso tempo capo e soldato, capace di auto moltiplicarsi, di agire da solo apportando dei danni agli organi invasi e la sommatoria di tali danni dà luogo all’eliminazione del soggetto invaso.

     La soluzione definitiva per sconfiggere gli Scazzamureddi, è costruire un vaccino, su cui si sta alacremente lavorando, capace di influire ed interrompere la sua capacità di riprodursi.

     E’,inoltre, abbastanza chiaro che la scoperta di eventuali vaccini sia molto  problematica. Anche perché di codesti virus non è abbastanza certa la provenienza. Nel caso specifico, si suppone che gli Scazzamureddi stiano passando dall’organismo dei pipistrelli a quello umano. Molto probabilmente essi non risultavano nocivi per i pipistrelli, ma lo diventano per gli uomini essendo diverse le caratteristiche organiche.

Qualcosa di simile è avvenuto anche per altre pandemie, come, ad esempio per la peste bubbonica , i cui virus emigrarono dai topi all’uomo, come infine venne scoperto.

    E’ molto probabile che in seno alla natura esista una specie di equilibrio che regoli l’armonia tra l’infinitesimale piccolo ed il macroscopico ospite. Basta provocare un turbamento di codesto equilibrio per dar luogo ad una loro trasmigrazione. Nel caso dei topi, la peste si sviluppò in seguito ad una massiccia derattizzazione da parte dell’uomo per la difesa delle granaglie. Nulla di strano che gli attuali Scazzamureddi siano stati originati dai vasti incendi dei boschi del pianeta che hanno limitato l’habitat dei pipistrelli.

    Ad ogni buon conto, anche codesto problema da risolvere costituisce un serio ostacolo alla individuazione del vaccino e del ritrovato chimico che impedisca il contagio in atto.

 

    Nell’attesa che venga trovato un rimedio, sia esso vaccino o cura, l’unica strategia da seguire sembra essere quella del distanziamento tra le persone per evitare il contagio tra i singoli individui e l’uso di accorgimenti non sempre risolutivi, come l’uso delle mascherine , dei guanti e del lavaggio delle mani con sapone, che sembra essere veramente lesivo per il virus e che ovviamente non può essere ingerito dall’uomo.

    Purtroppo questi accorgimenti, per quanto utili alla lotta agli Scazzamureddi,  provocano delle limitazioni operative con grave nocumento all’economia nazionale e mondiale. Quest’ultimo fattore, complica maggiormente la situazione perché dà luogo  a diatribe di natura politica.

     Alla lotta reale al virus, si sovrappone, quindi, quella politica, creando degli squilibri pericolosi dal punto di vista sociale Ecco che a Godilandia la destra politica nota per la sua vocazione di tipo dittatoriale, accusa la sinistra di privazione della libertà per via delle quarantene imposte. Ecco ancora che gli USA accusino la Cina di aver diffuso il virus per creare lo scompiglio nel mondo …  Insomma si è venuta a creare una spasmodica agitazione di masse popolari, di Stati e di politiche che hanno rotto gli equilibri non del tutto raggiunti  nel mondo.

    Quando gli Scazzamureddi saranno finalmente debellati scomparendo del tutto o facendo  comunella in qualche modo con l’uomo,  la società  ne risulterà completamente alterata. Si avrà un’ inversione di valori e di tendenze che ancora non è possibile nemmeno intuire.

Se teniamo conto della periodicità nel tempo di pandemie già avvenute nel nostro pianeta e la colleghiamo a sconvolgimenti di squilibri naturali avvenuti , arriviamo alla conclusione che gli attuali Scazzamureddi, in futuro, avranno degli emuli sempre più agguerriti e pronti a conquistare gli organismi umani. Il sospetto che questo virus sia passato dal pipistrello all’uomo in seguito ai roghi dei nostri boschi, mi fa temere, in futuro, a cosa si possa andare incontro, ad esempio, con lo scioglimento dei ghiacciai polari in seguito al surriscaldamento del pianeta.

Il nostro pianeta è un’immensa palla di fuoco che con il tempo è andata raffreddandosi dando luogo a dei fenomeni che è possibile catalogare, da quando l’uomo ha imparato ad averne memoria. Mi sembra logico che altri fenomeni si aggiungeranno nel futuro fino a quando nella nostra galassia, il Sole, che è la nostra stella guida, non venga assorbita dal teorizzato buco nero dando luogo al suo totale annullamento ed ai suoi pianeti. Sembra che sia questo il tracciato da seguire della vita “nostra”. Ovviamente per nostra intendo “del pianeta Terra” e non quella personale  nell’immediato futuro.

“Tutto passa e cambia” ebbi a scrivere a proposito di una raccolta di racconti autobiografici. Mai come adesso ho capito che tale principio è applicabile a tutto il pianeta fino a quando tutto cesserà e si piomberà nel nulla.

    Altri Scazzamureddi in futuro e con altri  nomi compariranno in seguito. Coraggio, quindi! Lottiamo finché ne abbiamo la possibilità e non sopraggiunga il Buco Nero o come dice la Bibbia l’Apocalisse.

 

 

 

La lettera “R” a Catania

 

    Da quando è scoppiata la pandemia del covid 19, Agatino Capodicasa di Catania, commesso viaggiatore e procacciatore di affari, è costretto a dover lavorare stando a casa. Prima doveva  allontanarsi dal proprio domicilio cinque giorni su sette per contattare i clienti e mantenere quei contatti umani necessari al suo lavoro; adesso i suoi rapporti sono diventati esclusivamente telefonici e le sue visite ai clienti avvengono solamente tramite il Personal Computer, che prima gli serviva un po’ per svago.

    La sua vita, in verità, aveva subito un cambiamento radicale, di cui si lamentava , ma, che tutto sommato non gli dispiaceva tanto poiché gli consentiva di passare più tempo da dedicare alla famiglia ed in particolare alla giovane moglie desiderosa di averlo vicino.

     Ovviamente la nuova situazione influì a modificare anche i loro rapporti coniugali. Mentre il marito era fuori a causa del suo lavoro, lei era stata costretta a restare quasi sempre sola durante la settimana e solo il sabato e la domenica poteva godere della sua vicinanza  e sentirsi appagata del suo ruolo di moglie. In conclusione, i due coniugi, pur coabitando, prima erano costretti a frequentarsi poco; la nuova situazione, con la sua costrizione, influì favorevolmente e non poco nei loro rapporti di sempre. Di colpo si ricordarono del piacere di stare insieme e che li aveva spinti ad amarsi e sposarsi. Ripresero nuovamente a colmarsi di attenzioni che erano state per un po’ tralasciate e tra un bacetto ed un altro, tra una carezza ed un’altra, finirono per fare le loro offerte sacrificali ad Eros quasi tutti i giorni.

    Passate due settimane di “lockdown”(brutta parola inglese che significa “chiusura”) il Ragioniere  Agatino Capodicasa cominciò ad accusare un poco di stanchezza e ne parlò con la moglie, la quale condivise il suo discorso e non negò che anche lei a volte “ci stava” per non dispiacergli. Insomma i due coniugi arrivarono, di comune accordo,  alla decisione di  porre un limite alle loro effusioni per poterne godere più intensamente gli attimi di piacere condiviso.

 

Il marito, maniaco di calcoli e regole fisse, alla fine propose alla moglie di puntualizzare i giorni del “cik-cik” in relazione ad una regola fissa da seguire nell’arco della settimana.  Sicché stabilì che avrebbero provveduto ai loro piacevoli giochetti amorosi solamente  tutti i giorni della settimana che  contenevano nel loro nome  la lettera “R”.

Arrivò a tale conclusione poiché la scaletta che ne veniva fuori consentiva loro di “riposarsi” in alcuni giorni per essere nei successivi più desiderosi di amarsi e rispondeva in pieno alla realizzazione di un’alternanza ragionevole.

     La moglie , istintivamente, fece un calcolo mentale contando i sette giorni della settimana con le dita iniziando dal pollice, evidenziò tra se e se quelli con la “R” e gli disse che era perfettamente d’accordo. Sicché incominciata la settimana,  il lunedì il giovedì ed il sabato  essi osservarono il riposo assoluto come stabilito. La domenica sera, visto che Agatino se ne stava tranquillo a letto, la moglie cominciò ad accarezzarlo ed a baciarlo, dando inizio ai preliminari per far infine l’amore.

   A questo punto Agatino, che ci teneva ad osservare alla lettera tutte le regole  anche se auto-imposte, le disse, chiaro e tondo:-Ti ricordo che la domenica non ha la lettera “R”!-

Di rimando rispose la moglie: -  Viri ca si’ tu ca stai sbagghiannu!  Ccà semu a Catania! Sulamenti li jorna di  Luni, Jovi e Sabatu la “R nun ci l’hannu, ma Marti, Mercuri, Véniri e Ruminica inveci sì! Moviti a fari chiddu ca sai e non accampari scusi.

 

 

 

La fine della solitudine

 

   E così Don Puddu Faddetta, dopo circa quaranta anni di lavoro era finito in veste di pensionato al sesto piano di una palazzina di un condominio di periferia, da dove, di lontano poteva scorgere l’azzurro del mare ed anche godersi il quasi perenne pennacchio fumoso dell’Etna.

La palazzina si ergeva, insieme ad altre sei, divise in due gruppi  a cavallo  di una strada privata. Esse, dotate di ampie balconate ed infissi tinti di rosso,  davano a tutto il complesso un aspetto appariscente e bello che si addiceva al nome che gli era stato dato dallo architetto costruttore Sultana: SETTEBELLO. La stessa strada privata divideva, più a valle, un altro gruppo di quattro palazzine gemelle.  Era il condominio  chiamato GRAN RIVIERA.

Don Puddu molti anni prima aveva comprato un appartamento sito al primo piano di una di  queste ultime palazzine, ma successivamente, era passato ad abitare al Settebello.   

La strada privata con il tempo venne adibita dal Comune ad uso pubblico ed assunse il nome di Via Monti Iblei, in ossequio alla sicilianità.                                                                                                                                 

 

       I giorni scorrevano lenti ma sereni, alternando le ore di riposo  alle sortite quotidiane per piccole incombenze da sbrigare ed anche per semplici passeggiate. Gli sembrava di aver finalmente raggiunto  la tranquillità e la libertà di potersi dedicare alle sue piccole manie, senza l’assillo di impiegare il tempo dietro attività che era stato costretto a  svolgere: quella di rincorrere treni.

Era come se avesse trovato il paradiso, dopo il purgatorio dei faticosi turni di lavoro e delle difficoltà che  era stato costretto ad affrontare.

Ma le cose belle e piacevoli , purtroppo, hanno una lunghezza breve ed effimera.

Tutto cominciò con le prime brutte notizie alla RAI-TV . Oltre alle solite guerre, sparse per il mondo, ai resoconti politici ed alle ingiustizie più o meno evidenti e frequenti, si cominciò a parlare di uno strano virus che aveva fatto la sua comparsa in Cina. Se ne parlava, come se fosse la solita sindrome  influenzale di ogni stagione  con il sopraggiungere dell’inverno.

Don Puddu non ne rimase per niente turbato: lui faceva ogni anno il vaccino antinfluenzale e non riteneva che la notizia potesse danneggiare il suo tenore di vita. Si sbagliò. Di giorno in giorno la notizia   crebbe e si arricchì non solo di un gran numero di vittime registrate in Cina, ma anche di una avanzata galoppante nel mondo. Si rendeva noto che anche in Italia si erano presentati i primi casi. Si parlava di persone trovate positive al virus a Bergamo. Nel giro di qualche settimana si disse chiaramente che questo virus malefico era sbarcato in tutta la Lombardia e che si temeva invadesse tutta l’Italia. Non si trattava del solito virus influenzale, ma era qualcosa di nuovo e di peggio che colpiva i polmoni dell’uomo mietendo delle vittime. Per questo motivo il Governo era  costretto a prendere dei provvedimenti per evitare il propagarsi del contagio. Questi ultimi erano quelli di sempre in caso di pandemie: quarantena e limitazione di assembramenti di popolo.

Tra le  cose, che vennero dette ed imposte , si consigliò espressamente alle persone anziane di non uscire di casa poiché il virus, oltre ad essere refrattario ad ogni tipo d’antibiotico, le colpiva più facilmente condannandole a morte sicura. Si disse chiaramente che la persona anziana era il veicolo con il quale il virus circolasse più facilmente tra la gente ed era bene che se ne restasse tappato in casa a salvaguardia sua e del prossimo.

In seguito all’evolversi di questi fatti Don Puddu, pensionato, un po’ acciaccato dall’età, dal diabete e da qualche altro piccolo guaio senile, fu costretto a non uscire  più di casa ed il suo paradiso, improvvisamente, diventò la sua prigione, trasformando il suo realizzato riposo in tormento.

    Non gli restò che scavare nella voluttà dei giorni perduti per scoprire la gioia posta al limite della solitudine ed ascoltare il preludio di una disperata e vana ricerca di evasione.

Con lo sguardo appiccicato alla vetrata della porta-finestra del balcone non gli restò che osservare a distanza l’azzurro del mare tingersi di turchino sempre più cupo fino a confondersi con l’orizzonte del cielo, osservare le nubi creanti fantasmi di creature spaventose sullo sfondo dei tetti delle case, glissati dal volo di colombi in cerca di cibo o passeri solitari saltellanti sulla cima degli alberi condominiali.

    Addio ai cadenzati passi  sul selciato dei vialetti del condominio o della parallela via al muro limitante, adorno della verdeggiante buganvillea, o alla guida della vecchia Skoda Fabia tra lo strombazzare di claxon ed il concitato cicaleccio della gente sul marciapiede della carreggiata. Solo, a distanza, il rintoccare cadenzato e monotono del campanile lontano ed il rumore scomposto di tanto in tanto del solito elicottero che solcava il cielo quasi a toccare le cime dei palazzi, oppure il sibilare del vento tra le palazzine vicine , che, sornione, agitava le chiome degli alberi e fuggiva lontano fino a disperdersi nell’etere senza alcun effetto se non quello della perenne solitudine.

Non gli restò che scorgere dall’alto e di giorno  il rado apparire di passanti frettolosi con il volto coperto dalle mascherine anti-virus, come formiche sparse alla ricerca di qualcosa nella viuzza laterale che rimaneva deserta alla luce dei lampioni notturni; oppure lo sfrecciare solitario di qualche macchina sulle due viuzze laterali un tempo rigurgitanti di persone ed auto frettolose per raggiungere l’edificio della vicina scuola elementare.

Solo abbracci di ricordo, solo fantasmi di carezze e baci, solo guardare lontano e non toccare, senza domande, senza risposte, solo carezze all’orizzonte che si confondevano con l’infinito, ed il tiepido calore del morente sole oppure il liquido stillare delle lacrime del cielo scivolare nella grondaia, giorno dopo giorno, sempre uguale, sempre triste, muto  e foriero di sventure  e, al di là della finestra, solamente altra finestra, sponda d’un’altra realtà smarrita in attesa di disperate  gioie e della morte.

   La sola novità più eclatante del giorno: la sosta al cancello rosso del furgoncino della CRI, che portava le medicine richieste per telefono alla farmacia o della CONAD, che  portava il cibo ai reclusi come lui,  oppure l’apparire frettoloso di Pulacane o di Fontanetta che rientravano a casa dal solito giro intorno al condominio  o del solerte portiere davanti alla guardiola, tutti con la mascherina sul viso, tranne il cagnolino nero dei Sultana, libero di sgambettare tra le aiuole, rincorrendo una palla da tennis, lanciata per gioco da un bimbo. 

   Ma ecco che d’improvviso un giorno  vide apparire all’ingresso del cancello rosso un  carro funebre, per portar via la bara, di fiori spoglia,  di chi solitario fuggiva dalla solitudine senza il solito addio di rito, ultimo segno dell’umana pietà.

    Al solo pensiero che da quella solitudine sarebbe uscito solo con la morte, gli occhi di Don Puddu si riempirono di lacrime ed  egli, chiusa la finestra, spense la luce  e si sdraiò sul letto.

    Domani sarebbe stato un altro giorno, se mai ci fosse stato, ma sempre ugualmente monotono e simile ai precedenti.

 

 

 

 

Il richiamo alle armi.

 

    Ero stato richiamato alle armi! Era scritto lì sul foglio, recapitatomi dall’Autorità Militare con raccomandata, che dovevo presentarmi in caserma per essere inviato al Fronte.

    Mi presentai anche se riluttante e fui inviato in un campo di addestramento, come quando per la prima volta feci il servizio di leva.

Mi consegnarono la tuta mimetica da combattimento, l’elmetto, il pugnale e la pistola insieme alla promozione a Capitano. subentrata automaticamente con il richiamo, essendo  già Tenente d’Artiglieria della riserva.

    Fu però necessario frequentare un corso accelerato sulle innovazioni tecniche delle armi, le quali in particolare riguardavano la missilistica.  Al fronte mi sarebbe stata affidata una postazione mobile di  missili. Pertanto era necessario che venissi istruito poiché quando ero stato messo in riserva l’esercito era munito solamente dei grossi cannoni dell’artiglieria pesante, il calibro 108 e l’obice da 205. I missili non erano ancora attivi o, per lo meno, non facevano ancora parte delle armi in possesso dell’esercito italiano.

     Quando finalmente fu tutto pronto mi si ordinò di prendere posto, come da manuale strategico, nello scacchiere delle retrovie, dove mi sarebbero state impartite le disposizioni riguardanti l’obiettivo da colpire.

Le forze del nemico non erano del tutto note. C’era stato detto che era fortemente agguerrito e pronto a conquistare tutta la nazione, ma si sapeva ben poco della sua consistenza e della sua forza militare.

Ad un certo punto mi vennero comunicate le coordinate dell’obiettivo. Era una località ben individuata oltre la montagna. Per maggiore sicurezza disposi una ricognizione del posto utilizzando il drone in dotazione, ma le foto non denunziavano nulla di anormale. Il silenzio regnava in quel punto e tranne qualche animale del bosco non si notava nulla. Una novità quella del drone, la quale sostituiva in pieno il binocolo dell’Ufficiale Osservatore.

      Restai in attesa di disposizioni per poter infine lanciare i miei missili, ma non arrivava alcun ordine …

Solo bollettini che denunciavano i progressi fatti dal nemico: gli obiettivi centrati, le vittime colpite, i feriti ed i morti e dopo il silenzio assoluto con la disposizione finale di essere vigili e costantemente all’erta.

Ad un certo punto arrivò la disposizione di indossare le maschere anti-gas. Si temeva che il nemico avesse  dato fondo ad una guerra batteriologica. Strano, però, quelle maschere! Non erano come quelle tradizionali dell’esercito. Erano leggerissime, di stoffa bianca,  e coprivano soltanto il naso e la bocca. Gli occhi non erano protetti. In compenso bisognava indossare dei guanti di plastica leggerissimi.

Ci si coprì il volto ed anche le mani. L’attesa diventò snervante. Nessun ordine veniva dato di aprire il fuoco  con i missili. Ero frastornato da mille pensieri e non sapevo cosa fare, ma una cosa era certa: dovevo obbedire agli ordini dello Stato Maggiore , le quali non arrivavano ancora.

Nell’attesa pensai d’ispezionare il reparto per accertarmi che tutto fosse pronto per entrare in azione. Tutto era in ordine. I soldati erano all’erta e non attendevano che l’ordine per entrare in azione e far fuoco ossia  lanciare i missili nella direzione indicata di volta in volta. Il drone,  che volteggiava sull’obiettivo, non segnalava nulla d’anormale. Tutto era staticamente fermo, immobile, silenziosamente irreale.

    Nell’attesa accesi la Radio da campo ed  ascoltai il  bollettino di guerra. Appresi che la mia postazione era stata annientata dall’opera malefica del nemico, il quale  aveva attaccato in forza. Ma quando era avvenuto? Io non mi ero accorto di nulla e non avevo sentito alcuno sparo. Volsi intorno lo sguardo e vidi i miei soldati, armati fino ai denti, ma inerti al suolo. Ma dov’era il nemico? Io non avevo visto nessuno attaccarci, né sentito nemmeno il più piccolo rumore e non avevo visto alcun cenno di combattimento. Agitato come un forsennato corsi verso un caduto, che mi stava a poca distanza, ma inciampai e caddi a terra come un sacco di patate. Ero al colmo dell’agitazione.

Mi ritrovai a terra, madido di sudore e stranito, mentre  qualcuno leggeva il bollettino sull’esito della battaglia elencando il numero dei caduti e i loro nomi. C’era pure il mio …

Feci un balzo per alzarmi da terra, ma qualcosa me lo impedì: mi sembrò trattarsi di un lenzuolo stropicciato ed aggrovigliato. Aprii gli occhi, ma il buio mi impediva di vedere alcunché. Con le mani , a tentoni, urtai contro qualcosa … No, non era il soldato visto prima stecchito, ma il cuscino . Mi alzai da terra, accesi la luce del comodino e mi toccai la gamba dolorante per la caduta dal letto. Avevo la bocca secca ed il cuore che batteva come un forsennato. 

Avevo solo fatto un brutto sogno alimentato   dalla Tv accesa, che continuava a mostrare scene di guerra ed a rendere noto l’elenco dei caduti della battaglia decisiva, di cui si stava trasmettendo il resoconto.

 

 

 

 

 

Il viaggio

 

    Tutto era pronto. Le valigie preparate, il borsello a tracolla con gli oggetti più urgenti e necessari per piccole evenienze, il portafoglio assicurato ai pantaloni con la carta di credito ed i documenti. Non restava che prendere un tassi per farmi accompagnare alla stazione.

Attraversando la città detti uno sguardo al percorso, come se dovessi più non rivedere quello spettacolo. Qualcosa di simile mi succedeva tutte le volte che lasciavo la Sicilia per recarmi a Roma.

Giunto in stazione, attesi pazientemente in primo binario l’arrivo del treno che avrebbe dovuto portarmi al Nord. Avevo già per tempo provveduto alla prenotazione del posto vicino al finestrino in uno scompartimento ed osservando la calca di passeggeri che attendeva come me, mi chiedevo se avessi avuto un’ottima compagnia. Il tempo previsto era abbastanza lungo, quasi otto ore di treno. Anche se fornito dell’occorrente per leggere, mi auguravo di passare il tempo del viaggio in ottima compagnia.

Infine giunse il treno, che venne preso d’assalto. Era previsto un brevissimo tempo di sosta per l’incarrozzamento dei viaggiatori e bisognava fare in fretta.

Nel mio scompartimento presero posto altre tre persone con le mascherine antivirus sul viso, che sottoposi ad un esame sommario in modo molto discreto. Anch’io avevo la mascherina sulla bocca e sul naso. L’Unica differenza era nel colore: la mia era bianca da sala operatoria e le altre erano azzurre.

Il posto di fronte al mio  venne occupato da un signore taciturno  e dai capelli grigi che senza nemmeno rispondere al saluto, tirò fuori un paio d’occhiali dai vetrini spessi  e s’immerse subito nella lettura di un giornale che lo nascondeva quasi alla vista di tutti, quasi per proteggersi ulteriormente dal virus o per nascondersi alla vista degli altri.

Altri due posti vennero occupati da due giovani donne, due amiche che rientravano dalle ferie passate in Sicilia. In contrasto con il taciturno viaggiatore cinguettavano tra loro forse in maniera eccessiva, nonostante l’ostacolo delle mascherine. Compresi a volo che la presenza delle due donne avrebbe reso piacevole quel viaggio, che altrimenti sarebbe stato noioso  rispetto all’altro viaggiatore. Scambiarono il mio saluto con un sorriso accattivante, che immaginai leggendolo nei loro occhi, e non persero molto tempo ad attaccare discorso con me, parlando della loro esperienza in merito alla visita in Sicilia. Di tanto in tanto l’altro viaggiatore sbirciava lo sguardo al di sopra del suo giornale, quasi infastidito dal cicaleccio continuo delle due ragazze. Egli sembrava leggesse, ma in effetti, seguiva i discorsi delle due ragazze con molta attenzione e sembrava stare sul chi vive.

    Alla successiva fermata occuparono i rimanenti due posti una signora dall’apparente età di circa quaranta anni, anche se ne dimostrava qualcuno in meno e una bambina di circa dieci anni che supposi essere  sua figlia.

Lo scompartimento era così completo e mentre osservavo le immagini esterne sfuggire per il procedere del treno mi balenò in mente  la riflessione che in quello scompartimento prendevano posto almeno quattro generazioni, se non cinque, delle quali io facevo parte in veste di più anziano, ma tutte accomunate da quelle maschere di colore differenti a protezione della bocca e del naso. Infatti vi era una rappresentante dell’infanzia , due della prima gioventù , una dell’età matura che era la madre della bambina, uno di circa sessanta anni che era il signore taciturno ed uno degli ultra sessantenni, che ero io.

L’altra considerazione che feci fu quella malinconica di essere sicuramente considerato dagli altri il veicolo più probabile del virus grazie alla mia età. Si strombazzava ai quattro venti che le persone più anziane fossero le più facili ad essere attaccate dal virus, risultando i più colpiti dal virus e contando il numero maggiore di vittime.

     Il viaggio era iniziato ed il treno correva attraverso la campagna, mostrando da un lato la sempre incombente Montagna con il suo perenne pennacchio e dall’altro l’azzurro del mare che di tanto in tanto si vedeva toccare la costa ora rocciosa e nera, ora sabbiosa e  dorata. Di tanto in tanto era possibile notare i tetti rossi di alcune case immerse nel verde ed il campanile distante dei paesetti incontrati.

Dopo la fermata di Acireale, dove era salita la donna con la bambina, il treno proseguiva diretto senza ulteriori fermate fino alla stazione di Giardini Naxos. Guardando fuori dal finestrino vedevo scorrere le stazioni di Fiumefreddo, Giarre ed Alcantara  e ricordavo le ultime volte di esservi stato per motivi di servizio. La sosta a Giardini  fu brevissima. L’altra fermata sarebbe stata la stazione di Messina Centrale, da dove il treno sarebbe stato traghettato fino a Villa San Giovanni per poter proseguire fino a Roma.

Continuavo a seguire il percorso del treno e nello stesso tempo osservavo il comportamento dei miei compagni di viaggio.

    La bambina era irrequieta e stuzzicava la madre con piagnistei e piccoli capricci. Aveva tra le mani un giocattolo minuscolo che assomigliava ad un telefonino, ma mi sembrò di capire che contenesse semplicemente dei giochetti elettronici, che apparivano sopra un display, manovrato con le sue dita da una tastiera ridottissima contenente appena quattro tasti, agendo sui quali un pupazzetto virtuale si muoveva nelle diverse direzioni toccando alcuni punti numerati. Alla fine del gioco appariva sul Display il punteggio finale accumulato con il giudizio espresso sulle capacità dell’operatore. Conoscevo quel giocattolo per averlo visto identico tra le mani di mio nipote in altre occasioni.

La bambina non sembrava molto soddisfatta dei risultati conseguiti ed armeggiando con le mani sulla mascherina cercava aiuto nella madre che le stava vicino .

    Nel sedile accanto il signore taciturno, che di tanto in tanto tirava fuori dal suo giornale il viso sbuffando un poco,  manifestava un evidente fastidio che non osava palesare diversamente.

     La madre, posta dall’altro lato, non mostrava di venire incontro alle richieste della figlia, impegnata anche lei con un telefonino vero sul quale faceva scorrere le dita. Evidentemente comunicava con qualcuno e dava poco spazio alle richieste della sua figliola. Anzi sembrava piuttosto nervosa rispondendo digitalmente al suo od alla sua corrispondente telefonica, come traspariva dagli occhi lasciati liberi dalla sua mascherina di colore nero.

     A dar tregua alle insistenti querimonie della bambina fu il passaggio dell’addetto al bar del treno con il carrettino della merce. La mamma comprò un pacchetto di biscotti  alla bimba che abbandonò il suo gioco per dedicarsi ai dolcini, che tra l’altro le consentivano di liberarsi della sua mascherina di colore rosa

   Incominciai ad osservare meglio le due ragazze che discutevano tra loro e sembravano felici del loro stato. La biondina sfoderava  un seno da sballo sotto la giacchetta attillata ed un paio di gambe stupende che scappavano dalla mini gonna ritrattasi non poco dopo essersi seduta. Portava i capelli sciolti, ma particolarmente curati, sulle spalle, Alcune ciocche scendevano maliziosamente sul volto truccato con molta cura. Aveva un aspetto veramente delizioso che rendeva gradevole la sua figura completata da un gesticolare delle mani esemplificativo del suo parlare.

La sua compagna, dall’aspetto piuttosto  longilineo, indossava un pantalone attillato ed una giacchetta semplice sopra un pullover con il collo alto. Aveva i capelli cortissimi ed un trucco appena accennato. Pur essendo evidente che fosse una donna, sarebbe bastato qualche pelo sulle guance per scambiarlo per un uomo. Anche il modo di parlare e gesticolare delle mani denotavano in lui dei tratti più marcatamente maschili che femminili. Ebbi il sospetto che ero in presenza  di una coppia di omosessuali. Dai discorsi che facevano appresi che avevano fatto una gita in Sicilia insieme e che avevano visitato molti luoghi del Ragusano e di Siracusa. Le sentivo citare parecchie volte le località del Commissario Montalbano, specie quelle marine. Erano entusiaste di Scicli, di Samperi, di Siracusa, di Noto e ridevano di alcune espressioni del dialetto siciliano che avevano avuto modo di apprendere. Mi sembrò evidente che i due convivessero parlando delle cose che avevano da fare ritornando a casa.

     Il signore taciturno, che se ne stava al suo posto in silenzio, sembrava assorto nella lettura del suo giornale, ma era evidente che prestasse attenzione su quanto avvenisse attorno  per le sue costanti ed improvvise sbirciatine al disopra degli orli dei due  fogli aperti e divaricati.

Di volta in volta sembrava  esprimere con lo sguardo un commento di disapprovazione o di insofferenza a quanto gli era dato di ascoltare, ma era lungi dal farsi notare. Oltre che taciturno sembrava essere  un tipo intollerante, scorbutico e molto a disagio, come se ci tenesse proprio a non farsi notare per qualche suo motivo particolare.

Prima di giungere a Messina, si presentarono allo scompartimento due agenti della Polfer che chiesero a tutti di mostrare i documenti. Anche se sorpreso per l’evento insolito, mostrai loro la mia carta d’identità che mi venne restituita con un secco : “grazie”.

Quando fu la volta del signore del giornale, i due agenti, lo pregarono o, meglio, gli intimarono di volerli seguire nell’ufficio del capotreno per ulteriori  accertamenti. L’uomo in particolare stato d’agitazione,  si alzò ed alzò le mani per prendere una valigetta dal portabagagli. Nel fare quel gesto mi accorsi che sotto la giacca portava una cintura a spalla di quelle che servono per portare un’arma da sparo a canna corta.   

   Quando il treno giunse a Roma, ero rimasto solo nello scompartimento. Lungo il tragitto gli altri quattro viaggiatori erano scesi mentre mi ero appisolato. Presi la valigetta di viaggio dal portabagagli e scesi.

Mi accolse il vociare della gente e l’altoparlante annunciare l’arrivo di un altro treno, mentre scorgevo a distanza il signore taciturno, compagno di un breve tratto del mio viaggio, ammanettato tra i due agenti della Polfer che lo avevano fermato.

    Il giorno successivo dal giornale appresi che sul mio treno era stato arrestato dalla Polfer un noto latitante che, tra l’altro, era stato trovato in possesso di una pistola carica e pronta a sparare, suscitando in me un brivido per il pericolo corso.

    Avevo un incontro con degli amici ed avevo inoltre alcune pratiche da sbrigare presso la sede del Ministero di cui facevo parte e già pensavo al viaggio di ritorno.

 

 

 

 

L’ARRIVO

 

    Sulla costa, che orlava il mare schiumoso contro gli scogli, degli alberi, in parte spogli ed in parte verdeggianti, si ergevano verso il cielo ed altri invece s’inarcavano stranamente sui tronchi dei primi creando dei meandri di vegetazione, attraverso i quali la luce del sole inondava l’azzurro del mare che si confondeva col cielo.

Erano degli alberi di pino piegati dal vento, che si levavano sul prato cosparso di verde macchiato da cespugli di mirto e fiori variopinti ma radi. Uno spettacolo da favola, dove occhieggiavano anche delle isolette rocciose di tufo, che sembravano sedili adatti ad un rilassante riposo e dei tronchi divelti giacenti sull’erba come cariatidi abbattute dal vento che di tanto in tanto s’abbatteva violento in quel punto.

     Sia a destra che a sinistra era possibile notare una folta vegetazione dello stesso tipo macchiata dall’ombra del sole incombente. Il silenzio regnava sovrano, interrotto di tanto in tanto dal gracchiare di una cornacchia tra i rami intrecciati ed era finanche possibile sentire il battere  sommesso delle ali di un passero  solitario. Un nugolo di farfalle variopinte volteggiava sull’erba e di tanto in tanto qualcuna  si fermava sullo stelo di un fiore o sul rametto più prospiciente di una pianta del mirto. Osservando più da vicino il terreno era possibile notare lunghe colonie di formiche che trasportavano dei piccoli semi, delle lucertole lambire i tronchi  ed anche delle coccinelle.

D’improvviso si vide ancheggiare tra i tronchi un’ombra, poi un’altra ed un’altra ancora … Sembravano scimmie, ma no, erano uomini, donne, bambini, dal colore ambrato della pelle, barcollanti e quasi smarriti con vestiti inzuppati dall’acqua. Venivano dal mare, dove erano approdati con  un grosso gommone di colore arancione. Il silenzio venne interrotto da un vociare concitato ed incomprensibile. Qualcuno si prostrò nell’atto di baciare il terreno o forse per dissetarsi strisciando la lingua sull’erba ancora  bagnata dalla rugiada.  Sgusciavano tra i tronchi ed i cespugli di mirto, guardandosi attorno nell’attesa di prendere una decisione sulla via da prendere per andare da qualche parte. Erano incerti, confusi, disorientati …. Dovevano allontanarsi dalla costa, ma dove andare? Non c’era nessuno ad accoglierli … Dovevano scegliere scavando nell’ignoto che stava loro innanzi. Erano fuggiti da terre lontane a loro note, sul mare che avevano affrontato e adesso dal mare erano approdati su terre sconosciute, che costituivano però il loro obiettivo e la loro speranza di vita futura.  Si divisero in gruppi, forse  insiemi di amici e parenti, avanzando verso l’interno a casaccio.  Il loro sciamare fu breve. C’erano ad attenderli degli uomini in divisa, armati come quelli delle terre da cui venivano, ma dal colore della pelle diverso dal loro. Era quella la certezza di essere giunti in Italia, la terra promessa dove trovare speranza di vita e da dove poter accedere in altri stati d’Europa, da loro agognati.

Furono raccolti come dei cani randagi catturati dagli operatori ecologici e fatti salire su dei furgoni che vennero chiusi ermeticamente non consentendo loro una via di fuga. Dalla libertà scomposta e non priva degli stenti, erano passati alla posizione acquisita  di prigionieri accuditi con ogni apparente riguardo.

Il loro sbarco era stato segnalato dalla Guardia Costiera ed avevano trovato, pronte ad accoglierli, le forze della Polizia Italiana.

Era quella la fine del loro viaggio e per molti, se non tutti, l’inizio di quello del ritorno. 

   Quell’angolo di costa ritornò tranquillo come prima, mostrando tra i rami e le foglie l’azzurro del mare, rilucente al sole e culla di vane speranze,  naufragate sugli scogli di quella terra sognata, raggiunta, ma solamente calpestata per poco.

   Cessato il frastuono di quella piccola invasione di gente disperata in cerca di una vita migliore, quell’angolo di costa ritornò ad essere sereno e  la natura inerte spense il grido di disperata  gente,  favoleggiando il mito della natura aulente, dove tutto è bello e risplendente.

   Il silenzio tornò a regnare, cadenzato dal gracchiare della cornacchia e dal fruscio di ali scomposte di qualche uccelletto vagante.

Il sole . che era già alto nel cielo cominciò a calare, disegnando sull’erba le  ombre degli alberi che sembravano fantasmi   di mostri mai visti ed esseri strani che nulla avevano di terreno.

Da sotto un tronco ricurvo sull’erba che formava una nicchia nascosta da un cespuglio di mirto, venne fuori una figura dall’aspetto umano. Era infatti un uomo dall’apparente età giovanile, che trovato rifugio in quel posto era sfuggito alla retata messa in atto dalla Polizia.

Si mosse con circospezione e, presa cognizione di non essere visto da alcuno, si avviò verso l’interno del territorio lasciandosi alle spalle la costa su cui era approdato insieme agli altri. Non aveva l’aspetto del clandestino dalla pelle color cioccolato. Era di pelle chiara. Indossava una tuta da marinaio ed a vederlo muoversi, non sembrava per nulla spaesato. Anzi sembrava che conoscesse quei luoghi molto bene, poiché prese con determinazione una direzione che forse altre volte aveva percorso. Era lo scafista che aveva guidato il gommone in mare facendolo approdare in quel punto della costa, che conosceva molto bene. Non era la prima volta che faceva quel viaggio e, quindi, sapeva come sfuggire alla Polizia Italiana.

Raggiunto il centro abitato, dopo aver acquistato ed indossato dei vestiti  nuovi, in tenuta elegante, ma non tanto da dare nell’occhio, si fece accompagnare da un tassì al vicino aeroporto, dove si imbarcò su un aereo diretto in Africa.

Anche questa volta il viaggio era andato bene per lui ed era pronto ad intraprenderne un altro ancora. Era un lavoro rischioso il suo, ma gli rendeva abbastanza bene. Quell’orda di disperati che portava a zonzo sui mari sopra un gommone pagavano bene pur di sfuggire alla guerra con il miraggio dell’Europa.

    Dopo qualche giorno i giornali parlarono dell’ennesimo  sbarco isolato di una ventina di clandestini provenienti dalla Tunisia arrivati con un barcone distrutto dall’impatto con gli scogli della costa accidentata, guidato da scafisti rimasti ignoti. I clandestini erano stati fermati dalla Polizia e, sottoposti al tampone del covid 19, erano stati avviati ai centri di accoglienza. Tutto era nella norma, già previsto e ripetibile.

Il Saluto Romano

 

   Nel vedere  questo simbolico saluto romano rabbrividisco e non capisco come si possa essere fieri di mostrarlo. A me ricorda solamente il periodo più brutto della mia vita. Nato nel 1937, all’insegna di questo trionfalistico saluto, ho patito l’orrore della guerra, condito di bombe, odio, diserzioni, bombardamenti e fame autarchica. Grazie a questo saluto ed ai suoi fautori, dopo la guerra sono vissuto in un periodo di stenti e disagi nella foga della ricostruzione alla quale ho partecipato con il mio sacrificio e con il mio lavoro. Solo chi non ha provato tutto ciò può oggi gloriarsi di questo simbolico saluto, a meno che non aspiri  a ripetere lo scempio passato in nome di un individualismo nazionalistico fuori luogo. Non gradisco questo saluto con il braccio in avanti anche se dovesse mostrare il pugno chiuso anziché la mano tesa. Pure questo tipo di saluto, mi ricorda l’odio, la lotta di classe ed il terrorismo delle brigate rosse, nonché l’orrore dello stalinismo del dopoguerra.

Mi vanto di appartenere ad una generazione che ha ricostruito l’Italia dopo la bufera e mi duole vedere che le generazioni sopraggiunte ed a venire  pensino di precipitarla nuovamente nel baratro nel nome di idee  pellegrine e fasulle già vissute e sofferte.

Ho sentito anche una donna strombazzare queste idee strampalate con cipiglio feroce e mi è venuto spontaneo ricordare in proposito una mia vecchia poesia in dialetto che mi piace riportare, sperando di fare cosa gradita.

La poesia è rivolta ad una ipotetica Filippa, che parlava a sproposito disturbando la mia quiete ed il mio desiderio di pace e d’amore.

 

         Ascuta, nun parrari.

 

Muta Fulippa! Pi’ piaciri muta!

Non senti comu canta l'acidduzzu

e comu l'aria ciuscia duci duci

tra l'arvuli de mennuli ciuruti

e comu l'acqua sciddicannu cunta

li favuli chiù beddi nta lu ciumi?

Pirchì nun la finisci di parrari

e nun t'assetti supra di sti petri

e muta ascuti la natura attornu,

ca senza posa nu fistinu teni?

Comu ti spercia di parrari sempri

quannu d'attornu c'é la paci e sulu

la musica si senti da natura?

Ju cca m'assettu mutu e l'occhi chiudu

pi’ sentiri chiù megghiu lu cuncertu

ca cu diversu tonu in celu acchiana.

Ascuta comu ridunu li fogghi

ca tra d'iddi si fricanu cuntenti

e l'aria friscanzannu li cattigghia,

mentri canta lu pàssiru satannu

ca pari d'accurdari li strumenti

di l'acqua ca risona nta lu ciumi

cu l'ecu ca si perdi tra li munti.

Ascuta comu la cicala 'ncutta

lu marranzanu sona cu mastria

e la chitarra spizzica lu rospu,

mentri luntanu di lu cani senti

l'assulu di tinuri vagabunnu

nto menzu di lu coru di lu greggi.

Ascuta comu lu cantari taci

e poi ripigghia tuttu all'impruvvisu

ca lu silenziu musica diventa

nta lu spartitu ca natura scrissi

ed é sulenni, granni e chiù schigghenti

di na trumma ca sona all'antrasatta

e tu ci tummi dintra duci duci

cu l'ali aperti di la fantasia

e squagghi e nun si' nenti e nuddu

ca lu to stissu ciatu si cunfunni

nto gorgu di li noti ca su' muti.

Ascuta comu ci s'intona a tappu

lu rintuccanti sonu di campana

ca lu ventu cunnuci di luntanu

e ciavuru disperdi di prighera

ca d'acqua sapi biniditta e mustra

la strata di la paci e di l'amuri.

Ascuta, nun parrari, statti muta!

Ascuta sulamenti stu diliziu

ca ti cattigghia l'anima e lu cori

e natari ti fa nta l'infinitu,

unni si perdi ogni malannu e pena

e tuttu pari chiaru, beddu e duci.

 

 

 

 

Traduzione

 

Ascolta, non parlare

 

Zitta Filippa. Per piacere zitta!

Non senti come canta l’uccellino

e come l’aria soffia dolce, dolce

Tra i rami del mandorlo fiorito

e come l’acqua scivolando narra

le favole più belle dentro il fiume?

Perché non la smetti di parlare

e non ti siedi sopra queste pietre

e zitta ascolti la natura attorno,

che senza posa tiene un bel festino?

Come ti viene  di parlare sempre

quando d’attorno c’è la pace e solo

la musica si sente di natura?

Io qua mi siedo zitto e gli occhi chiudo

Per ascoltarne meglio lo spartito

che con diverso tono in cielo sale.

Ascolta come ridono le foglie

che tra loro si toccano contenti

e l’aria fischiettando li sollazza

mentre salta cantando il passerotto

che sembra d’accordare gli strumenti

dell’acqua che risuona dentro il fiume

con l’eco che si perde nelle valli

Senti come solerte la cicala

il marranzano suona con bravura

e la chitarra spizzica la rana

mentre  lontano si sente del cane

l’assolo di tenore vagabondo

nel mezzo dei belati delle greggi.

Senti come d’incanto il canto tace

e poi riprende tutto all’improvviso

ed il silenzio musica diventa

nello spartito che natura scrisse

ed è solenne, grande e più ridente

d’una tomba che suona all’improvviso 

e tu ci piombi dentro dolce dolce

con l’ali aperte della fantasia

e ti sciogli e non sei niente e nessuno

ed il tuo stesso fiato si confonde

nel gorgo delle note che son mute.

Ascolta  come ci si intona a tappo

il rintoccante suono di campana,

che il vento porta a spasso di lontano

e l’odore si spande di preghiera

che sa d’acqua benedetta e mostra

la strada della pace e dell’amore.

Ascolta solamente la dolcezza

che l’anima solletica ed il cuore

e nuotare ti fa nell’infinito,

dove si perde ogni malanno e pena

e tutto sembra chiaro, bello e dolce.

 

 

    E’ da dire che nonostante i guasti del covid -19, sopravvenuto, che per la sua pericolosità presupponeva di non doversi tener conto della gestualità del saluto, più o meno romano, sembra essersi scatenata una inutile e quanto meno pericolosa guerra di pensiero del tutto deleteria e fuori luogo. Come se, in altre occasioni similari i Governi al potere di tutti gli Stati mondiali, siano riusciti in passato a frenare il disastro con la mano alzata od il pugno chiuso. In effetti ciò non è mai avvenuto ed i provvedimenti sono sempre stati non solo approssimativi e dettati dalla contingenza, ma sempre criticati ed ostacolati.

Bene o male, anche se talvolta malconcia, l’umanità fino adesso ne è uscita sempre fuori.

L’unica cosa da fare e mai fatta, è che nel caso del pericolo bisogna essere uniti per vincere il nemico, specie se quest’ultimo è rappresentato da qualcosa di non definito e non definibile facilmente.

Per vincere il coronavirus non vanno presi in considerazione provvedimenti dettati da interesse di partito, ma l’osservanza scrupolosa di natura scientifica, quale scaturisce da una “équipe” qualificata in materia.

Mi auguro che quest’ultima esperienza, ancora purtroppo in evoluzione serva d’insegnamento per il futuro.

 

 

Parla Filippa

 

Qualcuno mi ha fatto notare che la mia poesia non sarebbe gradita da “Filippa”, perché lesiva della sua libertà di parlare.

Per questo motivo ho scritto quest’altra poesia a lei diretta. Non è nel mio intento di privare della libertà le donne. Spero così di essere creduto  o, per lo meno, perdonato.

“Pax sit semper vobiscum, anzi nobiscum!”, carissime donne, che siete lo zucchero dell’umanità.

Parra Fulippa

 

   Parra Fulippa, pi’ piaciri parra

ca siddu arresti muta c’è cu’ soffri

e  bruttu mi talia si ti dicu

di staritinni  muta e non parrari.

Cummogghia cu’ la vuci u marranzanu,

u scrusciu di lu ventu e la cascata

di l’acqua  sciddicusa ca tuppia ,

subissa di paroli cu’ t’ascuta.

Parrari  t’è cuncessu si t’aggrada,

e diri ‘n-soccu voli u to pinseri,

ca siddu torna Chiddu, Diu ni scansa,

finisti appiddaveru di parrari.

Parra, pirtantu, finu a quannu voi,

sfoga la raggia ca ti senti dintra,

azzicca li paroli nta l’aricchi

di cu’ t’ascuta ed è cuntentu puru,

pirchì li frati italici di tannu

non davanu a li soru sta putenza

e risichi a turnari,  stannu muta,

a fari la quasetta attornu a conca,

isariti a faretta e …  nenti cchiui.

 

 

Traduzione:

 

Parla Filippa, per piacere parla,

perché se resti zitta c’è chi soffre

e mi guarda brutto se ti dico

di stare zitta e non parlare.

Copri con la voce il marranzano,

il rumore del vento e il mormorio

dell’acqua che scende scivolosa,

copri di parole chi t’ascolta.

Parlare t’è concesso se ti aggrada

E dire quel che vuole il tuo pensiero,

che se ritorna quello, Dio non voglia,

finisci per davvero di parlare.

Parla, pertanto, finché puoi,

sfoga la rabbia che dentro ti corrode,

appunta le parole nelle orecchie

di chi t’ascolta ed è contento pure,

perché i Fratelli d’Italia d’allora

non ne davano alle sorelle facoltà

e rischi di tornare,  stando zitta,

a rammendar le calze accanto al fuoco,

ed alzare  la gonna e … niente più

 

 

I Guai di Pippo

 

L’invasione non prevista  degli Scazzamureddi, nonostante tutte le precauzioni prese dal Governo, presieduto dal vagheggino  Gastone, questa volta  in veste di elegante saggio,  e da una ridda di ministri e ministre  di diversa estrazione, si manifestò anche  nelle cittadine  di Paperopoli,  di Topolinia e di altre località di fantasiosa etnia, facenti parte del bel paese di Godilandia.

Nonostante le altisonanti “gride” ministeriali di “Lotta agli Scassamureddi”, come vennero definiti i virus, dall’opposizione capeggiata dal Gruppo  “Bassotti & C.”, la situazione in tutto il paese diventò molto preoccupante.

Questi virus avevano una strana forma a palla, irta di spine che fungevano da forza motrice.

In verità le “spine” più che forza motrice, costituivano i mezzi per attaccarsi agli organi degli individui e distruggerli.

Gli “Scassamureddi” non avevano piedi, ma per circolare si servivano delle gambe di quanti, da veri imbecilli, consentivano loro di viaggiare indisturbati in lungo ed in largo da una persona ad un’altra, considerando le precauzioni imposte dal Governo un mezzo politico per esercitare il potere legislativo.

I primi ad essere maggiormente colpiti furono le persone anziane, già sofferenti per altre patologie ed il cui sistema immunitario era già compromesso.

 

    Il povero Pippo, che anziano era e per di più reduce di un vecchio infarto, oltre a soffrire di iperglicemia, si trovò del tutto a mal partito. Non gli restò che osservare le indicazioni governative e, cioè non uscire di casa, evitare assembramenti e contatti, trascurando, purtroppo per quarantena imposta, definita “lockdown”, che significa “chiusura”, le cure necessarie al suo stato di diabetico , cardioleso ed iperteso.

Tra quarantene, isolamenti volontari e forzati, precauzioni necessarie per presunti contatti, dopo circa sei mesi d’inferno, quando, infine, venne concesso uno spiraglio per poter badare ai suoi acciacchi storici, egli ebbe un crollo  fisico indicibile. Pertanto ai primi di Giugno fu costretto a presentarsi al Pronto Soccorso di Paperopoli per ottenere la cure necessarie al suo stato. Qui venne ricevuto da una dottoressa in tuta lunare ed ospedalizzato, previo un preventivo tampone che risultò negativo, come del resto tale ne era  stato un precedente domiciliare  cautelativo di alcuni giorni prima.

Dopo due giorni di ricovero nell’ospedale di Paperopoli, resosi necessario per lo stato di depressione fisica, venne nuovamente sottoposto alla prova del tampone, che risultò essere illegibile in una delle tre componenti previste  e considerato positivo senza un ulteriore ripetizione di conferma. Ritenuto, per questo motivo veicolo di contagio, venne subito impacchettato e spedito con tutte le precauzioni previste al Reparto Malattie Infettive della vicina Topolinia.

Qui venne subito visitato dalla équipe di medici di turno, che, nel complesso, non lo trovarono in stato di salute tanto cattivo, anche se necessitato di cure e, soprattutto senza alcun sintomo evidente dovuto a coronavirus.

Venne, comunque, informato che l’indomani sarebbe stato nuovamente sottoposto alla prova del tampone. Quest’ultimo ebbe esito negativo, come negative risultarono altre due prove nei due giorni successivi.

Sostanzialmente Pippo, non risultando affetto da covid 19, venne trasferito nel reparto dei non infetti dello stesso ospedale di Topolinia ed informato che sarebbe stato sottoposto ad ulteriori accertamenti per cure necessarie al suo stato di salute. Infatti dagli accertamenti sierologici risultava che presentava dei danni evidenti  a cuore,  polmoni e reni

Secondo il medico responsabile le difese immunitarie di Pippo,  nel caso che tali danni fossero  dovuti al virus, erano riuscite a difendere l’organismo nonostante le sue patologie ed egli era da considerare in ogni caso non contagioso. Insomma, prima di essere dimesso, bisognava sentire gli specialisti interessati (cuore, polmoni e reni) per i provvedimenti terapeutici necessari.

 Tutto filò liscio, nel senso che i sopra detti  lievi danni, forse dovuti anche in parte  alle patologie già preesistenti, vennero valutati e sottoposti a cure più adeguate.

 

Nasce, comunque il dubbio che il tampone con esito illeggibile in uno dei tre aspetti previsti  di Paperopoli, non sia stato eseguito con attenzione e che sarebbe stato opportuno ripeterlo immediatamente, essendo stato preceduto da altri due ravvicinati e negativi. L’averlo considerato positivo, presupponeva che il povero Pippo fosse stato contagiato in fase di visita al Pronto Soccorso di Paperopoli, da sottoporre, quindi tutto in quarantena. Cosa, quest’ultima, che non è avvenuta, né valutata.

   Purtroppo nella fase di accertamenti all’ospedale di Topolinia avvenne un altro piccolo e spiacevole incidente.

La cardiologa chiamata in causa per consulenza, che altri non era se non la compagna del carissimo amico mio Topolino, forse per non aver letto bene la cartella o forse in preda al terrore di essere contagiata ed in ogni caso digiuna in materia di virologia, si rifiutò di eseguire la visita cardiologica richiesta, eseguita in seconda seduta dal Professore  Archimede in persona, primario del Reparto di cardiologia..

Una situazione incresciosa, dovuta sicuramente a cattiva comunicazione od eccessiva prudenza, come del resto sembra essere stata quella non necessaria del suo trasferimento  al nosocomio degli infetti per un tampone che, molto probabilmente, non era stato eseguito in maniera corretta.

   A Pippo, ormai sottoposto ad un nuovo regime di pillole, resta il dubbio di sapere se egli abbia  la stoffa del SUPERPIPPO, che ha avuto la forza di stritolare il virus, oppure, sia stato vittima, dell’eccessiva prudenza  di qualcuno, che gli ha procurato un grave disagio psicologico.  In entrambi i due  casi del tutto anomali, una cosa è certa: è stata una fortuna per lui esserne uscito indenne, vivo e vegeto.

    E’ doveroso, comunque evidenziare che tale evento fortunato fu anche ottenuto, grazie alla prudenza ed accortezza del Reparto degli Infetti  dell’ospedale di Topolinia, cui il povero Pippo, resta riconoscente, per le cure ricevute,  sciogliendo un cantico che gli ricorderà per sempre quella avventura veramente brutta e che spera non accada ad alcuno. 

 

Il tempo si fermò

 

Il tempo si fermò!

Ma l’orologio l’ore

andava ticchettando

immobili rimaste

sul fiume di pensieri

precipitanti a valle

nell’imo dell’assurdo

che cancellò la pace

raggiunta con fatica.

Il plasticato tubo

dalle guantate buche

m’accolse sconosciuto

foriero di sventure

e l’agitar sconnesso

dell’ululante moto

nell’auto lettiga

mi resero basito

e non capii più nulla.

La corsa infin cessò,

si spense la sirena

Il morto venne vivo

dal tubo partorito

e consegnato a mano

ad angeli blindati

di bianco non alato.

La febbre era salita

il cuore traballava

la mente non capiva.

Al misero malato

gli venne detto chiaro

d’avere la corona.

Ma come avvenne il fatto

non si capiva bene …

due volte negativo

da precedenti esami,

il terzo positivo

lo dava l’indomani.

M’accolsero prudenti

sul molo di San Marco,

di bianco paludate

angeliche fatine

in viso mascherate

e senza l’ali a tergo,

che le copriva tutte

il classico scafandro

che fu di Palmisano.

Un medico m’accolse

anch’egli intabarrato

e disse un po’ sorpreso

che male non andavo.

Passati ben tre giorni

di mitici tamponi

neganti la presenza

del torbido folletto,

mi vide nuova stanza

ed anche nuovo letto.

Volarono d’intorno

le mitiche fatine

uscite dal biancore

d’anonimo sapore.

Sembravano farfalle

uscite dalle larve

e mi fu noto il viso

d’ognuna che vedevo.

Conobbi Chiara, Pina,

Roberta, Robertina

Stefania ed Albertina

e Barbara e la Tina …

D’ognuna un buon ricordo

conserverò nel cuore,

un grazie lor porgendo

per cure ricevute

e possa lor donare

fortuna buona sorte

per quanto fare sanno

con gioia e con passione.

Ho perso la corona,

non sono più monarca

confuso e stralunato,

ma scampolo felice

del popolo figliolo,

a casa ritornato.

 

 

 

 

Un giorno al Policlinico di Catania   

 

    Son dovuto correre  in macchina al Pronto Soccorso del Policlinico di Catania per una visita d’urgenza mentre era in atto la guerra contro il covid 19.

     Per chi non lo sapesse, il complesso del Policlinico è stato recentemente dotato di un attrezzato Pronto Soccorso, che consente una maggiore efficienza nel Servizio Sanitario, dal momento che la struttura ospedaliera ha la possibilità di far intervenire più celermente gli specialisti delle varie branche della medicina  ivi presenti per tempestive consulenze.

     Purtroppo l’afflusso di macchine già abbastanza rilevante per le visite di normale assistenza medica, ha subìto un incremento non indifferente e di conseguenza il posteggio all’interno, nonostante la notevole ampiezza del locale e la circostanza che sia  a pagamento orario, si rende problematico nelle ore diurne.

I responsabili della società che gestisce il posteggio ha piazzato del personale all’interno per evitare l’intasamento delle corsie di scorrimento interno del locale. Non sempre tale personale si trova a … portata di macchina per indicare le piazzuole più libere, sicché qualche “volontario “ si presta a dare indicazioni non solo di tale tipo, ma anche di indirizzo nel labirinto delle varie sedi da raggiungere a piedi. Infatti , vi sono  all’interno  dei vari “Blocchi” per ogni singola specialità medica e non è facile, specialmente per chi arriva nel nosocomio per la prima volta, trovare  il punto giusto per le sue necessità.

   Pur conoscendo i locali … topografici del Policlinico, non vi nascondo, che mi sono trovato in difficoltà per il posteggio della macchina. Per mia fortuna  mi è venuto incontro uno di questi volontari, che mi ha indicato il punto dove c’era una piazzola libera e mi ha dato gentilmente le indicazioni precise per raggiungere a piedi il posto cui ero diretto.

La persona in questione è stata gentilissima e molto disponibile. L’ho ringraziata e (sorpresa!) mi ha dato un foglio che non potevo non rifiutare, nonostante avessi premura di raggiungere la mia destinazione. Lo misi in tasca senza nemmeno leggere e corsi a raggiungere mia moglie che avevo precedentemente lasciato in astanteria. Non mi ha chiesto nulla e mi ha rivolto un sorriso di commiato. Ho pensato che si trattasse sicuramente della solita pubblicità di vendita, affidata ai “cirenei”della strada in compenso    di un modesto compenso. Per questo motivo avrei voluto rifiutare di prendere quel foglio, ma mi sembrò scortese fare ciò , dopo la cortesia ricevuta.

    Giunto in astanteria, nell’attesa della visita, tirai fuori dalla tasca il foglio e cominciai a leggere. Con mia grande sorpresa  lessi quattro poesie in italiano ed in calce i nomi degli autori ed un numero telefonico. Non mi restò che di leggere tutto il foglio.

Le poesie erano quattro Ecco i titoli : PRICIPESSA – AMORE IMPROVVISO -  A TE  -- LE DONNE,

Da un punto di vista formale, erano modernissime e seguivano le tendenze attuali  a non tener conto delle rime e della uniformità dei versi, che erano di diversa ampiezza, privi di virgole e punti e virgola od altro tipo di punteggiatura, tranne il punto a fine periodo.  –     La musicalità dei versi era affidata solamente agli accenti tonici. L’esposizione era del tutto spontanea e piacevole a leggersi. Il contenuto  trattava il solito problema romantico di sempre: l’amore . Le prime tre erano specificatamente dedicate al rapporto di coppia, la quarta , più in generale, tratteggiava l’amore nei confronti della donna ideale.

Sia contenuto che forma erano veramente non solo accettabili, ma ben espressi e privi di errori grammaticali. Sì. Mi sono piaciute per il loro semplice periodare, per i concetti espressi e la spontaneità espressiva.

Del resto lascio giudicare, poiché allego a questo mio piccolo episodio di vita vissuta la fotocopia del foglio in questione.

Quello che mi ha sorpreso è stato, oltre al nome e cognome degli autori ed un numero telefonico la seguente frase, che è possibile leggere sul foglio

NOI GIOVANI AUTORI RINGRAZIAMO PER LA GENTILE PARTECIPAZIONE   

    Certamente di pubblicità si trattava, ma mai e poi mai mi era capitato di vedere degli autori di poesie distribuire il frutto delle  loro opere al pubblico , come se fossero una comunissima merce di consumo.

In verità, ai miei tempi ho assistito alle rappresentazioni di poeti dialettali agli angoli della città che si accompagnavano ad una chitarra. Mi riferisco ai cosiddetti “Cantastorie”, che ormai sono scomparsi a Catania. Ne ricordo uno che alla villa Bellini declamava i versi di Domenico Tempio che riguardavano il suo famoso componimento “A Caristia” 

Ma qui si trattava di tutt’altra cosa. Non era prestazione artistica diretta e scenica, ma un semplice invito a partecipare ad una attività poetica, una pubblicità messa in atto da “giovani autori”, che non avendone i mezzi idonei, si erano inventati quella procedura di pubblicità spicciola dettata dal loro entusiasmo, ricorrendo a fogli stampati con una stampante od un ciclostile di modesta rilevanza tecnica.

Insomma una pubblicità “fai da te” veramente sorprendente ed anche commovente, qualunque ne sia stata la motivazione: commerciale o puramente d’amore verso la poesia.

Non solo questo! Mi ha commosso il fatto di constatare che ancora adesso, in questa nostra società un po’ veramente bruttina, dove il disagio sociale, l’abulia, la leggerezza dei costumi e tutto quanto si può notare in materia di “femminicidi”, bullismo, menefreghismo, contagi da virus e polemiche su mascherine e quarantene, vi siano dei giovani che credono ancora nei valori della poesia e la pubblicizzano con i loro mezzi  che oserei definire primitivi e d’impatto diretto.

Non mi resta che allegare a questo mio scritto il foglio di cui ho parlato, nella speranza di fare un’opera gradita ai “giovani  autori” ed a chi legge questa mia nota.

 

 

 

 

 

Il quarto Re

 

    Mi sembrava di sognare guardando il Presepe, tutto cosparso di pastori, pecore e verde orlato di fiotti bianchi di neve con al centro la roccia inondata di luce, dove un barbuto San Giuseppe ed una castigata Madonna adoravano il frutto del loro Amore divino.

Lo sguardo, vagante da un punto all’altro della scena si fermò sulla figura dei Re Magi. Erano tre. Il primo portava in dono dell’oro , il secondo dell’incenso ed il terzo della mirra. Erano i doni simbolici che portavano al Figlio di Dio, provenendo da luoghi lontani , guidati dalla stella cometa che luccicava su tutto il presepe.

Essi splendevano d’umiltà  nel loro paludato abbigliamento di tipo orientale e nel loro viso aduso al comando sembrava leggersi solo la devozione e la pace. Ma dietro di loro mi sembrò di scorgere un quarto Re d’aspetto indefinito, che mi veniva difficile descrivere. Indossava un manto diverso dagli altri , cosparso di macchie rossastre che sembravano sangue grondante da ferite ancora aperte ed una corona irta di ance appuntite. In mano teneva una falce che agitava nell’aria, mentre con l’altra stringeva una catena cui erano legati degli uomini evanescenti, ora proni e striscianti come serpenti, ora ilari e saltellanti come giullari.

Il suo aspetto truce giganteggiava sugli altri tre Re e sembrava proprio che riuscisse a farli scomparire per poi riapparire. Sembrava proprio che riuscisse ad annientarli con il suo gioco beffardo e ad agitali come marionette.

A volte questo quarto Re con tutto il suo seguito scompariva del tutto lasciando una luce strana. Sembrava non portare alcun regalo come gli altri. Era lì senza alcun motivo plausibile e scompariva e compariva a suo piacimento. Era impalpabile eppure presente.

Mi illusi che fosse un gioco della mia fantasia e che in effetti non esistesse un quarto Re ad adornare il presepe, ma dovetti ricredermi. Egli  era veramente presente, poiché la sua ombra maestosa coinvolgeva gli altri tre ed era anche capace di adombrare tutta la scena lasciandola scivolare in un rigurgito d’immagini distorte ed incomprensibili, che colpivano l’anima. 

   Mi chiedo adesso se  questo quarto Re, impalpabile, invisibile, ora lucente come l’oro, ora invisibile come un fantasma, altro non fosse se non il Tempo nel suo lungo percorso, foriero di un futuro cosparso di immagini varie che s’inchinava anche lui al volere di Dio offrendo i suoi doni  d’incerto sembiante , oppure il triste  preludio  della tempesta virale che si stava abbattendo sull’ umanità ignara e  serenamente anelante alla pace del Natale.

 

 

 

Potenza della pubblicità

 

    Chissà per quale arcano motivo, ma forse non tanto arcano, a forza di sentire la pubblicità martellante del dolce dormire, andando a letto, ho sognato di essere un cuscino. Un bel cuscino morbido, sollevato quel tanto che basta dal piano del letto, appoggiato alla sua spalliera, bianco come il lenzuolo che mi stava sotto, in attesa di sentire il calore di una guancia poggiarsi sulla mia pelle, ovvero sulla mia federa delicatamente ricamata  agli angoli.

    Non si parlava ancora della pandemia del covid 19 e la mia fantasia galoppava libera e senza freni alla scoperta di sensazioni nuove ed avventure meravigliose e peregrine.

    Non ero, pertanto, stupito di questo mio aspetto abbastanza strano. Era come se fosse una cosa normale il sentirmi così, diverso dal mio solito aspetto umano. Mi sentivo rilassato ed anche molto appagato nel vedere sotto i miei occhi quella spianata di bianco sul quale emergevo quasi come un monumento e, poi, pensavo a quella guancia che tra non molto si sarebbe poggiata sul mio corpo facendomi piombare nel paradiso di un incontro. Sì! Era una cosa che avveniva tutte le sere. Pazienza se un po’ di rossetto delle labbra sarebbe  finito sulla mia candida federa. Il mattino seguente sarebbe stata sostituita, ma mi sarebbe rimasto addosso il profumo del suo rossetto e l’impronta del viso.

-L’impronta no?!-  Invece sì! - Non ero un cuscino qualsiasi. Ero un cuscino “memory”, di quelli che memorizzano la forma della parte del  corpo dalla quale sono pigiati e la riconoscono subito ad ogni contatto. Ero stato comprato insieme ad un materasso che aveva la stessa caratteristica. Facevo parte della stirpe nobile di questi elementi del letto. Le mie fibre interne erano morbide, carezzevoli e soporose. Insomma ero bello, comodo e di grandissima utilità e conforto.

    Il letto su cui troneggiavo era ad una piazza e ciò mi piaceva perché non avevo alcun altro cuscino  concorrente. Tutte le carezze della guancia della sua occupante sarebbero state sempre di mia esclusiva proprietà. Nessun altro avrebbe potuto entrare in concorrenza con me.

-Ecco – mi dicevo - tra poco arriva lei – chiuderà la vetrata del balconcino. Tirerà la tenda sulla vetrata. Indosserà il suo pigiama rosa. Si distenderà sul letto e poggerà il suo viso su di me. Dopo un poco si rigirerà ed io sentirò il suo profumo, mentre i suoi riccioli mi faranno il solletico. Non riderò, ma il sorriso sicuramente apparirà sulle mie labbra e poi mi addormenterò insieme a lei … Chissà cosa sognerà!? Forse i suoi sogni saranno simili ai miei, che sanno di pace e di benessere.

    Era quello che pensavo e che sognavo ogni sera, da quando ero diventato un cuscino. Già, diventato! Poiché avevo il sentore  di essere stato dapprima un uomo e di avere assunto quella sembianza, chissà per quale sortilegio od opera di mago o fata.

   Di giorno, in verità mi annoiavo. Ero solo e non sapevo cosa fare. Dormire!? No, niente dormire! Solo attesa, fastidiosa attesa nell’ansia della notte che attendevo. In verità, talvolta mi toccava fare da consolatore e da confessore, quando sentivo le  calde lacrime di lei bagnare la mia pelle. Avrei voluto abbracciarla, ma come fare? Non avevo le braccia! Mi limitavo a raccogliere la rugiada del suo pianto accarezzandole il viso ed i capelli, mentre sussurravo al suo orecchio incuneato nelle mie carni le parole più dolci che conoscevo, fino a quando non si addormentava.

   Immerso in questi miei fantastici pensieri, la vidi arrivare e, come ogni sera, sedersi sulla sponda del letto. La vidi togliersi l’accappatoio che l’avvolgeva e, con mia grande sorpresa e piacere la vidi  completamente nuda … Non aveva nulla addosso.  Sentii le mie fibre sobbalzare e per poco non saltai giù  dal letto. Aveva evidentemente fatto  la doccia ed adesso la vedevo armeggiare per asciugarsi con l’accappatoio. La vidi strofinarsi il seno, asciugarsi sotto le ascelle e le gambe fino a raggiungere il pancino. Che spettacolo! Ero al settimo cielo. Non so cosa avrei dato per avere le braccia stringerla forte forte,  accarezzarla, sfiorarla … ma non potevo! Non avevo le braccia e nemmeno le labbra per baciarla. Potevo solo sentire il profumo del suo corpo e vedere la sinuosità delle sue forme.      

Ero rassegnato … Anzi no. Avevo una rabbia che non vi dico … Pazienza mi sarei accontentato del solito contatto della guancia, del solito sfiorare i suoi capelli e le sue labbra, d’ascoltare il suo ansimare nel sonno ed a sussurrare le solite frasi silenziose al suo orecchio poggiato sul mio corpo.

    Ero al colmo del mio turbamento, quando lei si coricò e … mi abbracciò. Non me lo aspettavo proprio! Sentii accarezzarmi la parte   più stretta del mio corpo rettangolare dai suoi capelli , mentre tuffava ambo  le guance su di me e sentii di essere baciato mentre mi accartocciavo a lei stretto dalla sue braccia.   

    Aderivo al suo corpo come un francobollo e sentivo il suo seno turgido affondare nelle mie fibre. Sempre più stretto, sentii scivolarmi lungo il suo corpo fino a raggiungere l’ombelico ed ancora più giù, fino a sfiorare un boschetto di riccioli che adornavano il piccolo monte tra le gambe. 

   Volevo contribuire all’abbraccio, stringermi ancor di più al suo corpo, ma non sapevo come fare ...  Ero inerte, non avevo  braccia, né gambe … Solo l’interno del mio corpo era in  … fibrillazione ed incapace di resistere al turbamento. Ero in balia del suo desiderio e delle sue braccia che mi stringevano … Non potevo che subire supinamente, ma sentivo le mie morbide fibre sollevarsi, aderire ed incunearsi nel rilievo delle sue forme.

Mi sentivo posseduto e possessore in un amplesso irreale e fuori dal comune. Il sonno ci colse in quella posizione che durò tutta la notte .

    Il mattino, quando mi svegliai, ancora ubriaco di sogno e d’amore e  mi alzai  constatai la dura realtà …  Detti uno sguardo sornione al mio vecchio cuscino che se ne stava al solito posto stropicciato ed anche un po’  malconcio.

-Sì!- dissi nel mio intimo - E’ proprio il caso che debba provvedere  a comprarne uno nuovo ed anche un materasso, che, anche lui, poveretto è ridotto un po’ maluccio e cigola un  po’sulle vecchie molle.

 

 

 

 

Mia cara amica

 

   Anche questa notte, cavalcando Pegaso sono venuto a trovarti, ma non ti ho trovata … Mi sono attardato a gironzolare scontento per il cielo  guardando il mare. Ho visto il sole nascente rotolarsi sulle onde e, stanco di volare, ho fatto ritorno verso casa un poco disturbato, ma d’improvviso Pegaso, per caso, è scivolato sopra una nube che si stava sciogliendo in gocce che  cadevano copiose  ed ho  cominciato a traballare sul suo dorso. Ho sentito il suo nitrire che sapeva un po’ d’imprecazione e d’avvertimento a me che lo cavalcavo. Mi son  piegato  un poco  sul suo collo ed ho’afferrato tosto le sue briglie, quelle che Atena regalò a Zeus per bardarlo …

Ma non bastò per attutire l’urto nel sobbalzo. Sentii la testa che girava e mi sembrò di precipitare in mezzo al mare e far la fine di Bellerofonte …

Mi ritrovai seduto in mezzo al letto, accanto a  mia moglie che dormiva avvolta nel lenzuolo, mentre io, sudato, me ne stavo sveglio e  stranamente a torso nudo.

Mi ricordai che nell’impatto di Pegaso con la nube , m’era  scivolata la tunica che indossavo, ossia, la giacchetta del pigiama. Sentii d’improvviso un conato di vomito e corsi veloce verso il bagno inciampando nella poltroncina accanto al letto. Sono arrivato appena in tempo a  non sporcare quanto stava intorno, depositando il vomito nel lavandino.

La testa mi girava come fosse un elica del ventilatore. Stavo male … La caduta dal cavallo Pegaso era un sogno che giustificava  il mio malore. Al primo seguì un altro conato di vomito. Guardai nel lavandino e lo vidi colorato rosso … Pensai fosse sangue … Guardando meglio, m’accorsi che quel rosso era quello dei peperoni arrostiti sulla brace, durante la giornata e che mia moglie aveva diligentemente conditi con un poco d’olio e sale. Evidentemente non ero riuscito a digerirli. Li avevo mangiati per cena con ingordigia …

Fu d’obbligo preparare il “canarino” e, sapendo come fare, non svegliai mia moglie per non farla preoccupare.  Andai in cucina , presi un tegamino d’acqua , vi  immersi una scorza gialla di limone e lasciai bollire per un poco. Versai il contenuto in una tazza , vi aggiunsi un po’ di zucchero e la tisana fu subito pronta. La bevvi lentamente e mi si rasserenò subito l’intestino. 

E’ questo un vecchio rimedio di mia nonna Lucia, buon’anima, che non mi ha mai tradito. Si chiama “canarino” perché la scorza di limone giallo nell’acqua bollita sembra essere l’aluccia del passeraceo in questione, proverbialmente giallo.

Cosa?! Mi dici che lo sapevi perché pure tua nonna era siciliana, ma  che non sai chi fosse in effetti Pegaso, che cavalco spesso nei miei sogni?!

Ti accontento subito. Pegaso (con l’accento tonico sulla e, mi raccomando) è un cavallo  particolare che ha le ali per volare in cielo .

La tradizione mitica greca lo vuole trasportatore magico delle saette che Zeus,  Giove Pluvio, scaglia dal cielo tra le nubi per mostrare la sua presenza. Egli nacque dalle onde del mare, che imita quando galoppa nell’etere. Stai attenta! Preciso dalle onde del mare e non dalla schiuma delle onde; quest’ultima dette i natali ad Afrodite, la Dea dell’Amore.

Poseidone ne fece appunto dono a Zeus, nel giorno della sua investitura a padre sovrano degli Dei e degli uomini. Il mito vuole che Zeus lo affidasse all’eroe Bellerofonte perché lo addestrasse e che Atena lo fornìsse delle bardature necessarie.

Bellerofonte dopo averlo addestrato, lo cavalcò per compiere delle imprese grandiose, tra le quali, la decapitazione della Chimera. Disgraziatamente un giorno , mentre lo cavalcava, cadde dal suo dorso e morì, lasciandolo libero di scalciare i cocuzzoli dei monti per farne scaturire delle fonti d’acqua , tra la quali celebre quella che scaturisce dal monte  Elicona a causa di un suo ben assestato calcio. Fu a questo punto che Zeus decise di farlo salire per sempre in cielo e di trasformarlo in una costellazione che ancora esiste ed ha assunto il suo nome.

Ti faccio notare la corrispondenza tra il correre del cavallo alato e l’impulso magico delle onde cavalcate dalle navi. Gli antichi Greci erano dei fini osservatori della realtà che confrontavano con la fantasia.

Come puoi notare da quanto ho scritto prima, a me, dopo Bellorofonte ,è concesso di cavalcarlo ancora! Quando voglio, chiudo gli occhi salto sul suo dorso e mi metto a volteggiare tra le nubi e corro a ritrovare luoghi che ho già visto ed altri che desidero rivedere.

A volte corro in America a New York, cercando di non urtare la statua della libertà ed i grattacieli, oppure Chicago, il Grand Canyon , Death Walley, Los Angeles e la California, oppure in Asia a San Pietro Burgo a Mosca, nella vecchia Costantinopoli, ad Efeso, oppure in  Europa, dalla Spagna alla Norvegia e fino al lago Balaton ed alla stessa Grecia e tutti gli altri posti che ho toccato nel mio peregrinare reale.

Non ti dico inoltre quanti posti vado a visitare della nostra Italia ed in particolare della mia Sicilia … 

Quando invece, mi punge il desiderio di vedere posti nuovi, mi dirigo verso l’Africa , di cui ho visto ben poco, poiché i recenti disordini mi hanno impedito di visitarla realmente e, di recente anche verso l’Australia, che mai mi ero sognato prima di vedere ed allora scopro nuove città, nuove località, nuovi volti e la mia fantasia galoppa tra fatti storici letti e personaggi inverosimili di cui ho solo conoscenza letterale e televisiva.

E’ bello poter cavalcare Pegaso restando immoti e chiudendo gli occhi solamente … Raggiungi l’infinito , scavalchi nuvole, raggiungi stelle, pianeti, comete, galassie e ti senti libero di vagare   insieme agli astronauti o fingerti personaggio di Walt Disney o dell’antico mondo romano e prima ancora …

Talvolta mi soffermo anche a rimirare la grossa croce in pietra lavica che m’attende in quel di Tremestieri Etneo ed altri mesti luoghi dove l’umanità dorme e la natura ancora vive nel perenne nostro lungo viaggio in questo mondo … Ed è così che trovo l’occasione per ricordare, scrivere, vivere , parlare oppur  muto restare ad osservar le nefandezze o le bellezze di questa nostra vita  terrestre.

Un tempo mi soffermai a disegnare la mappa dei viaggi fatti e quelli da fare , esattamente come faceva  Stendhal, ma quando scoprii la magia di Pegaso, smisi di farlo. Era più bello chiudere gli occhi e sognare. Nulla così sfuggiva alla mia fantasia, libera di correre da un punto all’altro del mondo, parlare con chi volessi oppure no, ignorare i momenti brutti e ricordare i belli.

Mi dicevo fino a qualche mese fa: - Quella volta fu veramente bello; tal altra: - Beh, lasciamo stare, è meglio dimenticare ed in questa alternanza di pensieri mi dondolavo  sereno ed ero felice, o per lo meno contento, del mio stato.

Adesso con l’aria che tira e con il fantasmagorico impatto con il Covid  19 certamente non sono nello stato di godere del presente, ma spero che tutto possa cambiare presto e ritornare a scorazzare per il mondo in aereo e sopra il mare alla ricerca di sempre nuove e fantastiche esperienze.

Sarà quel che sarà, per quanto mi riserva il futuro!

Un caro saluto . Pippo

 

 

 

Un brutto risveglio

 

     Sul mio cavallo bianco  attraversavo campi ora ridenti e verdi, ora brulli e gialli come l’oro. Non sapevo perché  lo cavalcassi e neppure dove andassi.  Vedevo la sua criniera svolazzante al vento alla quale mi aggrappavo, stringendo con forza le gambe  ai suoi fianchi. La mia cavalcatura non aveva sella ne redini per poter dirigere la sua corsa sfrenata. Ero in balia del suo andare libero e senza meta.

     Mi chiedevo quando e dove lo avessi montato e non sapevo darmi una risposta. Non  ricordavo nemmeno di averlo montato. Mi vedevo a torso nudo e sentivo sul mio corpo il fruscio dell’aria, che mi costringeva a volte a chiudere gli occhi resi quasi ciechi dalle lacrime stimolate dal vento. Non osavo nemmeno  di arrestare quella folle corsa, perché non sapevo come fare. Mi ricordai che mai prima d’allora mi era capitato di essere stato a cavallo  di un quadrupede per di più in corsa. . Non ne avevo mai avuto l’occasione, la necessità o il desiderio.

Man mano che il cavallo avanzava, vedevo in fondo all’orizzonte un punto luminoso che sembrava pian piano ingrandirsi. Il terreno in un primo momento pianeggiante ed ubertoso, andava sempre più diventando  accidentato e ciottoloso e poi a volte era in salita ed a volte scosceso. Ad ogni variazione del percorso ne ricevevo dei sussulti che mi sfiancavano. Il sole mi colpiva alle spalle ed io soffrivo le pene dell’inferno, tra sussulti e morsi di calore. Ma ecco che improvvisamente il cavallo si arrestò davanti ad un’onda gigantesca che gli veniva incontro. Avevamo raggiunto il mare e quell’onda si frangeva contro la spiaggia furiosamente. Non capii se vi fosse in atto un uragano od una tempesta che agitasse le acque spumose. L’arresto fu repentino ed io fui sbalzato in avanti piombando nel centro  dell’onda. Sentii l’acqua sommergermi, tentai di uscire fuori dall’onda ed infine mi trovai disteso  sulla spiaggia tutto bagnato. Aprii gli occhi tutto dolorante, ma vidi intorno a me il buio.   Il cavallo bianco era scomparso, come se l’onda marina lo avesse inghiottito. Non avevo la forza per alzarmi in piedi. Emessi un grido di aiuto e di disperazione … Ero stato soccorso da mia madre rediviva che mi aveva trovato a fianco del letto immerso in un bagno di sudore. Con gli occhi sbarrati, dimenticando che lei non era più viva, le chiedevo con insistenza: - Dov’è andato a finire il cavallo … quello bianco, il mare … - Attenta – aggiungevo –  il mare è agitato  Sentii rispondermi: - Sta calmo. Hai la febbre Non ti  agitare. Hai solo sognato … – e poi non sentii più nulla. – Fu la fine di un di un brutto sogno e l’inizio di due settimane d’ospedale in lotta contro un nemico invisibile e sconosciuto.

 

 

 

 

 Il verbale

 

    Era quello un giorno speciale per il Dott  Pantalone. Ricorreva l’anniversario del giovane virgulto, frutto del suo amore con Carla. Spinto dal desiderio di veder gioire suo figlio che manifestava fin quasi da quando era nella culla un amore smodato per il cucciolo di cane che liberamente circolava nell’appartamento,  pensò bene di fargli una sorpresa regalandogli quel cane di “pelouche” che aveva visto esposto in un negozio di giocattoli e che non aveva potuto comprare prima a causa di quel maledetto virus che gironzolava per le strade ed anche nei negozi.

La scelta non era venuta a caso. Il finto cane aveva la stessa taglia di quello vero tanto da   sembrarne  il sosia  e, per di più, agendo su una di quelle diavolerie elettroniche moderne esso poteva abbaiare e spingersi in piedi partendo dalla posizione di accovacciato, con le zampette incrociate.

   Uscito per tempo dall’Ufficio dove lavorava, andò dritto, dritto al negozio  e comprò il giocattolo che la commessa si stava accingendo ad impacchettare.

-No,no! – disse il Dott Pantalone – lo voglio così al naturale, senza che sia impacchettato. Voglio fare una sorpresa a mio figlio –

Con il cane sottobraccio giunse alla macchina e lo sistemò nel vano anteriore accanto al posto di guida e per paura che potesse magari spostarsi durante il tragitto lo imbracò con la cintura di sicurezza. Vedendolo assiso sul sedile, già pregustava la gioia del bambino quando lo avrebbe visto. All’arrivo a casa non l’avrebbe slacciato. Sarebbe salito a casa e con una scusa sarebbe ritornato alla macchina conducendo con sé il destinatario del regalo.

Assorto in questi beati pensieri salì in macchina, avviò il motore e si accinse a guidare. Uscito dal posteggio, dopo appena un centinaio di metri, si vide davanti una pattuglia di carabinieri, che stava svolgendo il servizio di sorveglianza stradale. La visione non lo turbò per niente, essendo a posto da ogni punto di vista del codice della strada, nemmeno quando si vide mostrare la paletta di un agente che lo invitava a fermarsi ed accostare a destra.

-Normale controllo – pensò – E’ giusto che  questi angeli della strada svolgano  il loro  servizio. Sicuramente mi chiederanno l’autocertificazione che mi autorizzava a circolare in macchina durante il “lockdown” – Egli tornava a casa dal lavoro. L’autocertificazione era più che valida. C’era da perdere un po’ di tempo. Ma non aveva fretta.

Non appena accostò a destra ed aprì il finestrino, l’agente, dopo averlo salutato militarmente gli disse: - Lei è in contravvenzione per la violazione dell’art 169 del Codice della Strada.

-Mi scusi – rispose- ma non ho presente cosa dice l’art 169. Se può spiegarmi … Se si tratta dell’autocertificazione, io ce l’ho. -

-Le spiego subito – rispose il milite – L’art 169 del Codice della Strada stabilisce che gli animali domestici vanno posti nel retro della macchina e che vi sia almeno la rete di separazione dall’abitacolo del guidatore. Ciò le costerà oltre alla multa, una detrazione di un punto dalla patente. Non è ammesso che lei metta il cane nel posto accanto a quello di guida, anche se imbracato con la cintura di sicurezza, che, tra l’altro, non è omologata per gli animali.

- Ma guardi che è un cane “pelouche”! – ammiccò sorridendo il Dott Pantalone, pensando che la questione finisse lì.

- L’art 169 non fa alcuna distinzione circa la razza del cane. – si sentì rispondere sorpreso -

 Firmi il verbale ed è libero di andarsene. 

    Nonostante le ulteriori recriminazioni, il Dott  Pantalone, per , come si suol dire, tagliare la testa al toro, firmò il verbale ed andò via abbastanza turbato, ma sicuro che la faccenda sarebbe finita in una bolla di sapone, poiché nessun articolo del Codice della Strada vieta di porre un giocattolo accanto al posto di guida, con in più la circostanza di essere stato assicurato con la cintura di sicurezza onde impedirne la caduta. Per tale motivo non tenne in alcun conto  quel verbale che aveva firmato per ricevuta a quel milite che non aveva saputo distinguere un cane finto da uno vero. Il turbamento provato gli passò davanti alla gioia del suo bambino nel ricevere quel regalo fuori dal comune.

     Passati i fatidici giorni previsti, dalla data dell’avvenimento della contestazione ricevuta, si vide arrivare la classica busta verde con il balzello da pagare con relativo supplemento di spese per la notifica ed il provvedimento della decurtazione di un punto dalla patente.

A questo punto il Dott Pantalone si preoccupò della questione ed ovviamente, non gli restò che rivolgersi, in via del tutto informale, all’Ufficio emittente del provvedimento che, sentita la sua versione dei fatti, si sentì rispondere dal responsabile che essa non emergeva dal verbale, che il Dott Pantalone aveva firmato senza alcuna riserva. Dal verbale emergeva che egli guidava tenendo accanto al posto di guida un cane di grossa stazza imbracato con la cintura di sicurezza e nulla più. Egli avrebbe dovuto esternare nello spazio dovuto alle osservazioni del verbalizzato, che trattavasi di un cane finto, ossia di un giocattolo e che quindi l’art 169 contestato non aveva alcun senso. Le sue osservazioni postume e non scritte al momento opportuno, non erano accettabili dalla procedura e, pertanto, il provvedimento preso non era amministrativamente impugnabile, a meno che non  adisse le vie legali dimostrando di non trattarsi di un animale vivo citando testimoni che non figuravano al momento.

A questo punto il Dott Pantalone si trovò davanti ad un’alternativa: o pagare quel centinaio di euro di multa ed accettare supinamente la detrazione del punto dalla patente oppure citare in giudizio l’agente verbalizzante, che, in ogni caso, in mancanza di testimoni, davanti al giudice aveva maggiore valenza di credibilità rispetto alla sua versione dei fatti. Nel primo caso la spesa da sostenere era ben definita. Nel secondo caso, entrando nel merito l’intervento giudiziale, che non si sa mai come va a finire e le solite spese legali, essa avrebbe subito un fattore di moltiplicazione  notevole.

Fu così che Pantalone decise di pagare la multa, accettare la sanzione del punto di detrazione dalla patente e non ricorrere pur avendo ragione. Pazienza! Scherzi del momento a causa di quel maledetto virus che tappava gli occhi e la mente della gente.

 

La partita a scacchi

 

    Ai miei tempi, diciamo quando ancora ero studente liceale, ero un ottimo giocatore di scacchi. Una vera battaglia o meglio una guerra incruenta tra due fazioni manovrate da due avversari  o, se volete, un duello tra due intelligenze che si misuravano senza esclusione di colpi per catturare il Re nemico senza, per altro, ricorrere agli orrori dello scontro fisico.

I due avversari si scontravano su una scacchiera a caselle quadrate bianche e nere  con le loro forze in campo costituite da una pari quantità di pezzi o scacchi, schierati nelle due parti opposte del campo.

Pertanto il campo di battaglia era solamente la scacchiera ed i due avversari erano lungi dal venire alle mani fisicamente, se non che per muovere i pezzi.

I pezzi avevano una diversa valenza e potevano occupare le caselle della scacchiera indipendentemente dal  colore delle stesse. A loro volta i pezzi di una fazione erano di colore bianco e quelli  avversari di colore nero.

La diversa valenza dei singoli pezzi dipendeva dal movimento che potevano eseguire sulle caselle della scacchiera. Sicché il Re poteva muoversi solo di una casella in tutte le direzioni , la Regina come volesse lungo tutte le direzioni (orizzontale, verticale e diagonale) i due Alfieri solamente  in diagonale, i due Cavalli contemporaneamente in un passo verticale ed il successivo in diagonale e viceversa e le due Torri solo in orizzontale o verticale. Inoltre i pedoni potevano avanzare solamente d’un passo in avanti con, però, la facoltà di catturare un pezzo avversario in diagonale sempre con un solo passo.

I pezzi più importanti venivano schierati sulle  caselle laterali in un determinato ordine che vedeva al centro il Re e la Regina ed i pedoni nella successiva fila orizzontale. Analogo schieramento veniva fatto dal lato opposto della scacchiera.

Pertanto le forze in campo erano perfettamente pari ed a controllare il retto svolgimento della partita vi era una terza persona che fungeva da arbitro, ossia, quella di impedire movimenti non previsti dalle regole del gioco.

    Come si può rilevare i due schieramenti costituivano una metafora di due eserciti pronti a scontrarsi. La partita aveva fine con la sconfitta di uno degli schieramenti, consistente nel dare “scacco matto” al Re avversario, ossia nella sua cattura, purché quest’ultimo non fosse messo in condizione di “stallo”, ossia di essere impedito nelle mosse. 

Ovviamente era importante non lasciarsi catturare dei pezzi maggiormente dotati di movimenti, poiché si comprometteva l’esito finale della vittoria, ossia della cattura del Re avversario.

Da ciò ne scaturiva che ogni mossa veniva studiata attentamente, dando luogo a dei veri piani di battaglia, dai quali emergevano  le facoltà di analisi e sintesi dei due contendenti. Vi erano dei tempi che potevano essere lunghissimi ed addirittura poteva avvenire che la partita venisse interrotta per essere ripresa successivamente ripartendo dalla posizione lasciata.

Questo tipo di gioco, inventato forse dagli Arabi, ha avuto molta rilevanza anche nel campo internazionale con l’organizzazione di tornei a livello mondiale.

    Ebbene io conoscevo le mosse del gioco degli scacchi ed ero anche a conoscenza di determinati piani che consistevano nel costringere l’avversario a fare dei movimenti falsi. Non sempre riuscivo a vincere, poiché talvolta incassavo delle sconfitte … onorevoli, ma sempre sconfitte erano!

 

    Il tipo di partita che mi proponevano mi lasciò perplesso e titubante. Ora vi spiego perché, La partita che avrei dovuto affrontare non era a due, ma a  quattro avversari, A misurarsi in battaglia con le loro forze ( pezzi) non erano due, come da prassi, ma quattro persone contemporaneamente e la scacchiera, sempre quadrata,  aveva un numero doppio di caselle di forma quadrata perpendicolari ed orizzontali rispetto ai loro lati. Le caselle erano sempre bianche e nere , ma i pezzi in campo avevano quattro colori differenti; bianco, nero, rosso e giallo  Il numero dei pezzi a disposizione di ogni singolo avversario era pari a quello già descritto nella scacchiera normale.

Sostanzialmente erano quattro eserciti  e non due a scontrarsi contemporaneamente, schierati lungo i quattro lati della scacchiera. Le mosse venivano eseguite dai giocatori a turno ed i quattro contendenti erano tutti avversari tra di loro; la vittoria della maxi battaglia spettava all’unico Re che fosse rimasto  in campo. Era però previsto che il Re eliminato di volta in volta cedesse i propri pezzi al suo vincitore che li intruppava insieme ai suoi.

    Insomma mi si proponeva non una battaglia  semplice tra due fazioni, ma una specie di guerra mondiale tra quattro eserciti, con alleanze opportune  e temporanee, tutte, comunque, finalizzate alla vittoria di una sola fazione.

   Ciò evidentemente comportava non solo piani d’attacco più complessi ma anche più strategicamente elaborati ed inoltre la durata dello scontro si prevedeva molto più lungo e snervante.

Immaginate una battaglia dal vivo dove quattro eserciti si fronteggiano ognuno contro gli altri tre. Potrebbero avvenire alleanze estemporanee e di comodo, tradimenti e caotiche mosse errate, esattamente come talvolta avviene in alcuni Parlamenti  a tendenza democratica, dove diverse forze politiche si equivalgono e scelgono di allearsi pur di governare, con la segreta speranza di eliminarsi successivamente.

    L’esempio eclatante è ultimamente in atto nel Parlamento Italiano , dove dalle ultime elezioni sono emerse tre fazioni che si equivalgono e per formare il governo si è fatta una coalizione di due fazioni contro l’altra, che è durata poco dando luogo ad una alleanza diversa tra le tre fazioni, la quale non sempre è chiara e concorde. In conclusione la soluzione dei problemi di governo non solo non trovano facile soluzione, ma danno luogo a continue liti e sgambetti sotterranei.

    Per questo motivo ed anche per l’obbligo di dover indossare la mascherina contro il covid 19 per tutto il periodo della partita, che si prevedeva molto lungo, non ho accettato di partecipare a questa maxi-partita ed ho preferito restare fuori dall’agone.

 

 

 

Ulisse e l’Alcantara

 

 Domenica 11 Agosto  2019, ho rivisto le Gole dell’Alcantara in occasione dello spettacolo sulle acque del mitico fiume, che nonostante l’incalzare della lava è riuscito a raggiungere il mare. Lo spettacolare scenario notturno, sapientemente illuminato, ha fatto da sfondo alla vicenda umana di Ulisse, l’eroe greco descritto da Omero, durante il suo peregrinare per raggiungere , dopo la distruzione di Troia, la sua patria, Itaca. Tutti i personaggi, che abbiamo conosciuto leggendo l’Odissea di Omero, compresi i mitici Dei dell’Olimpo, figurano nella vicenda umana dell’eroe greco.

Non sto a descrivere il contenuto dell’Odissea, che spero sia noto a tutti. Tuttavia ricordo che, distrutta la città di Troia, Ulisse dopo le sue vicissitudini sul mare, approda solo e naufrago sulla terra dei Feaci. Viene accolto dal loro re, Alcinoo, che lo prega di descrivere tutte le  peripezie che lo hanno condotto nelle sua terra. Ulisse racconta tutte le sue disavventure marinare, sinteticamente descritte sulla scena del letto del fiume in magnifici bozzetti,  e prega di essere riportato nella sua Itaca. Viene accontentato e, come tutti sappiamo, si vendica dei Proci, i quali hanno attentato all’onore della moglie Penelope, con l’aiuto del figlio e pochi fedelissimi.

Stupende le scene, bravi gli attori, meravigliose le interpretazioni, mitologicamente appaganti e le descrizioni dell’Odissea. Molte le ovazioni del pubblico assiepato lungo la riva, ma quella che maggiormente mi ha colpito è stata l’ovazione  a scena aperta, quando Alcinoo, alla richiesta di Ulisse di essere rimpatriato, risponde di essere fortunato perché è approdato in un luogo, dove il naufrago è sacro e va salvato in ottemperanza al volere degli Dei. Chiaro il riferimento alle recenti vicende di Lampedusa. Le parole di Alcinoo sono state accolte da un battimano di approvazione, che la dice lunga sulle attuali vicende degli immigrati e sulle reali prese di posizione da parte del pubblico dei provvedimenti adottati dal governo, testé in fase di crisi

Lodo l’iniziativa del Comune di Motta Camastra per aver allestito questo tipo di spettacolo, ricco di pathos e molto istruttivo. Ricordo che, già precedentemente, è stato pure allestito uno spettacolo, avente per oggetto l’Inferno dantesco.

     La partecipazione del pubblico è stata numerosa, molto varia ed attenta allo svolgimento degli eventi. Dal cicaleccio attorno, potevano sentirsi commenti espressi nei vari dialetti italiani ed anche in lingue francesi, tedesche, inglesi ed europee. Segno, quest’ultimo, della riuscita dell’iniziativa teatrale, avente per scenario, il mitico fiume Alcantara e del boom di quest’anno dell’afflusso turistico internazionale.

    Mi auguro  che tutti i comuni siciliani, in possesso di tesori artistici e naturali, quali l’Alcantara, sulla stessa falsariga del comune di Motta Camastra   diano un incremento alle attività culturali che rispecchiano le nostre radici legate al mito e ad altre attività storico-letterarie, di cui la nostra terra abbonda.

    Mi chiedo, inoltre, se quest’anno il coronavirus consentirà manifestazioni del genere, che sono un fiore all’occhiello del turismo isolano di carattere sia locale, nazionale ed internazionale.

     Rivedendo le foto che ho scattato degli spettatori assiepati lungo la riva del fiume  su panchette ,  mobili, tappetini, sgabelli e la gente che si riversava  nei locali di ristoro e sugli ascensori della sua riva, e confrontandoli al rispetto delle misure di sicurezza anti contagio imposte   mi sembra che  sarà impossibile  realizzare tali spettacoli.

      Mi chiedo se le Autorità regionali, preposte ai beni culturali ed alla sicurezza anti coronavirus si siano posti questo problema per consentire questi spettacoli  che hanno come scenario le meravigliose Gole dell’Alcantara, di regolarli in qualche modo per poterne trarre  vantaggi economici di cui sono fonte, oltre che acquisizioni culturali di un certo rilievo.

Temo che nulla sia stato fatto e che questa estate assisteremo ad un ammasso disordinato e pericoloso di gente accorrente agli spettacoli oppure al congelamento degli stessi. 

In effetti non vi è stato alcuno accorrere disordinato di spettatori. Nessuno spettacolo è stato dato.

 

 

Catania e u Saccu di Sant’Aita

 

     Se chiedete di raccontarvi la vita di Sant’Agata  a  qualcuno dei catanesi che indossano il famoso  “saccu di Sant’Aita” , non tutti sanno di lei se non che è la protettrice della città . Punto e basta!  Con la solita liscia catanese potreste sentirvi rispondere: “ E chi ni sacciu ju! E’ a Santa cchiù megghiu ca c’è. E’ catanisa : cittadini siti divoti tutti? Cettu cettu.” Quello che vale è indossare il sacco, tirare il cordone della “Vara” ed essere devoto perché ha avuto fatto un miracolo  pregando

“nta so Chesa, unni c’è u Crucifissu di Sant’Aita, ca è miraculusu”

      Bisogna sapere che, allora, Agata era un’avvenente quanto castigata fanciulla (sorpresa!) d’origine palermitana e non catanese, vissuta nel III° Secolo ai tempi di Decio, quando era console di Catania Quinziano. In verità i Catanesi sostengono che Sant’Agata non era nata a Palermo, ma a San Giovanni Galermo, quartiere di Catania.

    Avendo Quinziano messo gli occhi lussuriosi su di lei ed essendo stato rifiutato perché era non solo cristiana, ma votata a raggiungere vergine il paradiso, venne sottoposta a martirio a Catania per ridurla allo stato di pagana. Ella resistette e per questo, infine, dopo aver subito anche l’asportazione del seno,  morì in odore di santità e Santa venne dichiarata dalla chiesa cattolica.      

Stringi, stringi si scopre che, tutto sommato, quello di Sant’Agata, fu un “femminicidio” bello e buono, sancito dalla massima autorità di allora. Nulla di nuovo, che si è purtroppo sempre perpetuato nel tempo.

Fu sepolta in gran segreto nel cimitero dei cristiani, che, a quei tempi si trovava nell’attuale Piazza Carlo Alberto (A fera o’ luni). La sua tomba venne individuata laddove adesso sorge la chiesa della Madonna del Carmine.  Ciò avvenne nell’anno 313, ancora prima dell’editto di Costantino.

Solo successivamente le sue spoglie vennero traslate nella chiesa di Sant’Agata la Vetere.      Ma non finì lì. Nell’anno 1040, l’ammiraglio bizantino di stanza in Sicilia, Giorgio Maniace, caduto in disgrazia agli occhi dell’imperatore per un complicato  intrigo col mondo arabo locale, portò con sé a Costantinopoli le reliquie della Santa nella speranza, forse, di ottenere grazia agli occhi del monarca. Solamente nel 1126, imperatore Giovanni Comneno, ad opera di due soldati  in fuga da Costantinopoli, (il francese Gisliberto ed il calabrese Goselino) non le trafugarono e le portarono in Sicilia.     Quando giunsero a Catania, preceduti dalla notizia del ritorno delle reliquie di Sant’Agata, i catanesi con addosso la camicia da notte (u saccu di Sant’Aita) accorsero ad omaggiare la propria patrona, che, pare, venne sbarcata nel vecchio porto che allora sorgeva ad Ognina, laddove sboccava il fiume Longane (Piazza Mancini Battaglia). Per questo motivo viene indossato “U saccu di Sant’Aita” a ricordo del suo ritorno a Catania. La Santa, quasi per ringraziare i cittadini catanesi per la loro fede in lei, ha inondato la città di Catania di miracoli, che l’hanno sempre salvaguardata dai diavoli che regnano sotto il cratere dell’Etna. Essa fu salvata dalla lava, grazie al suo miracoloso intervento  più di quindici volte nell’arco di tempo che va dal 252 al 1886. Inoltre venne risparmiata dall’invasione degli Ostrogoti nell’anno 535 ed ancora tenne lontano dalla città la peste che imperversò in Sicilia negli anni 1575 e 1743.

Il primo miracolo avvenne il 5 Febbraio del 252, con la esposizione del suo velo al fronte della lava che si arrestò esattamente alle porte di Catania, oggi Piazza Stesicoro. Parimenti nel 1169 l’esposizione del velo fece cessare un terremoto, durante il quale morirono sotto le macerie della chiesa madre il vescovo e quarantaquattro monaci .

    Volevo ancora aggiungere al mio discorso con l’amico devoto che mi stava davanti, qualche altra cosetta riguardante le candelore, ma il mio interlocutore mi bloccò secco: -   Minchia ‘mpare, fremmati! Mi cunfunnisti . Ni sai troppu di cosi. Mi facisti funniri a testa … A mia mi basta sulu tirari u curduni da Vara, cridiri ca u velu da Santa pruteggi Catania non sulu contru a lava, ma macari contru a malatia do cufinu 19  e diri “Viva Sant’Aita”(1)

Essere catanese, significa anche questo.

 

 

(1)            Nota  di traduzione:

Minchia compare, fermati! Mi hai confuso le idee. Ne sai troppe di cose. Mi hai fatto fondere il cervello. A me basta tirare il cordone   della “Vara”, credere che il velo della Santa protegge Catania non sulo contro  la lava, ma anche contro la malattia del  covid 19 e dire “Viva Sant’Agata.

 

 

  

 

Filosofando con Cartesio

 

COGITO, ERGO SUM - EGO SUM, ERGO POSSUM  ET IN NATURA OMNIA SUNT.

Cogito, ergo sum, (Penso e quindi esisto) diceva in latino il famoso Cartesio, che poi era francese, significando che anche la Francia è neolatina e, quindi, consorella delle altre nazioni europee. Egli era assillato dal problema di giustificare l’esistenza dell’uomo alla luce della immensità della ragione, assegnando a quest’ultima non solo la preminenza sulla materia, ma l’origine di tutte le cose.

Alla luce di questa sua convinzione arrivò a sostenere che il solo fatto di pensare costituisce la prova dell’esistenza non solo dell’uomo, ma di Dio e di tutto il creato.

L’importanza di questo assioma costituisce la base dello sviluppo umano della ragione, dando quei frutti di progresso e di evoluzione scientifica che persiste ancora ai nostri giorni.

Ma se io esisto per il solo fatto che penso, come dice Cartesio, è anche vero che, in quanto uomo, ho dei poteri e valgo, esattamente come ha dei poteri e vale Dio ( anche se in maniera molto più vasta)  ed inoltre tutte le cose della natura esistono  in quanto  espressione del pensiero comune.

Ecco dunque che se è vero l’assioma COGITO, ERGO SUM, posso ammettere che EGO SUM, ERGO POSSUM, ET IN NATURA OMNIA SUNT. Si potrebbe pensare ad una medesima entità che coinvolga Dio e la natura, cadendo nella concezione panteistica sempre in agguato. Ma non è così, perché al di sopra di tutto vi è la RAGIONE, anzi LA SOMMA RAGIONE che è prerogativa esclusiva di Dio, come Cartesio ha dimostrato.

Nello stesso modo il mio  “ERGO POSSUM” il mio poter fare tutto non ha valore assoluto, poiché è condizionato dalle cose della  NATURA, ossia dallo scorrere della vita e dall’esistenza di DIO che è la vera SOMMA RAGIONE, principio di “OMNIA SUNT”, ossia tutte le cose che esistono.

“Anticchia” complesso il ragionamento … Ma è così: io posso e valgo come tutte le cose di questo mondo, ma ho il diritto-dovere di valere nell’ambito della libertà concessa nella Natura dalla SOMMA RAGIONE.

   Se dunque ho codesto diritto-potere  nel mondo da esercitare  in libertà, chi o cosa potrà impedirmi ed in nome di che cosa, a fare o non fare una determinata azione?

La risposta è semplice, esplicita e categorica: LA SOMMA RAGIONE.

E’ Dio, in quanto Somma Ragione, dunque, che può modificare il mio comportamento e limitare le mie facoltà, ma non lo fa specificatamente per ogni singolo individuo, se non nel contesto delle regole imposte alla natura al momento della creazione.

    E’ evidente, dunque, che la libertà dell’uomo non può travalicare le regole ed i limiti imposti dalla natura, di cui fa parte. Egli pur essendo individualmente libero, è costretto a nascere, vivere e morire  come tutti gli esseri animati.

    Non turbi, dunque la serenità della vita lo spettro della morte, che è una delle regole a cui l’uomo deve sottostare. Gli è semplicemente concesso di poterne limitatamente ritardare l’evento, ma di appena una brevissima spanna, con i suoi ritrovati, frutto dello studio della natura che lo circonda. In ogni caso essa arriva silenziosa e sicura, come cantò Leopardi di cui mi piace ricordare in calce la sua poesia in merito.

Non turbi, quindi, più di tanto la paura del covid 19, foriera di  morte, che pur essendo certa, può  avviene in tempi diversi, dando la possibilità, comunque, di eventuali cure dilatorie . 

Purtroppo quello che spaventa l’umanità e la società non è tanto la morte in sé, ma la contemporaneità di più morti in un lasso di tempo brevissimo, che non dà possibilità di poter intervenire curando.

 

La poesia del Leopardi:

 

Sola nel mondo eterna, a cui si volve

ogni creata cosa,

in te, morte, si posa

nostra ignuda natura;

lieta no, ma sicura

dall’antico dolor. Profonda notte

nella confusa mente

il pensier grave oscura;

alla speme, al desio, l’arido spirto

lena mancar si sente;

così d’affanno e di tenerezza è sciolto,

e l’età vote e lente

senza tedio consuma.

Vivemmo: e qual di paurosa larva,

e di sudato sogno,

a lattante fanciullo era nell’alma

confusa ricordanza;

Tal memoria n’avanza

del viver nostro : ma da tema è lunge

il rimembrar.  Che fummo?

Che fu quel punto acerbo

che di vita ebbe nome?

Cosa arcana e stupenda

oggi è la vita al pensier nostro, e tale

qual dei vivi al pensiero

l’ignota morte appar.

Come da morte

vivendo rifuggia, così rifugge

dalla fiamma vitale

nostra ignuda natura

lieta no ma sicura;

però ch’esser beato

nega ai mortali e nega ai morti il fato.