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"FATTI E RI-FATTI"

Racconti neonati in pandemia

di Pippo Nasca

Pippo Nasca

 

 

RACCONTI NEONATI

In

PANDEMIA

 

PREMESSA

 

    Siamo nel 2021 inoltrato ed il Covid 19 è ancora vivo e vegeto e nonostante il vaccino, anzi i vaccini, che sembrano non bastare, continua a mietere vittime in tutto il mondo. L’Italia adesso oscilla tra il rosso e l’arancione secondo i modelli imposti dal Governo Conti bis, che è stato fatto fuori per debellarlo (il vius!) definitivamente con il consenso di tutte le forze politiche in atto. Nonostante ciò, le polemiche continuano ad imperversare ed il Covid 19 è sempre presente con le sue variazioni e sembra lanciare continuamente la sua sfida come emerge dai continui D.C.P.M. del nuovo governo Draghi. La stessa solfa è  in tutto il modo.

Nell’attesa di vederlo finalmente sconfitto, io continuo intanto a restare in casa e ad uscire quel poco che mi è concesso con la mascherina ed a scrivere per ingannare il tempo, fiducioso nella vittoria finale. Spero, in questo modo, che le mie opere possano in qualche modo aiutare chi mi legge a superare la noia ed il disappunto. Questi racconti, che hanno solo questa pretesa modesta sono stati, pertanto, scritti senza alcuna altra finalità o intento a seconda dell’estro momentaneo.

                                                                                             Pippo  Nasca

 

 

 

SCORDIA NEL RICORDO

 

    Fu intorno al 1948 che divenni cittadino di questo ridente paese dell’entroterra catanese, in occasione del trasferimento di mio padre, neo ferroviere, da Catania a Scordia  nel ruolo di operaio d’armamento, nonostante fosse operaio falegname specializzato. Abitavo nel Fabbricato Alloggi, sito al Passaggio a livello sullo stradale per Francofonte, ad appena un centinaio di metri dalla punta degli scambi lato Caltagirone.

    Da allora  divenni studente pendolare da Scordia a Catania per frequentare la scuola media ed il Liceo Scientifico fino al 1955. Allora la cittadina, che contava circa 11 mila abitanti era fornita solamente dalle scuole elementari e dell’Istituto di avviamento al lavoro.

    Scordia è una cittadina , la cui stazione ferroviaria dista 30 Km  da Catania e 35 Km da  Caltagirone. Sorge a circa 150 metri dal livello del mare (la stazione FS esattamente a 111 metri), poiché il suo territorio si inerpica sulle prime pendici dei monti Iblei , subito dopo il Biviere di Lentini, che può considerarsi parte della piana di Catania.

    Nonostante recenti scavi abbiano messo in evidenza segni di abitazione nell’età del bronzo e del ferro con il ritrovamento di antichi reperti,  nell’antichità non ha avuto molta rilevanza storica.

Sicuramente la località sarà stata abitata da Siculi e Sicani e successivamente colonizzata dai Greci ed occupata dai Romani, ma in modo non particolarmente incisivo. Infatti le guerre servili di Roma, nonostante la vicina Palike, rifugio delle bande di schiavi ribelli, non la menzionano per niente. Né, per altro, è stata teatro di altri avvenimenti  di particolare rilevanza storica. Seguì sicuramente le vicissitudini di Catania nel periodo bizantino, subendo pure l’invasione dei Vandali, degli Arabi e dei Normanni.

Bisogna arrivare al XII secolo per avere notizie certe dell’assegnazione della località ai Templari, assegnata ad un nobile di nome Nicolò di Sanducia per la nota messa al bando dei cavalieri in questione, caduti in disgrazia agli occhi della Santa Sede.

Nel 1255 la Signoria venne trasferita a tale Virgilio di Scordia, che la perdette per aver parteggiato con gli Angioini nella guerra contro gli Aragonesi.

Nel 1308 subentrarono nella gestione della località i delegati pontifici assumendo il nome di Casale di Scordia, che era parte del feudo della vicina  Militello in Val di Catania.

Nel periodo successivo , nonostante il tentativo di farla diventare sede di civile abitazione, la zona subì lo spopolamento completo riducendosi a mera campagna, adibita alla produzione agricola.

Bisogna attendere che nel 1628 il nobile Branciforte ottenesse dal Re di Sicilia Filippo II la “Licentia populandi” e che la località venisse stabilmente abitata come frazione di Militello.  Essendo intanto subentrati nel Regno delle Due Sicilie i Borboni, in seguito ad una riforma, nel 1819 Scordia ottenne l’autonomia comunale, avviandosi a diventare una cittadina inserita ottimamente nel contesto nazionale. E’ però nel XIX secolo, dopo la proclamazione del Regno d’Italia, grazie ad Ippolito De Cristofaro, uomo politico, tra l’altro senatore del Regno ed anche presidente del consiglio regionale,  che Scordia assunse una certa rilevanza nella produzione ed esportazione degli agrumi. Fu grazie all’interessamento del De Cristofaro che venne realizzato il ramo ferroviario da Valsavoia a Caltagirone e la nascita della stazione ferroviaria, vero predellino di lancio nell’esportazione degli agrumi. 

Un altro personaggio di rilevanza culturale fu in quell’epoca Elena Thovez, , figlia dell’erede inglese della Ducea di Nelson, andata sposa ad un De Cristofaro. Fu lei, cultrice di spiritismo, a dare un’impronta culturale del tipo illuministico allo sviluppo delle arti fondando anche un Circolo Esoterico, in cui si esercitavano pratiche di magia. Sono rimasti celebri i suoi legami culturali con il Dottor Migneco di Augusta, il quale subì anche un processo ed una condanna per eresia da parte della Santa Sede, che non osò nulla contro di Lei per i suoi legami alla famiglia De Cristofaro.

Allo stato attuale, Scordia è molto cambiata da quel lontano 1948, data in cui divenni suo cittadino fino al 1955. Allora, ad un centinaio di metri dalla stazione FS, all’incrocio con lo stradale per Francofonte e la strada provinciale per Catania, laddove adesso vi è un’elegante rotatoria secondo la moda francese, vi era un abbeveratoio, che serviva anche da lavatoio pubblico.

Non erano ancora arrivate le lavatrici elettriche nella cittadina e molte case non avevano forse l’acqua corrente. Per tale motivo molte donne si servivano di quel lavatoio pubblico per curare il loro bucato.

Andando verso il centro cittadino, percorrendo proprio la via Tenente De Cristofaro, sulla destra era possibile scorgere le viuzze in discesa del quartiere de  “Li  Furchi”, che avevano origine dalla piazza della Matrice dedicata a San Rocco e mostravano il percorso a fondo naturale.

Oggi tali viuzze hanno cessato di avere l’aspetto primordiale mostrando un aspetto decoroso.

La via Tenente De Cristofaro è l’arteria che congiunge la stazione FS con il centro della cittadina, denominato “A Chiazza”.

Quest’ultima, che sostanzialmente è la via principale di Scordia congiunge la piazza della matrice con il sito dove fa bella mostra “a Culonna”.

Posso ben dire che tutta la cittadina era in quel tratto di strada ai cui lati si estendeva parte delle case. Visitandola oggi mi viene la tentazione di chiamarla il centro storico di Scordia, laddove vi sono locali e negozi.

Dico questo poiché adesso dietro “La Colonna” la strada che continua verso la località “A Baruna” presenta un proliferare di abitazioni che prima non c’erano.

Mi rendo conto che è nato un quartiere nuovo laddove prima vi era solamente il Cinema Castiglia e qualche casa, quello della  Baruna.

Inoltre al fianco della Colonna vi era  la cosiddetta “strata du Paliu”, dove, per la festa di San Rocco avvenivano le gare ippiche in onore del Santo Patrono.

Questa strada, tutta in salita, conduceva a Scordia Alta, dove vi erano dei casolari adibiti a seconda casa. Poche case lungo la strada, allora, dopo un certo punto.

Adesso Scordia è praticamente legata senza alcuna discontinuità abitativa fino a Scordia Alta. Inoltre la parte a sinistra salendo della via del Palio ha dato luogo ad uno sviluppo edilizio, che costituisce una parte nuova di Scordia. Da quel lontano 1947 ad oggi tutta la cittadina non solo si è adeguata al passo con i tempi, ma si è anche estesa inerpicandosi sempre più sulle pendici dei monti Iblei. Apprendo, infatti che essa rasenta il numero di circa quindici mila abitanti  e mi sono reso conto che dal punto di vista scolastico la cittadina è munita non solo di tutti i tipi di scuola superiore, ma anche di un Museo cittadino e di una Biblioteca Comunale  Tutte queste cose ai miei tempi me li sognavo solamente!

Di Scordia ricordo le “vasche” domenicali e dei dì di festa lungo la “chiazza”, la festa di San Rocco e quella di San Giuseppe.

Ricordo un po’ meno la festa della Madonna di Santa Maria Maggiore; le passeggiate nella villetta accanto alla “Colonna”, le serate al Cinema Castiglia, ma soprattutto l’attività filodrammatica della parrocchia  di San Giuseppe, curata da Padre Maroncelli, che si concludeva di volta in volta nel palchetto allestito nel Convento davanti agli spettatori di tutti i parrocchiani.

Gli attori eravamo tutti e solo maschi.

Le donne , ovvero le ragazze, avevano le loro attività, ma non erano ammesse le … promiscuità! Anche in chiesa, durante la Messa domenicale maschi a destra e femmine a sinistra!

Ovviamente mi riferisco ai giovani che frequentavano l’Azione Cattolica. Il Convento,che dava il nome a tutto il rione che sorgeva nella parte alta al di là della piazza di San Rocco, ospitava delle suore che erano dedite all’educazione delle ragazze nel campo del ricamo ed altre attività muliebri. Nello spazio antistante vi era un’enorme piazza, dove, per San Rocco, vi era la fiera del bestiame di tutte le taglie. Successivamente questa fiera venne trasferita in un appezzamento viciniore alla stazione ferroviaria, poiché in quella piazza antistante il Convento venne costruito il complesso delle scuole elementari ancora efficiente e funzionante.

Un’altra cosa che ricordo vivamente è il periodo delle elezioni, la quale dava luogo a comizi che si tenevano regolarmente nella piazza di San Rocco, secondo un calendario prestabilito.

Non me ne perdevo uno!

Mi piaceva ascoltare quello che dicevano e soprattutto il modo come lo esprimevano. Venivano dei valenti oratori, specialmente quelli del PNM , i quali facevano leva sul sentimentalismo  popolare nei confronti del “Riuzzo”, cui l’Italia doveva la sua unità. Poi per la festa di San Rocco veniva organizzata una corsa ciclistica secondo un giro prestabilito, cui partecipavano anche ciclisti di altri paesi.

Il tifo era per quelli “scurdioti”, che non vincevano mai!

A proposito di gare, veniva pure organizzata  una corsa ippica, proprio nella strada del “Palio” con partenza dalla colonna e traguardo in cima alla strada, che veniva regolarmente transennata.

Il direttore e responsabile della gara ippica era un mio zio, fratello di mio nonno materno e pensionato delle Ferrovie, che aveva scelto di vivere a Scordia, avendo sposato una scordiense.

Era il Signor Alfio Giuliano, socio e frequentatore della Società degli Operai, la cui sede era nella “Chiazza” poco distante dalla colonna.

Un altro periodo festivo che ricordo è quello carnevalesco, visto con sospetto da Padre Maroncelli, ma una vera valvola di sfogo ed evasione per la cittadina.

Le donne andavano a gruppetti a ballare nelle balere improvvisate, regolarmente mascherate e, protette dall’anonimato garantito dai lunghi “dòmini”, che nulla lasciavano vedere, davano libero sfogo ai loro desideri di libertà e di piacere. Passato quel breve periodo, era impensabile poterle avvicinare!

Quegli anni per me trascorsero sereni, anche se faticosi. Mi alzavo ogni mattino alle cinque per prendere il treno per Catania e ne ritornavo alle 16,00, quando già il sole tramontava. Ricordo ancora il numero dei treni: il 4900  che partiva intorno alle 3,00 da Caltagirone per Catania ed il 4901 che partiva da Catania intorno alle 15,00.

Erano entrambi composti da due vetture del tipo “cento porte”, un bagagliaio ed una locomotiva a vapore del gruppo 480, adatta  per i tratti in salita, la cui pendenza era notevole da Scordia a Militello. Molte volte i posti a sedere non bastavano e bisognava restare in piedi lungo il viaggio.

I due treni erano stati istituiti per il servizio pendolare ed era frequentato dagli studenti di Militello e Scordia che giornalmente andavano a Catania e da operai che si muovevano per lavoro.

Ricordo in particolare, che da Caltagirone partiva già completo di viaggiatori, che trovavamo dormienti ed occupanti più di un posto  e non era facile farli spostare.  Erano dei rigattieri, che durante il giorno giravano per Caltagirone e dintorni acquistando uova, ricotta , formaggi e frutta , tutte cibarie che portavano a Catania rivendendole ai piccoli negozi. I viaggiatori di cui sto parlando, i rigattieri, sostanzialmente trovavano riposo dormendo sui treni . Partivano in nottata da Catania per Caltagirone, giravano l’intero giorno per le vie e le campagne viciniori per l’acquisto della merce ed in nottata , dopo una prima sosta nella sala d’attesa prendevano il treno 4900  per Catania. Giunti a Catania impiegavano la giornata a vendere la merce per poi in nottata riprendere il treno per Caltagirone.  

Anche questi ricordi sono legati alla mia permanenza a Scordia. Ho parlato della vita un po’ bruttina che conducevano i rigattieri pendolari, ma quella degli studenti non era di meno.: Ogni mattino partire all’alba e ritornare a casa quasi al tramonto   non era da poco. In particolare per me era piuttosto antipatico poiché l’alloggio assegnato a mio padre era sfornito di corrente elettrica e studiare per me significava usare il lume a petrolio fino a tarda sera.

Adesso non ho un’esatta cognizione della vita che si svolge giornalmente a Scordia, ma per quel poco che mi è stato dato di constatare, noto che poca differenza vi è rispetto a quella che si svolge nei quartieri cittadini di Catania.

Le comunicazioni con le altre località, compresa Catania sono di gran lunga migliorate essendosi sovrapposte alla linea ferroviaria, le li linee automobilistiche ed inoltre ho notato che la circolazione di automobili  non ha nulla da invidiare alle strade di Catania.

Ho notato pure che la cittadina è molto più aperta d’allora anche nei rapporti umani. Vedo che vi è stato un grande impulso all’attività edilizia ed alle iniziative culturali.  A parte delle restrizioni dovute alla pandemia in atto, i locali e le attività mi sembrano adeguati ad una vita moderna in passo con i tempi.

La stazione ferroviaria, che ha avuto una grande importanza nello sviluppo commerciale di Scordia per l’esportazione degli agrumi, il cui territorio e clima sono molto adatti a questo tipo di cultura introdotta sicuramente dagli Arabi, oggi ha perso questa sua prerogativa, avendo il trasporto su gomma favorito la velocizzazione nei trasporti di questi prodotti agricoli.

Ironia della sorte, oggi che le ferrovie sono più veloci per la elettrificazione del ramo ferroviario, gli agrumi vengono esportati con i TIR su strada.

Ciò è anche plausibile in quanto questi ultimi consentono i trasporti da porta a porta, che influiscono moltissimo nella percorrenza ai fini del raggiungimento della merce in tempi utili per i Grandi mercati del Nord.

A ciò bisogna aggiungere il perditempo del traghettamento dei carri FS a Messina, in assenza del tanto desiderato ponte.

Oggi la stazione è ridotta al ruolo di fermata non  presenziata, dove tutti i treni viaggiatori fermano, ma per pochi utenti. Molti pendolari si servono di automobili e linee stradali. Di treni merci nemmeno l’ombra.

Si prospetta un ritorno al pendolarismo ferroviario se si riesce a varare un programma di allacciamento della rete ferroviaria con quella metropolitana in fase di allestimento a Catania.

    Nonostante la carenza di comodità di allora, Scordia mi è rimasta nel cuore. Ricordo ancora i luoghi e soprattutto le persone che frequentavo di cui ricordo ancora i cognomi .

In verità, ancor prima di essere cittadino scordiense avevo un tenue rapporto con la cittadina, poiché un fratello e ben due sorelle di mio nonno materno vi abitavano. Li ho rivisti che erano ormai vedovi ed anziani. Zio Alfio era molto noto per  il suo impegno in occasione della festa del Patrono San Rocco.

Nonostante avesse sposato due vedove non aveva figli. Le due sorelle Peppina e Giovannina, sposati con due scordiensi avevano dei figli, dei quali alcuni vivono ancora a Scordia ed altri sono emigrati in Argentina.

Adesso questi miei vecchi zii riposano nel cimitero della cittadina. Purtroppo riposano pure al cimitero molti degli amici e delle persone che ho conosciuto.

Tra essi, lo stesso Parroco di San Giuseppe, Padre Maroncelli ed il fratello che era anche lui prete, Don Angelo, giudice della Sacra Rota: gli amici Pippo Liggieri, i due fratelli Giordano, Vito Gambera, Filippo Mercante, Lillo Zarbo, il sindaco di allora Rocco Pisasale ed altri ancora che si affollano nella memoria. I miei rapporti con gli scordiensi sono proseguiti anche dopo essere ritornato a Catania, dal momento che , entrato in ferrovia, nella qualità di Dirigente Unico e Capo Reparto Mov/to Linea, ho continuato ad avere rapporti con quanti di essi erano ferrovieri. 

Di molti ricordo non solo i nomi, ma anche i soprannomi! Inoltre, mia moglie per alcuni anni ha insegnato nelle scuole elementari della cittadina.

Oggi vivo lontano da Scordia, ma non tanto distante da poterla raggiungere in mezz’ora di macchina.

Mi riprometto sempre di andarvi di tanto in tanto per ricordare i periodi della mia gioventù, quando vivevo di sogni e del desiderio di evadere.

Purtroppo la pandemia ed anche un poco di poltroneria dovuta all’età limitano il mio desiderio.

Tuttavia non dimentico quel periodo della mia vita passato a Scordia, che è anche diventato una fonte della mia ispirazione letteraria. Ormai vivo di ricordi, belli o brutti che siano, ma Scordia mi è rimasta nel cuore.

    Ad organizzare le corse ippiche a Scordia fu proprio mio zio Alfio finché era in vita. Fu lui ad informarmi che quella dei cavalli era un’antica tradizione di Scordia, mai dimenticata. Mi parlò allora di una certa località detta Ambelia dove il cavallo era … di casa. Ormai quel locale, che fu un posto molto curato dai Barresi e dai Branciforte, ridotto ad una masseria di poco conto, languiva nella dimenticanza assoluta. Mi disse anche che i cavalli dei carabinieri venivano d’Ambelia, dove vi era un vero culto per questi quadrupedi, ma che con la guerra tutto era stato abbandonato all’incuria.

Mi parlò dei cavalli di San Fratello, d’origine siciliana che lì erano il fiore all’occhiello dell’allevamento ed anche degli asini, nonché degli incroci che si ottennevano, ossia, dei muli, molto adatti all’agricoltura e capaci di sostituirsi ai buoi nell’aratura dei campi. Allo stato attuale, miracolo dell’ingegno umano, Ambelia è risorta a nuova gloria.

I vecchi locali sono stati ristrutturati ed adibiti  allo studio del mondo equino dando luogo anche ad un museo e ad  una attrazione turistica di non poco conto.

Mi riprometto di visitare il posto quando questa pandemia sarà cessata..

 

 

 

 

Ricordando Sebastiano Ministeri di Scordia

 

   Carissimo Bastiano, debbo, innanzi tutto ringraziarti per l’invito alla presentazione del tuo libro “Secondo me” in data 28 Dicembre 2019 presso i locali dell’AVIS di Scordia.

    Un vero tuffo nel passato! Avrei voluto aggiungere, come testimonio diretto della tua personalità, il mio contributo d’affetto alle belle parole che i vari oratori hanno profuso nei tuoi confronti, ma non ho osato non avendo avuto modo di leggere prima il tuo libro.

    La paura di sproloquiare a vanvera senza aver letto e riflettuto sulle righe da te vergate e l’emozione che mi è salita alla gola, mi hanno impedito di intervenire.

Adesso che ho letto il tutto, mi accingo ad esternare il mio giudizio.

    L’atmosfera che si è creata nel salone dell’AVIS è stata una delle più belle e profondamente emotive, cui ho partecipato. Dei presenti, all’infuori di te e del mio ex collega Nino Gualdo, non ho avuto modo di conoscere, ma i cognomi (Centamore, Gambera, Barchitta, ecc, ecc.) hanno suscitato in me dei ricordi vivi che non possono essere dimenticati. Sicuramente si trattava dei discendenti dei nostri comuni coetanei.

     Noi due, per le varie circostanze che la vita ci ha offerto, abbiamo avuto modo di condividere le nostre prime esperienze giovanili a Scordia.

    Come tu sicuramente ricordi, abitavo al casello ferroviario del PL attiguo alla stazione FS di Scordia. Mio padre, reduce e fortunatamente restato vivo  dopo la guerra, venne assunto in ferrovia e dovette però lasciare Catania ed accettare di trasferirsi nella tua città. Erano gli anni a cavallo del 1950.

    Anche per me la vita non fu facile; primo di cinque figli, per andare alla scuola media ed al Liceo a Catania, mi alzavo alle cinque del mattino per prendere il treno (di cui ricordo il nome 4900) e ritornare la sera con l’altro 4901 intorno alle 16,00. Per fare i compiti di scuola dovevo usare il lume a petrolio, poiché l’alloggio fornito dalle FS era sfornito di elettricità.

   Ovviamente sono stato più fortunato di te, che nella maledetta guerra hai perso il padre e per un tozzo di pane, come tu dici, hai dovuto , a nove anni, andare a lavorare ed interrompere di andare a scuola.

    Quello, dunque che accomunava me, te ed i non dimenticati Pippo Liggieri, Nino Giordano, Nino Azzarello, Centamore, Castiglia, Meli ed altri che in questo momento sfuggono al mio ricordo, era il comune desiderio del riscatto della nostra vita che trovò un punto di riferimento nella parrocchia di San Giuseppe e nella persona del parroco Padre Maroncelli.

    Anche se non è stato ricordato, fu quest’ultimo ad inculcarci, oltre all’educazione cattolica, il seme dell’amore per l’arte e per la vita.

    Se ben ricordi fu lui, che in seno alle attività dell’Azione Cattolica, ci avviò alla Filodrammatica. Ricordo le recite presso il collegio del Convento e nei locali della parrocchia.

    Fu lui il nostro primo maestro di vita, che ci spinse sull’erta della risalita sociale. Allora era molto sentita la disparità tra le classi ed Egli, da buon educatore ed ottimo rappresentante della Chiesa Cattolica, ci guidò con sicurezza facendo di noi degli ottimi cittadini per il futuro.

     Non ti nascondo che anch’io, come te, ho sentito il forte squilibrio tra chi aveva forse troppo e chi nulla aveva. Voglio dire che anch’io guardai con un certo interesse verso quel PCI che ostacolava il percorso della DC, ma non cedetti alla lusinga di esserne coinvolto per un semplice motivo di metodo.

     Il PCI nell’evidenziare la disparità delle classi sociali in atto, poneva come soluzione il metodo marxista della lotta di classe senza quartiere e limite (la cosiddetta praxis). Proponeva la distruzione del potere capitalista e della relativa classe con la violenza e la rivoluzione, come quella bolscevica, per il trionfo della classe lavoratrice ed ottenere in tal modo la parità di tutti i cittadini di fronte allo stato, diretto da una sola persona. Per me questo significava ricadere in una forma simile al fascismo, che, tra l’altro, vigeva in URSS con Stalin.

    La DC ed il mondo cattolico prospettavano una soluzione più morbida che non poneva la violenza come metodo, ma l’amore verso il prossimo, la spinta a compenetrarsi tra le esigenze delle due classi, l’armonia tra capitale e lavoro, il giusto riconoscimento dei diritti del lavoratore nei confronti dell’imprenditore, la parità di diritti e doveri tra tutti i cittadini nei confronti di uno stato retto democraticamente e che escludesse l’assolutismo politico individuale.

    Per questi motivi non ho mai aderito al PCI, anzi l’ho ritenuto una piaga per l’umanità pari al Fascismo. Il vero socialismo era quello della religione cristiana, basato sull’amore e sulla reciproca comprensione e non sulla violenza. Del resto i fatti mi dettero ragione. Il PCI si smembrò e venne fuori il PSI di Nenni e poi il PSDI, tutti in disaccordo circa la formula iniziale della lotta di classe. Alla fine scomparve quasi del tutto con il compromesso storico voluto da Moro.

 

    Io so per certo, caro Bastiano, che la tua adesione al PCI fu del tutto formale e di protesta al lento percorso della ricostituzione dell’ordine sociale, ma in effetti, tu sei rimasto sempre nell’orbita dell’insegnamento del buon parroco Padre Maroncelli e dei dettati della Rerum Novarum di Pio XII.

    La prova evidente di quanto affermo è l’esempio della tua vita, dedicata all’amore per la vita per la cultura, per la famiglia e per la società. Nulla traspare dai tuoi elementi ed atti di convivenza sociale che possa assecondarsi a manifestazioni di violenza o di insofferenza sociale tracimante nell’illecito.

     Tu hai dato tutto te stesso al lavoro, al costante desiderio di migliorare te, la tua famiglia e la società intorno a te.

    Ti hanno chiamato maestro, pur avendo tu , come istruzione la terza elementare, ed hanno avuto ragione, poiché hai saputo proporti come simbolo  di comportamento del cittadino e come esempio da seguire.

     La tua grandezza non è nell’avere aderito al PCI, ma nell’aver voluto fare tutte quelle cose che hai pensato di fare e che le circostanze della vita te lo hanno impedito, nella bontà dei tuoi propositi, nella caparbia volontà di migliorare te stesso e la società e nell’essere riuscito ad imporre la tua personalità nei confronti di altri più fortunati, ma meno efficienti.

     A ben ragione, il tuo scagliarti contro personaggi politici inconsistenti, impreparati, vuoti e volti al proprio interesse personale ha il suo buon motivo di esistere. E’ di persone con il tuo cipiglio ed il tuo caparbio desiderio di emergere e migliorare la società che ha di bisogno l’Italia nel frangente attuale.

 

    Dopo essermi dilungato sulla fisionomia del personaggio che tu rappresenti, degno, sicuramente, come qualcuno ha detto, di meritare l’intestazione di una piazza o di una via di Scordia col tuo nome, voglio spendere alcune considerazioni sulla tua attività culturale, che si innesta con quella della tua vita.

    Indubbiamente l’attività teatrale ti ha dato una spinta nel tuo percorso culturale e la faccenda non mi ha stupito perché ho apprezzato queste tue qualità quando da ragazzi recitavamo nella filodrammatica di Padre Maroncelli a San Giuseppe. Io non avevo la tua stessa verve. Ero molto timido e l’apparire sul palcoscenico mi turbava molto. Tu avevi una padronanza della scena veramente superba.

    Quello che mi ha veramente stupito è stata la tua attività letterale, il tuo misurarti con un’arte che ha bisogno di un substrato cognitivo e di informazione non indifferente.  Ciò significa che hai molto letto, conosciuto ed appreso e che hai acquisito una forma mentis culturale che molti giovani di oggi non hanno, per il semplice motivo che non leggono ed apprendono notizie a sbalzo carpendole dal telefonino o dal computer, senza maturarne il significato.

    Tu hai letto e molti scrittori che neanche io mi sono mai sognato di leggere perché fuori dal mio interesse culturale, sono stati per te motivo di apprendimento e di riflessione.

   Il fatto che tu possa incappare in qualche errore grammaticale è del tutto spiegabile, comprensibile ed anche naturale per noi siciliani.

    Prendi atto che il nostro dialetto è una lingua al pari di quella italiana. Anzi secondo i glottologi la lingua italiana altro non è se non il nostro parlare siciliano che si è evoluto con il toscano di Dante. Ne consegue che quando noi siciliani scriviamo in italiano risentiamo il nostro vecchio modo di periodare. Devi sapere che, a scuola, nonostante ritenessi di scrivere bene in italiano, il mio professore di letteratura segnava in rosso alcuni tratti dei temi che generalmente vengono fatti in classe, con la dicitura “costrutto dialettale”. Per poter evitare questo giudizio ho dovuto fare i salti mortali a furia di leggere sempre.

     Adesso, che è tornato in auge il dialetto, per quanto mi sforzi, non mi riesce sempre farlo nei lavori cui mi dedico per hobby. Quindi, il tuo parlare parafrasando il siciliano è  … di moda! Non deve preoccuparti.

     Dai tuoi scritti, emerge pertanto uno stile semplice, sciolto e … veritiero, che dà pane al pane e vino al vino, senza tanti fronzoli e ricercatezze di termini.

     Mi piace il tuo ironizzare su alcuni aspetti della vita e … della morte! Su alcuni libri di poesia che ti ho lasciato, sia in dialetto che in italiano ne troverai riscontro. Come vedi, le fonti della nostra cultura di base, quella popolare, è identica.

    Anche io ho subìto il mio infarto, ma tanto tempo fa. Era il 1996, esattamente dopo circa otto mesi dalla quiescenza!  Sono passati 23 anni da allora ed io sono ancora qua! Quindi non preoccuparti! “Ammucca” pillole, segui le istruzioni del cardiologo e vedrai che andrà tutto bene.

    Io spero che in futuro ci sentiremo. Ormai, da pensionato, non inseguo più treni e faccio una vita più serena. Ti auguro un felice Anno Nuovo.

 

 

  

Le Pasquinate

 

    Parlar impunemente male di chi sta al potere, certamente, non era cosa del tutto usuale, come nei nostri giorni, che consentono apertamente l’uso della critica più sboccata e feroce.

In passato ne abbiamo avuti degli esempi eclatanti.

Il povero Ovidio, ai tempi di Roma Imperiale ne sa qualche cosa. Semplicemente per aver riportato nella sua opera ARS AMANDI, comportamenti licenziosi, a tutti noti, di Giulia, congiunta dell’imperatore Augusto, finì per essere spedito in esilio a Tomi, in Crimea.

Altro esempio è quello di Petronio  Arbitro, che per aver ridicolizzato l’acume artistico di Nerone, fu costretto a tagliarsi le vene.

Questa tendenza a punire “le male lingue” si protrasse nei secoli fino al punto di far nascere l’anonimato nel criticare il potere; laddove più forte era il potere, maggiormente si ricorreva all’anonimato.

Siccome, mai potere fu più forte di quello pontificio, fatto derivare direttamente da Dio attraverso il papa, mai la critica anonima fu più ampia e feroce a Roma che in altre località italiane ed al punto tale di far nascere la moda delle cosiddette “Pasquinate”.

Che cos’erano le “Pasquinate”? Semplicemente dei vezzi poetici, talvolta lascivi, di aperta critica ai comportamenti del papa e del clero, scritti su pezzi di carta fatti trovare addosso ad una statua, chiamata Pasquino”, che il popolo poteva leggere fino al momento che le autorità preposte non fossero costrette a toglierle.

Naturalmente, l’anonimo autore ed il lettore motivato, hanno fatto in modo che quasi tutte le pasquinate siano state tramandate ai posteri, evidenziando i difetti … del Regno di Dio, che, in verità era quello degli uomini al potere.

La moda delle pasquinate nacque per caso in occasione del rinvenimento di una statua, appunto, Pasquino, in seguito a degli scavi effettuati nel 1501 dal cardinale Oliviero Carafa intorno ad un palazzo degli Orsini.

Fu a questa statua che furono trovati appiccicati i primi scritti di satira nei confronti del papa e del clero.

Nonostante la solerte asportazione degli scritti non graditi, la moda dei libelli applicati alle statue si moltiplicò in un batter d’occhio.

Così nacquero i cosiddetti “compagni di strada di Pasquino,” nei punti più svariati di Roma, vere e proprie marmoree edicole di satira: Marforio, Babuino, Abate Luigi, Facchino ed anche una donna, Madama Lucrezia.

Si cercò in ogni modo di ostacolare e perseguire i responsabili di tali anonimi libelli, ma la moda continuò per tutto il 1500 ed al punto tale che nel successivo anno 1600, ci si abituò a quelle critiche, che diventarono quasi una indispensabile e gradita informazione di cronaca, a cui lo stesso Papa attingeva per misurare l’umore delle sue pecorelle.

Le pasquinate a Roma scomparvero del tutto, con la fine del potere temporale dei papi, quasi a sancire che quello pontificio non era più l’obiettivo per eccellenza, ma la satira aveva fatto il suo ingresso ufficiale nella cronaca.

La satira, ormai tollerata ed oggetto di discussioni popolari e salottieri, ha lasciato le storiche edicole di strada per seguire quelle più seguite, eloquenti e spregiudicate della carta stampata.

Non solo questo. Le Pasquinate, nate con lo scopo di danneggiare chi in quel momento fosse al potere, essendosi evolute in critiche satiriche scritte, hanno finito per diventare un modo di propaganda … positiva per il criticato.

Questo perché, a base della propaganda, politica soprattutto, è invalso il principio di far parlare di sé in ogni caso, sia in senso positivo che negativo, in quanto, in ogni caso, si suscita curiosità ed interesse.

Oggi, in fase di campagne elettorali, mi chiedo, ai fini della resa propagandistica se parlar male degli avversari sia più utile al criticato od al criticante.

Forse sarebbe meglio illustrare i propri programmi, piuttosto che parlare dei difetti degli altri.

Purtroppo questo concetto non è stato sufficientemente recepito e si continua ad insultare l’avversario politico elevandone la pubblicità che lo rende sempre più famoso ed accetto al popolo assetato di novità.

 

 

 

MASANIELLO

 

L’attuale clima di cambiamento che sta scuotendo l’Italia, mi ha fatto ricordare la storia di un “cambiamento”, avvenuto a metà dell’anno mille e seicento, quando ancora non vi era l’Unità d’Italia e il meridione dell’Italia era un vicereame del Regno Spagnolo. Quindi questo non è un racconto di fantasia, ma un fatto storico, realmente avvenuto.

Il 16 Luglio del 1647 tre o quattro capi-popolo della rivolta contro il governo vicereale spagnolo di Napoli, armati di archibugi, si portarono nelle prigioni della città e vi prelevarono il Capitano Generale del fedelissimo popolo napoletano, e seduta stante lo uccisero sparandogli a bruciapelo e decapitandolo per mostrare al popolo l’avvenuta esecuzione.

Il personaggio in questione altri non era che Tommaso Aniello d’Amalfi, noto con il nomignolo di Masaniello, nato nel 1620 forse ad Amalfi o in altro luogo, comunque del vicereame spagnolo di Napoli. Figlio di Francesco d’Amalfi, non certo di famiglia abbiente, sbarcava il lunario esercitando il mestiere di pescatore e commercializzando personalmente il frutto del suo lavoro nel grande mercato di Napoli.

In sostanza era contemporaneamente pescatore e rigattiere.

A quei tempi le cose non andavano molto bene nell’impero spagnolo a causa degli eventi bellici della guerra dei trent’anni, della secessione del Portogallo, la sempre incipiente insurrezione catalana e non ultima quella del 1646 in Sicilia.

Per i motivi sopra esposti erano state applicate in tutto il vicereame di Napoli delle esose gabelle al fine di mantenere le milizie necessarie per affrontare i fatti bellici incipienti e come suole sempre avvenire, tali gabelle venivano applicate ai prodotti di prima necessita, che sono quelli maggiormente ampi e quindi di sicura redditività fiscale.

La conseguenza fu la ribellione popolare a Napoli, che aveva l’intento non di ribellarsi al re di Spagna, ma al malgoverno del Vicere, accusato di taglieggiare il popolo per i suoi loschi affari personali.

Al grido di “Viva ‘o re ‘e Napule, mora il malgoverno”, Masaniello si mise a capo della ribellione e con cipiglio feroce, costrinse il viceré spagnolo a firmare il 13 Luglio del 1646 le riforme imposte da lui, che prevedevano la drastica riduzione delle gabelle.

Egli, fattosi nominare Capitano generale del fedelissimo popolo napoletano, colpito dall’improvviso potere gestionale, incominciò a dare segni di squilibrio mentale, arringando il popolo con veemenza e lanciando anche in mezzo alla folla con impeto il suo coltello, abbandonandosi a plateali manifestazioni di superiorità fisica con galoppate forsennate per le campagne del napoletano, tuffi notturni nel mare, apparizioni comiziali in nudità blaterando di voler trasformare il mercato di Napoli in un ampio porto da collegare con un enorme ponte alla Spagna. Non limitandosi a tali manifestazioni, ordinò l’immediata e sommaria decapitazione in piazza dei maggiori oppositori alla sua volontà, dichiarati nemici e traditori del fedelissimo popolo napoletano.

A causa di queste sue manifestazioni, gli stessi compagni di cordata da lui guidati, alla fine di un comizio in cui ampollosamente affermava: “Tu ti ricordi, popolo mio, com’eri ridotto?”, lo arrestarono e il giorno successivo lo eliminarono, come ho sopra detto, a colpi d’archibugio e decapitandolo. La sua testa venne presentata al Viceré che li premiò.

Infatti all’indomani della sua morte i congiurati si divisero ampi spazi di potere del vicereame e le gabelle ritornarono ad essere come prima.

Alla fine della tempesta Masaniello, tutto ritornò come prima con la semplice sostituzione della vecchia casta di amministratori con una nuova, più fresca e vigorosa.

Nulla di nuovo sotto il sole: la storia si ripete.

Anche se diversi sono i personaggi e le circostanze. La teoria dei corsi e ricorsi storici di Gian Battista Vigo è sempre valida. I contestatori di ieri sono gli oppressori di domani e qualcuno ci rimette pure la testa, come avvenne nel 1789 in Francia nel nome di liberté, fraternité, egalité e pure in Russia con la rivoluzione dei Soviet.

 

 

 

  

 

DESTRA, SINISTRA O COSA?

 

Io voto Destra. No io voto Sinistra. No io voto Centro. No, io voto contro di loro. No, io non voto.

Queste sono le affermazioni, più o meno accese, dei giorni di campagna elettorale, dettate più che altro, dalla simpatia od antipatia nei confronti di questo o quel candidato “premier”.

Ma se si chiede al singolo il vero significato di queste indicazioni in campo politico, moltissimi non sanno rispondere perché non hanno le idee chiare, fuorviati da una propaganda purtroppo ingannevole.

Ciò posto, vediamo un po’ di vedere il significato effettivo di Destra, Sinistra e Centro.

Storicamente, gli appellativi di Destra e Sinistra nacquero in Italia subito dopo la formazione del primo parlamento del Regno d’Italia ed ebbero origine dalla posizione occupata nell’emiciclo destro o sinistro di due gruppi contrapposti di parlamentari.

Ma cosa contraddistingueva i due gruppi? Quale era la diversità d’intenti?

Cessato l’assolutismo monarchico, con l’entrata in funzione della Costituzione, spettava al parlamento stabilire le regole di governabilità, che, risolto il problema dell’Unità del paese, vertevano sulla cosiddetta “questione sociale”.

Erano in atto due tendenze di tipo economico, secondo le teorie filosofiche del tempo: il liberalismo e lo statalismo

Il gruppo dei parlamentari che sedeva a destra seguiva la teoria del liberalismo; l’altro gruppo sedeva a sinistra.

Era fuor di dubbio che le idee di libertà, su cui si basava il liberalismo economico, avevano contribuito a consentire l’unità del Regno, però nell’ambito della nazione cozzavano con i diversi strati sociali provenienti dai vecchi stati d’origine.

Fu giocoforza, ad un certo punto, che la destra, venisse sostituita nel governo dalla sinistra, più attenta a voler risolvere i problemi degli strati meno abbienti.

Questo, per il semplice motivo che il liberalismo economico, per la sua natura libertaria, era teso ad agevolare chi già avesse una ricchezza. Ovviamente lo statalismo presupponeva la gestione economica in mano allo Stato.

Pertanto abbiamo chiarito che Destra significa liberalismo nell’economia sociale e Sinistra imposizione dello Stato nell’economia sociale.

Entrambi i due sistemi hanno dei pregi e dei difetti, che sono alla base del contendere elettorale di ogni tempo e di ogni nazione, poiché sfociano nel campo politico caratterizzando il primo in un individualismo esasperato ed il secondo in un pluralismo dispersivo.

Poiché la contrapposizione assoluta dei due sistemi non può sfociare se non nella dittatura, sempre deprecabile, di uno dei due sistemi, le successive teorie economiche, tra le quali quella dell’utilitarismo di Bentham, hanno introdotto un sistema misto in cui liberalismo e statalismo si fondono in un unico sistema, dove lo Stato, pur garantendo la libertà nel campo economico, interviene per indirizzarlo verso determinati obiettivi sociali. Questo nuovo sistema, proprio perché cerca di limitare le distanze, viene battezzato Centro.

Ecco, quindi, che le classiche Destra e Sinistra, diventano Centro-destra e Centro-sinistra, che altro non sono che le prime … annacquate.

Vediamo un po’ l’evolversi di questi sistemi in Italia.

Come ho già detto, la Destra storica ebbe la funzione, bene o male applicata, di formare l’unità d’Italia. Successivamente la Sinistra, cercò di equalizzare gli Italiani, senza riuscirvi. Tant’è che subentrò la dittatura fascista, la quale, a suo modo, cercò di dare il suo contributo alla socialità incappando nella disavventura militare della seconda guerra mondiale

Dalla ricostruzione del nuovo stato repubblicano, emerse il prevalere della teoria del Centro, permeata dalle idee cristiane della Chiesa Cattolica e fu il prevalere del partito con lo scudo crociato: la Democrazia Cristiana, che si opponeva al liberalismo corporativo fascista ed allo statalismo impositivo marxista, cercando di creare un equilibrio purtroppo reso vano dal proliferare degli estremismi.

In questa attuale fase, abbiamo due gruppi ben definiti con tendenze opposte nel campo economico : il Centro-destra ed il Centro-sinistra, purtroppo, con sfaccettature interne più o meno evidenti.

A questi due Gruppi si è contrapposto un terzo Gruppo, di scontenti degli altri due, sulla base di fattori contingenti che ne hanno evidenziato i limiti, soprattutto nella conduzione dell’economia e nell’evolversi della situazione internazionale ed europea.

Quest’ultimo gruppo, non avendo alla base alcuna teoria economica alternativa e basata solamente sulla contestazione, cerca di racimolare dai due precedenti gruppi elementi validi per sostenere un suo programma, che, purtroppo, non risulta chiaro ed il più delle volte rappresenta delle aspirazioni e soluzioni che mi sembra sia difficile poter attuare, alla luce degli attuali dettami costituzionali.

E’ da dire che questo terzo Gruppo, principalmente, fonda la sua contestazione sullo stato di corruzione al livello politico che investe i nostri parlamentari, sia di destra che di sinistra, tirando in ballo anche il cosiddetto “sovranismo popolare”.  

A mio avviso, questo costituisce un motivo non tanto valido, poiché la corruzione non si annida nel tipo di organizzazione partitica o politica, ma nei singoli individui . Sicché non si può ipotecare, come si vuol fare credere, che gli individui di questo Gruppo saranno più o meno corrotti dopo un eventuale esperienza di governo.

La questione morale suscita consensi, ma non è alla base delle scelte economiche. Naturalmente i corrotti vanno esclusi dalle candidature, ma non i partiti di provenienza. Combatterla non basta senza un supporto organico, scientifico ed innovativo.

Penso di aver fatto cosa gradita ed utile nell’aver chiarito determinati concetti di quanti si apprestano ad andare a votare.

Cosa, quest’ultima, necessaria, per poter indicare al parlamento, dopo, quale tendenza economica seguire, non esclusa quella che propone il terzo gruppo, per quanto, a mio avviso, non sufficientemente matura ed incerta per la sua natura reazionaria e contraddittoria.

 

 

 

 

MAROSTICA

 

Nella provincia di Vicenza, nei pressi di Bassano del Grappa, a ridosso di un monte dai contorni piuttosto romantici e limitato a valle dal corso di un fiume torrentizio  di modesta portata, vi è una cittadina che sa di antico e ricorda un poco i fasti della Repubblica di Venezia. E’ Marostica. Un tempo un borgo tra i tanti sorti in Italia fin dai tempi più antichi e di cui difficilmente è possibile definirne l’origine. Infatti la posizione geografica della cittadina lascia pensare che essa venisse fondata in tempi remoti da aborigeni del luogo e che nei secoli abbia subito l’incedere di civiltà diverse fino ad approdare ad una fortezza fedelissima alla repubblica di Venezia, come testimonia il leone rampante in evidenza a perenne simbolo e monumento. Un’altra caratteristica che lega Marostica alla Repubblica di Venezia è anche il culto del gioco degli scacchi che ha assunto un aspetto spettacolare e addirittura di culto. Sicuramente questo gioco, d’origine orientale, è stato importato in Italia in seguito alla famosa via della seta, instaurata dalla Repubblica di San Marco  per i suoi rapporti commerciali con l’Asia ed in particolare con la Cina, di cui Marco Polo descrive usi, costumi ed anche abitudini. Altri dicono che il gioco degli scacchi sia stato introdotto in Italia dagli Arabi, non molto inclini alle violenze guerresche e proprio non necessarie. Proprio a Marostica esiste una celebre piazza, denominata “Piazza degli Scacchi”, frutto di questo culto cittadino. Codesta piazza, che sorge nell’antico castello, sede del Governatorato di allora altro non è che una enorme scacchiera in marmo bianco e nero, che si presta ad un uso del gioco con dei figuranti umani. Cosa quest’ultima che avviene a settembre di tutti gli anni pari a partire dal 1950. In questo periodo viene giocata con figuranti umani, rappresentanti i vai pezzi di una partita agli scacchi. I pezzi si muovono su ordine dei due contendenti espresso in dialetto veneto. Ovviamente le mosse sono studiate in modo che la partita si esaurisca nel giro di una mezz’ora e semplicemente per esporre i vari “pezzi” umani nei tipici costumi dell’anno 1450   D C. – Sostanzialmente è una sfilata di costumi tipici per ricordare un episodio avvenuto in Marostica intorno all’anno 1454; anno più, anno  meno, non essendo certo il suo accadimento.

La leggenda vuole che a quell’epoca il castellano e Signore di Marostica, Taddeo Parisio, avesse due figlie:: una, la minore di nome Lionora, bellissima ed un’altra più grande Oldrada, meno bella, entrambe da marito e che due illustri rampolli della jet-society di allora,  Vieri da Vallonara e Rinaldo D’Angorano, si innamorassero ovviamente della più bella ed avvenente. Come era nel costume a quei tempi in simili circostanze, i due giovani uomini decisero di invocare la volontà di Dio, ricorrendo ad un duello che eliminasse uno dei due. La notizia di questa singolar tenzone dispiacque non poco a Taddeo Parisio, il quale aveva pari stima dei due duellanti e non gradiva per niente che uno dei due andasse a sicura morte. Pertanto, decise che avrebbe concesso la mano di Lionora a colui il quale avesse vinto il duello non cruento tra i due, da svolgersi nell’incontro di una partita al nobile gioco degli Scacchi, offrendo anche in sposa al perdente l’altra figlia Oldrada. La partita fu vinta dal Vieri di Vallonara, tra l’altro già amato da Lionora, sicché tutti rimasero contenti e felici parenti con la soddisfazione anche del popolo che assistette alla storica partita, giocata nella piazza addobbata a scacchiera, con personaggi umani rappresentanti i pezzi  che si muovevano in relazione agli ordini dei due contendenti. Fu intorno al 1920 circa, che sotto la spinta di superare gli orrori della prima guerra mondiale, qualcuno ebbe l’idea di ricordare in modo fastoso questo singolare duello da svolgersi in Piazza degli Scacchi con figuranti dell’epoca riconducibili ai pezzi del gioco. Pertanto vennero allestiti circa 550 figuranti in costume dell’epoca che rappresentavano i partecipanti alla battaglia incruenta ma realisticamente ricostruita. I pezzi-umani sulla scacchiera si muovevano secondo gli ordini impartiti in dialetto antico veneto. La partita era preceduta dalla sfilata dei figuranti all’insegna dei gonfaloni distinti rigorosamente in bianchi e neri dando luogo ad uno spettacolo che complessivamente era di circa due ore, durante le quali si riviveva l’atmosfera degli atavici tempi dell’antica Repubblica di Venezia. La prima rappresentazione ebbe un successo enorme per cui venne ripetuta due anni dopo e si decise inoltre di ripeterla ogni due anni, assumendo l’aspetto di una rappresentazione storica del tempo che fu e che ha portato la cittadina di Marostica sulla ribalta dei borghi storici, fonte inesauribile di cultura e spettacolo d’alto livello turistico.

Il 13,14 e 15 Settembre dell’anno 2020, per la prima volta a Marostica l’evento previsto ogni due anni  pari, non ha avuto luogo per merito o meglio per demerito della pandemia del Covid 19.  Esso è stato spostato negli identici giorni di Settembre del 2021 ed al momento in cui scrivo non sembra ancora certo che non venga ulteriormente postergato, creando un buco nella tradizione ormai consolidata. Infatti non sembra abbastanza chiaro se la pandemia in atto , per quelle date, sia del tutto superata. Mi sembra abbastanza superfluo sottolineare l’enorme danno che ne deriva per l’attività turistica e culturale della cittadina, dal momento che intorno a questo evento ha costruito una infinità di iniziative parallele, quali il museo dei personaggi viventi degli Scacchi, l’elezione periodica di Lionora  e Oldrada, nonché le altre attività  alberghiere e turistiche.   

E’ dunque divenuta, nonostante la temporanea stasi della pandemia del covid 19, la piazza a scacchi di Marostica,  un simbolo di serena convivenza, dove le opposte passioni trovano la soluzione in un pacifico ed incruento scontro. Tuttavia è da dire che quella piazza nel corso dei secoli è stata teatro di violenze, uccisioni, stragi, guerre combattute con le armi in mano, efferatezze di uomini violenti e forse anche sede di patiboli legalmente approvati, nonché ingiustizie sociali legate alle cattive dittature del momento.

Molto probabilmente la località, ancor prima di essere abitata dagli uomini, fu frequentata da branchi di lupi provenienti dall’altopiano di Asiago alla ricerca di prede che andavano a dissetarsi al corso del torrente Longhella. A tal proposito, è avvenuto pure che qualche lupo di recente, come riferito da Radio Eco Vicentino , sia stato visto svicolare lungo la piazza ghiacciata di Marostica e nelle sue immediate vicinanze  alla ricerca forse di cibo o forse attratto da quell’occhieggiare della scacchiera in bianco e nero. In verità non è certa l’esistenza del lupo sull’altopiano di Asiago. Inoltre, pare che la stessa Marostica  sia stata così chiamata perché dette asilo alle milizie di Mario ai tempi del suo scontro con Silla, anche se il termine si presta ad altre radici letterarie. Ciò fa presupporre che gli antichi Romani dettero luogo a conquiste guerresche di quei luoghi, che videro successivamente, anche lo scontro di violente forze della loro politica interna. La presenza in quei luoghi degli antichi Romani, presuppone pure che essi siano stati  anche teatro degli scontri con i barbari in fase di conquista dei loro territori. A noi giungono anche i clamori più recenti degli scontri in quei luoghi della Lega di Cambrai, della Santa Lega, della conquista napoleonica, della dominazione asburgica, veneta ed italiana e, non ultimi, quelli delle guerre mondiali, che tanto sangue hanno visto scorrere in quella parte d’Italia, sempre ambita da opposte fazioni.  Tutti questi fatti trascorsi hanno pure dato luogo ad attribuire un alone esoterico al territorio sintetizzato in leggende più o meno conosciute e raccontate dai più creduloni. Si racconta del lupo che danza nelle notti d’inverno sulla scacchiera ghiacciata ed urla alla luna il suo disappunto e tutti giurano di averlo visto scomparire improvvisamente al soffiare del vento. Si racconta pure che le streghe una volta a l’anno si diano convegno sulla piazza per renderla sempre pulita, all’insaputa dei cittadini. Per questo motivo essa è sempre pulita, linda e luccicante, poiché le scope delle streghe hanno il potere d’intervenire tempestivamente e, se occorre,  in autonomia per la durata  di tutto l’anno. Si racconta pure che il fantasma di Ezzellino , il tiranno, ex castellano inviso al popolo, appaia di tanto in tanto per annunciare disastri ed urlare anatemi. Sembra che egli viva in un luogo imprecisato dell’altopiano di Asiago e si diverta a rubare  i pezzi dei  personaggi rappresentati nell’ultimo scontro scacchistico biennale allo scopo di farne una collezione privata. Per questo motivo  ogni volta qualcuno di questi personaggi scompare senza alcun avviso. Si dice  che l’uomo in questione non cesserà la sua opera nefasta fino a quando non avrà catturato la regina degli scacchi più bella di quante l’hanno rappresentata nel corso degli anni. In verità qualcuno scompare veramente per il semplice fatto che … muore. Sono certo che qualcuno avrà trovato modo di tirar fuori dal cilindro qualche strana  storia relativa alla pandemia del covid 19, inventando mirabolanti imprese di esseri soprannaturali sbarcati nella piazza a scacchi.

                     

 

 

QUALCOSA D'INNATURALE                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                           

In un assolato giorno dell’estate, un uomo  trasformato in  un  nerboruto gigante georgico, era  intento a tosare il prato del suo piccolo giardino, un pugno di terra incastrato  nel tufo , ma che per lui valeva moltissimo, come se si trattasse d’un fazzoletto pregiato od un tappeto persiano.  Si sentiva come un guerriero sulla biga mentre  le nuvole lasciavano il posto alla luce estiva  e scorrazzava  in lungo ed in largo spingendo il tosa-erba sul prato e sulle stoppie con la stessa eleganza di una slitta sulle nevi immacolate. Costeggiava tutto intorno  alle isolette di tufo  che avrebbero sicuramente ostacolato la vista a chiunque ma non a lui , che riusciva a vedere il biancheggiare al sole dei  tratti di tufo  sparsi  come perle  d’una collana sgangherata  e snocciolata:  il resto si eclissava dietro la dirompente massa di verde.

Quel giorno alcune persone fecero capolino attraverso la cancellata sopra il muro, costellata in parte dalle foglie della pianta rampicante dai fiori gialli, ma nessuno si fermò a guardare; solamente una folta  chioma, ricciuta e scomposta, si affacciò alla sua vista. Si poteva notare, nell’accostarsi, l’andatura dinoccolata ed elegante di una  donna che camminava lentamente e sinuosamente nel suo costume estivo e come una  modella, studiando i passi  e le movenze, si fermava a guardare. Nessun sorriso, nessun movimento della guancia. Uno sguardo solamente, freddo, noncurante ma curioso.  L’uomo l’immaginò vanitosa, appariscente, con gli occhiali sollevati sulla fronte riflettenti il sole e nel suo ancheggiare composto e studiato. Lei  seguì con lo sguardo il suo scivolare sull’erba attento ed intensamente costante  e iniziò a dondolare la testa come a voler imitare   il movimento  della scena, e un velato sorriso apparve sulla sua bocca. Doveva essere una di quelle creature curiose che attratta dalla sua figura, pur nel procedere verso il mare e la calura estiva, dimentica per un attimo delle sue necessità, si era fermata interessandosi di qualcosa che  era alquanto lontana dalla  motivazione della sua presenza. Si fermò quanto bastasse per vedere, osservò, dondolò appena la testa, quanto bastò per accennare d’aver capito, ma non si scompose, si riassettò i capelli leggermente scomposti dalla brezza marina e scomparve  e  non la  si  vide più per tutto il giorno.

 L’uomo che viveva ormai da tempo in una specie di volontario esilio nella sua casa a mare, da quando era in pensione, aveva iniziato da principio e quasi con diletto e perdere l’abitudine di frequentare la città. Preferiva vivere da solo, lì, al mare, occupandosi del suo giardino, che per quanto piccolo, aveva le sue piccole  necessità.

Solamente una volta la settimana, sistematicamente, si metteva in macchina e provvedeva a comprare le cose necessarie al suo vivere solitario, sia d’estate che d’inverno.  La sua vita si svolgeva ormai in maniera sistematica . Ogni mattina si alzava, provvedeva alla pulizia personale, riassettava la casa, indi, se vi era bel tempo, si dedicava al giardinaggio oppure andava giù sugli scogli a pescare. In inverno si fermava invece a casa a leggere, dipingere, dormire, guardare la televisione e nulla più. Non sentiva il bisogno di parlare con alcuno e godeva della solitudine, che gli dava la possibilità di pensare a niente. In estate l’unica variante era quella della solita chioma ricciuta di quella donna in costume, che si fermava a guardare un poco il suo trafficare in giardino, che lo faceva un poco sognare, ma non osava stringere con lei alcun rapporto. Anzi il solo pensare di poter stringere con lei una relazione lo turbava intensamente. Specie d’inverno, godeva soltanto della vista dei passeri e delle tortore che venivano a visitare il suo giardino alla ricerca di semi o di briciole di cibo da lui lasciate fuori dalla porta, oppure osservava  i due gatti randagi avvicinarsi alla porta della casa in attesa che  portasse loro qualcosa da mangiare. Viveva da solo e non gli mancavano la frenesia tipica della città in cui gli era capitato di vivere, né le relazioni sociali da dover necessariamente intrecciare per non essere considerato un uomo strambo. Il suo vivere era fatto di piccoli gesti, di abitudini che si ripetevano uguali nel tempo e nello spazio angusto di quella sua abitazione  a mare con giardino annesso. Al mattino, dopo aver fatto la doccia, rimetteva i vestiti  e poi faceva colazione con fette biscottate e marmellata di fragole, faceva un giro per il piccolo giardino per vedere che tutto fosse al suo posto, indi rientrava per dedicarsi , quando occorreva, alla pulizia della casa. In quella casa si sentiva come un re nella sua reggia. Tutto era conservato con cura e tutte le volte che prendesse qualcosa per le sue necessità, subito dopo averla usata la rimetteva al suo posto. Ogni suo gesto era sempre misurato e uguale a quello del giorno prima. Una volta a settimana ordinava via telefono l’occorrente per quella  successiva, comprava all’incirca sempre gli stessi prodotti che gli venivano consegnati dal fidato garzone alla medesima ora del solito giorno. Tra gli alimenti, il suo preferito era senza ombra di dubbio la  braciola di vitello, che si faceva recapitare con regolarità  dallo stesso  macellaio del super mercato. Sempre più raramente usava la sua macchina per queste incombenze esterne.

Dopo pranzo si appollaiava sulla  sdraio ed era solito osservare tutto ciò che il muricciolo, la siepe e la cancellata gli permettessero di vedere: la facciata della villetta dirimpettaia, un pezzo di strada asfaltata sulla quale  di tanto in tanto appariva qualche macchina,  se non la solita  donna dalla folta capigliatura che metodicamente in  estate percorreva il solito marciapiede con il solito portamento.

Passarono molti anni, le lunghe estati solari succedettero ad altrettanti lunghi inverni freddi; la Tv , cui ormai era sistematicamente legato aveva più volte annunciato che il governo era caduto, che ne era successo un altro, ma il tram-tram della sua vita era rimasto sempre lo stesso.  Si accorse pure che era avvenuta la moltiplicazione dei gatti randagi e che anche gli alberi del suo giardino erano cresciuti ed inoltre che l’umidità aveva provocato lo sfaldamento dell’intonaco e che qualche mattone cominciava ad apparire nel suo primordiale colore rosso, ma lui non si scompose , né cambiò per nessun motivo il suo stile di vita.

Improvvisamente, un’estate si accorse che la donna dalla capigliatura bionda e scomposta, solita sbirciare il suo operato dalla cancellata, aveva i capelli bianchi e non vestiva più il solito costumino succinto, ma una veste nera tipica delle vecchie che un tempo, aveva visto nel rione della sua città natale. Ne rimase sconvolto e lo assalì una frenesia spasmodica di cambiar vita. Si guardò  per la prima volta allo specchio del comò e notò che i suoi capelli erano diventati bianchi, che gli occhi gli si erano interrati sotto le ciglia e le guance erano diventate grintose. Non si riconobbe e per la prima volta ebbe paura di sé. Si sentì diverso, perso, inutile e vuoto di tutte le cose cui aveva rinunziato e lo avevano reso felice.    Non sopportava più la quiete che lo circondava. Gli sembrava di essere precipitato nel fondo del mare, dove i pesci erano fermi, statici, senza vita e di essere lui stesso una grossa pietra caduta dal cielo senza la speranza di emergere in superficie. Decise di cambiare vita, aprì l’armadio, tirò fuori i vestiti che aveva smesso di mettere già da parecchi anni, li indossò, ma non si trovò a suo agio. Tuttavia cercò di adattarsi in qualche modo agli abiti. Gli sembrò di essere un burattino vestito male. Non parliamo delle scarpe che nonostante fossero ancora lucide e belle non riusciva a calzarle. Alla fine riuscì ad agghindarsi alla meno peggio ed uscì. Sentiva il bisogno di tuffarsi tra la gente, sentire qualcuno parlare, fare delle cose strane, mai fatte   e parlare, dire, esprimersi, ascoltare, dialogare.  Degnò appena di uno sguardo la vecchia macchina, ferma ed ormai non in grado di essere usata, ma non si scoraggiò.   Uscì in strada. Si avviò a piedi lungo il marciapiede verso il centro del borgo, dove gli sembrò di scorgere un assembramento di gente intenta a discutere a camminare ed a occuparsi di cose che ormai lui aveva trascurato già da tempo. Nella piazzetta vi era l’edicola che mostrava delle riviste con  facce che risultavano a lui del tutto nuove e sconosciute. Anche la gente gli sembrò vestita diversa da lui o forse era lui ad essere diversamente vestito dagli altri. Non capì bene. Si sentì osservato, studiato, esaminato ed anche giudicato. Gli sembrava di essere una formica rossa tra mille nere, un diverso, uno straniero, un vero pesce fuori dall’acqua. Si scoraggiò un poco, ma trovò normale che le cose fossero cambiate, mentre se ne era stato a casa nel suo splendido isolamento. Mi abituerò ai cambiamenti pensò e si avviò verso la stazione ferroviaria per prendere il treno ed andare in città. Stranamente la trovò deserta. Gli uffici della stazione erano chiusi, sbarrati, La pensilina era sempre lì, al suo posto ed anche i binari mostravano la loro lucidatura dorsale, segno che i treni vi passavano sopra. Anzi sentì l’altoparlante annunziare il transito di un treno, mentre guardava perplesso una macchinetta al muro con incorporata una  tastiera. Da quanto poté capire, digitando i tasti delle lettere per la destinazione di un viaggio ed i tasti dei numeri per indicare i dati della carta di credito, era possibile acquistare il biglietto per viaggiare. Era necessario introdurre in una feritoia la carta di credito.  Carta di credito?! Ma cos’era? Non la conosceva. Non sapeva cosa fosse. In tasca aveva della moneta, l’euro che aveva sostituito la lira. Decise di salire comunque sul treno. Sicuramente avrebbe pagato il biglietto al personale, con il sovrapprezzo, come in effetti avvenne. Ma dov’era finito il capostazione? Quello con il berretto rosso che dava il via? Che cosa era successo? Quando arrivò finalmente il suo treno, all’orario  indicato nella locandina appesa al muro e come annunciato dall’altoparlante, le porte della vettura si aprirono automaticamente  e dopo che si richiusero il treno partì. Quando il convoglio giunse in città, le porte della vettura si aprirono ed egli ne uscì insieme ad altri viaggiatori, mentre altri ne salivano da un’altra porta. Anche qui la stazione era deserta. Gli uffici chiusi, al muro le indicazioni, la solita macchinetta e l’altoparlante … Di ferrovieri in giro, nemmeno l’ombra.

Uscito fuori dalla stazione, rimase sbalordito. Vide intorno a sé un mondo diverso da quello che aveva lasciato. Sentì un frastuono che non aveva sentito mai. Delle macchine sfrecciavano ed i clacson avevano un bel da fare per la gente che accalcava la strada. I vestiti della gente erano stranamente diversi dai suoi. La maggior parte delle donne non indossava più la classica sottana di sempre. Anzi sembravano essere scomparse del tutto le sottane, sostituite da pantaloni più o meno aderenti. Il cappello che aveva lui in testa gli sembrò fosse diventato una rarità. Infatti gli uomini o non avevano niente sul capo, oppure quelli che ne avevano qualcuno, esso era molto diverso dal suo. Improvvisamente vide anche una calca di gente che schiamazzava ed agitava dei cartelli con delle scritte  volgari. Sentì qualcuno dire che stavano protestando. Tutti parlavano, anzi vociavano, i rumori dei motori andavano alle stelle e per strada non si respirava nemmeno bene per gli scarichi delle macchine. Una vera bolgia si presentò ai suoi occhi. Si sentì smarrito, perso, ma non si perse d’animo. Doveva intanto trovare un posto dove andare a mangiare qualcosa. Lo trovò non molto facilmente. A causa dei suoi vestiti veniva allontanato perché considerato un mendicante. Alla fine trovò un’osteria disposta ad offrirgli della salsiccia arrostita condita con della verdura cotta ed un panino, insieme ad un bicchiere di vino. Dopo aver mangiato, ritornò sulla strada. Non sapeva cosa fare … Era combattuto tra l’idea di ritornare in stazione, prendere il treno e ritornare al suo giardinetto oppure trovare un alloggio per la notte e più in là sistemarsi in città. Non sapeva proprio decidere cosa fare … Camminando s’imbatté in una piazza con dei sedili in ferro che bordeggiavano delle aiuole con degli alberi secolari. Tra sé e sé penso: almeno gli alberi non sono cambiati in città! In preda al suo dilemma si sedette. Era stanco … Sentì gli occhi appesantirsi ed un fortissimo dolore al petto che gli impediva anche di gridare. Chiuse gli occhi, strinse le mascelle e rimase immobile.  Pensò ad un dolore passeggero, si sarebbe ripreso sicuramente dopo un salutare riposo e restò con gli occhi  chiusi, immobile, per soffrire meno.

Il giorno successivo i giornali cittadini riportarono la notizia che era stato trovato morto nella piazza principale  un uomo anziano colpito da un infarto fulminante. Dai tipi di vestiti indossati pare dovesse trattarsi di un mendicante e che erano in corso degli accertamenti da parte delle autorità per stabilire le vere cause della morte, nonché l’identità del soggetto … 

     

 

 

 

LA NASCITA DELL’UNIONE EX ALLIEVI DON BOSCO – SALETTE -PERIFERIE VIVE – CATANIA

 

    Per quanto mi concerne non posso che prospettare  le mie esperienze in proposito di interventi ad aree depresse del nostro territorio. Mi riferisco al quartiere di San Cristoforo di Catania.

Mio nonno, ex ferroviere, con i propri risparmi, aggiunti alla cosi detta buonuscita, comprò una casa in quel quartiere, la quale dette come bene dotale a mia madre. Fu da lui scelto quel quartiere per il semplice motivo che, essendo in periferia, la casa, non solo costava meno, ma aveva il vantaggio di trovarsi vicinissima alla stazione ferroviaria di Catania Acquicella. Cosa quest’ultima per lui importante perché gli consentiva di poter agevolmente prendere il treno per recarsi a Lentini, suo paese d’origine.

Io nacqui lì nel 1937 e per le note vicende belliche insieme alla mia famiglia andammo via per ritornarvi a guerra conclusa.

Purtroppo la situazione era cambiata. Quella zona, da che era tranquilla, dopo la guerra diventò turbolenta. Noi si viveva lì ed io ho assistito a tutte quelle brutte vicende che ancora oggi sussistono. Siamo andati via. I miei genitori non ci sono più, le mie sorelle si sono sposate e non vivono più là. Io pure sono andato via. Solo ricordi. La casa venduta per cinque mila lire,

    A vecchiaia inoltrata, alcuni degli gli ex allievi di Don Bosco della locale Parrocchia della Madonna delle Salette, in pieno centro del quartiere San Cristoforo, abbiamo avuto modo di riunirci e durante una cena a Pedara, si parlò del quartiere. Eravamo ormai affermati cittadini che avevamo subito la diaspora da quel luogo ed avevamo un certo ruolo nella città, anzi nella nazione, per non dire nell’Europa. Eravamo una diecina, qualcuno ex prof , io ex CS titolare di Catania C/le, un altro capitano d’industria, un altro chirurgo, un altro funzionario del comune … Insomma gente che pur essendo nata a San Cristoforo ne era ormai lontana e però ne sentiva la nostalgia ed il disagio. Si prese una decisione: quella di fare qualcosa per il quartiere, magari appoggiandoci all’Istituto dei Salesiani. Si decise di istituire una Associazione  libera ONLUS allo scopo di dare un orientamento di sviluppo culturale in pieno al quartiere di San Cristoforo. I Salesiani ci misero a disposizione dei locali di loro proprietà dandone donazione all’Associazione, approvando e condividendo il nostro statuto. Quest’ultima si auto finanzia con l’offerta spontanea dei soci ed è ormai una realtà che opera nell’ambito culturale e sociale: Preciso non opere di elemosina, cui pensano i salesiani per loro conto. La nostra funzione è quella di portare avanti i problemi del quartiere e di fare dei seminari culturali nell’ambito scolastico, fornendo borse di studio ai meno abbienti e roba del genere .Ovviamente non ci occupiamo a dare “il panino salesiano”, ma di dare il massimo supporto alle attività culturali e portare avanti i problemi del quartiere. Siamo riusciti a convincere la Metropolitana della necessità di poter far nascere nel quartiere una stazione, che è, ormai nel progetto. Chiaramente non ci occupiamo di questioni politiche, ma semplicemente di finalità sociali, prospettando le soluzioni adatte, senza alcuna volontà di imporle ad ogni costo. Che cosa ci auguriamo e prospettiamo? La rinascita e la rieducazione del quartiere. Nulla di più. Ognuno dei soci sborsa una certa quota a seconda delle proprie possibilità senza trarne alcun vantaggio personale.

Inoltre chiunque può contribuire spontaneamente non solo versando una propria offerta alla ONLUS istituita, ma anche destinandole il famoso 5 x mille sul mod 730 della Dichiarazione dei Redditi   Cod Banc   93190380878.

Questa la mia, anzi la nostra  esperienza nel quartiere di San Cristoforo di Catania, che spero venga imitata altrove, dove necessario.

Allo stato attuale, il quartiere di San Cristoforo, pur essendo in continuo fermento di attività, che talvolta eludono le regole sociali, langue in una vera mota che non promette nulla di buono. Alcune case sono fatiscenti e disabitate., altre in maniera disordinata sono cresciute  … in altezza e gli stessi delinquenti abituali non hanno trovato di meglio che allontanarsi anche loro alla ricerca di nuovi avamposti da potere sfruttare.

Il famoso progetto Piccinato del 1964, secondo il quale bisognava rivalutare, sventrandolo, il quartiere, non ebbe alcun luogo e direi anche per fortuna, visti gli esiti deleteri del risanamento effettuato al quartiere San Berillo.

Uno degli obiettivi dell’Unione ONLUS ex Allievi di Don Bosco della Salette, oltre alla assistenza culturale ai meno abbienti, è quello della rivalutazione del quartiere, nel rispetto della storicità sociale e topografica. In pratica tende a trovare tutte quelle sollecitazioni necessarie per rendere vivibile il quartiere stesso ed adeguarlo allo sviluppo delle altre zone cittadine.

Nell’ambito di tale finalità, ha suggerito, trovandone ascolto, la nascita nell’ambito del quartiere di una stazione metropolitana in programma per collegare il centro cittadino con l’aeroporto Fontanarossa. E’ dunque nelle previsioni la costruzione di una stazione sotterranea nei pressi della piazza  “San Cristoforo”, oppure del Fortino, che dovrebbe costituire un motivo per la crescita del quartiere, che è parte integrante della periferia di Catania. Sostanzialmente il quartiere  verrebbe  così collegato direttamente con una delle maggiori sedi legate alle vie internazionali, oltre che nazionali, dando la possibilità di un maggiore sviluppo commerciale e turistico, poiché la città di Catania ha assunto ormai  una dimensione metropolitana, avendo esteso le proprie propaggini nei comuni viciniori.

Ebbene, le sorti del  quartiere periferico di San Cristoforo, nonché di altre zone di Catania, sono ormai affidate alla realizzazione della metropolitana, vista come la nuova linfa che arrechi benessere e modernità.

Quanto auspicato dall’Unione Ex Allievi  ONLUS in questione, costituisce una speranza per  i vecchi cortili di via Testulla, che  troverebbero un motivo di attrazione turistica e fonte di lavoro e di perpetuazione delle tradizioni catanesi facendo da traino alla rinascita di tutto il quartiere San Cristoforo di Catania.

 

 

 

 

 

LA  STORIA D’UN ALBERO

 

 

A ridosso della costa di una ben nota località della Sicilia Orientale, dove il mare ha creato un’ampia striscia di sabbia, che curvandosi verso Sud assume l’aspetto di un golfo appena accennato, sorge una foresta di alberi ancora non violata da costruzioni edili, che si estende per lungo tratto tra la spiaggia ed una strada di campagna. Per quanto solitaria in inverno, codesta foresta in estate si anima ed è frequentata da molti turisti che vi accedono con i loro camper ed ivi sostano godendo anche i benefici della vicinanza del mare. Le autorità preposte  hanno provveduto a recintare la zona che è diventata un’oasi di pace e di serenità, nonostante l’afflusso di gente nel periodo estivo. Chiaramente nel periodo invernale la zona è del tutto deserta e nulla può ostacolare il processo riproduttivo della natura. Gli alberi crescono indisturbati assumendo le posizioni che a loro impone la direzione del vento. Le chiome talvolta s’inarcano e formano come delle grotte di foglie verdi e vegete, le quali, in estate costituiscono un ottima difesa dalla canicola. Il silenzio regna sovrano, interrotto soltanto dal lontano cozzare delle onde marine che si frangono contro la spiaggia fino a raggiungere alcuni massi di tufo scomposti che delimitano la foresta dalla spiaggia sabbiosa.

Per quanto deserta di persone, la zona è frequentata dagli uccelli che nidificano tra i rami contorti degli alberi ed anche dai gabbiani che talvolta vanno alla ricerca di prede sulla terra ferma ed inoltre anche il terreno è frequentato da talpe e roditori che nel periodo estivo scompaiono come per incanto. Anche lo specchio di mare antistante la foresta pur non essendo frequentata in inverno pullula di vita marina e qualche tartaruga acquatica osa anche depositare le sue uova nella sabbia. Il fenomeno viene seguito, poiché nella zona dove essa ha deposto le uova, viene segnalato con dei paletti ed un nastro con un cartello che indica l’esistenza del nido.

Da quanto mi è dato sapere nell’antichità , oltre alla normale pesca del pesce, era nota anche la raccolta delle telline, adesso non più esercitata.

In questo angolo di paradiso naturale agita la sua frondosa chioma un albero secolare che è sopravvissuto ad altri suoi simili. Il tronco robusto denuncia la sua veneranda età Esso si erge ad ombrello sul resto della vegetazione ed ospita alcuni nidi di passeracei che lo tengono sempre sveglio e vigile. Non è l’unico nel complesso. Altri alberi simili si ergono a  distanza. Sembra proprio che si siano appropriati di piccole zone della foresta, non a caso ma seguendo un certo ordine ed un disegno che non è dato sapere. Ognuno di questi alberi ha la sua storia e sembra impedire ad altri alberi più vicini di superarli  in altezza. Chissà?! Forse anche tra gli alberi esiste una gerarchia  come per gli uomini, la quale non consente ad altri di superarli.

L’albero di cui voglio parlare ha la sua storia particolare. Non mi riferisco a tutta la sua vita ed alle sue origini che affondano le sue radici oltre che nel terreno anche nel tempo. Certamente per essersi sviluppato e cresciuto più degli altri nel suo cerchio d’influenza  la causa sarà stata la particolare aderenza della sue radici al terreno. Probabilmente è riuscito a trovare sotto di se  degli elementi che altri non erano in grado di fruire. Non è di questo che voglio parlare, ma di alcuni fatti che lo hanno coinvolto nelle vicende umane, tanto da definirlo in prima istanza come “L’arvulu grossu” (l’albero grosso)

Fu durante alcuni anni fa, più tosto lontani, che due giovinastri del tempo arrivarono ai piedi del suo tronco armati di piccone e di badile. Dall’aspetto sembravano due contadini come tanti ne aveva visti prima, armati di ascia abbattere altri alberi per farne  legna da   ardere. Ma quei due non avevano asce ma semplicemente attrezzi da scavo. Il timore che i due volessero totalmente abbatterlo lo prese e temette che volessero completamente mettere a nudo le sue radici, ma non fu così. I due cominciarono a scavare apportando anche qualche ferita alle sue propaggini. Ad un certo punto, quando la buca raggiunse circa mezzo metro di profondità si fermarono. L’albero era stupito. Non capiva a cosa servisse quel lavoro mai visto prima. Non gli restava che meditare poiché nulla poteva fare per intervenire. Madre natura non lo aveva dotato della possibilità di opporsi alla’azione degli uomini e nemmeno degli  animali. Quando i due finirono di scavare, in fondo alla buca deposero un cofano in legno non senza aver prima controllato il suo contenuto. Per questo motivo lo aprirono prima e l’albero  ebbe l’opportunità di vedere cosa contenesse. Non aveva mai visto roba simile. Erano dei monili che luccicavano e che dovevano avere un grande valore, oltre a perle ed altri oggetti d’oro. Un piccolo e luccicante arsenale di gioielli. Dal discorso dei due capì che si trattava del frutto di una refurtiva da loro eseguita a danno di alcune famiglie ricche  del luogo. I due giurarono che sarebbero ritornati insieme a prendere quei monili, quando sarebbe cessato il clamore di quei furti e che nessuno dei due avrebbe preso il tutto per tenerselo a meno che uno dei due non fosse più in vita.. Deposero il cofano e lo coprirono con la terra, che resero uniforme al resto del terreno. Vi sparsero sopra dei semi che ben presto germogliarono  e dettero luogo ad un cespuglio di erbe spinose fino a far scomparire la ferita sofferta dal terreno.

Molti anni da quell’episodio passarono, ma nessuno dei due ritornò più a prelevare il cofanetto sepolto. All’albero non fu mai noto il destino di quei due probabilmente morti e sepolti anche loro nella terra come il loro cofanetto, ma altrove. Esso restò il muto ed unico testimonio di quell’episodio ormai lontano nel tempo. Lo stesso albero aveva quasi dimenticato l’episodio, anche perché nuovi fatti avvenivano ogni anno sotto la sua chioma, sempre diversi, sempre permeati di misteri ai quali assisteva muto e taciturno.

Di giorno, anche d’inverno, notava di tanto in tanto delle persone rovistare tra i cespugli o ai piedi del suo stipite come se cercassero qualcosa. Di tanto in tanto scoprivano dei funghi che raccoglievano e deponevano in un paniere di vimini. Poi il silenzio fino a quando scendeva la sera e sotto la sua chioma qualche coppietta si soffermava a scambiarsi baci ed abbracci. La vicinanza della strada poderale consentiva facilmente la facile intrusione di qualche macchina con due persone alla ricerca di un posto tranquillo dove potersi scambiare effusioni amorose lontano da occhi indiscreti.

Un giorno con  grande sorpresa intorno allo spazio occupato dall’ombra della sua chioma vide avanzare due cani al guinzaglio di due guardie. Essi si fermarono proprio accanto al suo stipite ed insistevano ad annusare in un punto, senza l’intenzione di andare oltre. Avevano individuato qualcosa. Ma cosa? Dal discorso tra i due apprese che si cercavano le orme di una donna scomparsa alcuni mesi prima. Si temeva che fosse stata uccisa e sepolta nel seno della foresta poiché le indagini avevano rilevato una sua presenza in quei luoghi.. Le due guardie vista l’insistenza dei cani ad annusare sotto la sua chioma ed il loro latrare continuo , si fermarono e tirando fuori dai loro zaini dei paletti li infissero nel terreno circoscrivendo il punto con un nastro a strisce bianco e rosso del tutto simile a quello che veniva usato per individuare i nidi delle tartarughe nella spiaggia.

Da quanto gli era consentito  ricordare, alcun tempo prima più di una coppietta si era fermata nella zona come da routine. Ricordò una coppia in particolare che lo lasciò perplesso, poiché, stranamente, l’uomo, dopo un’animata discussione si era caricata sul dorso la donna che sembrava esamine, ma non aveva visto più di tanto essendo buio pesto. Li aveva sentiti arrivare insieme e discutere animatamente ai piedi del suo stipite. Improvvisamente la donna aveva cominciato a gridare fino a quando cessò del tutto. Fu proprio a  questo punto che vide l’uomo caricarsi sulle spalle il suo corpo esamine  e scomparire tra gli alberi. Era buio pesto. Non aveva visto bene cosa fosse successo, ma sicuramente i due avevano bisticciato e la lite si era esaurita tragicamente.

Alcuni giorni dopo della recinzione  del punto descritto giunsero  degli uomini armati di piccone e vanga, i quali con molta attenzione cominciarono a scavare alla ricerca di qualcosa che i cani avevano individuato. Ancora una volta il povero albero subì delle lacerazioni alle radici messe a nudo dai colpi di piccone.

Dopo aver scavato per un poco, non emerse alcun corpo umano. Furono trovati dei frammenti di ossa di animali che comunque vennero repertati e etichettati. Quello che emerse dallo scavo di veramente interessante fu il cofanetto di legno molto tempo prima nascosto dalle due persone ricordate  dall’albero.

La notizia fece scalpore. Quasi ci si dimenticò del vero motivo per cui i cani erano stati usati in quel posto. I giornali pubblicarono le foto del cofanetto ritrovato e dei gioielli in esso contenuti, non omettendo di fotografare lo stesso albero che diventò famoso. Si fecero delle ricerche per scoprire la provenienza dei gioielli, ma esse non approdarono ad alcuna soluzione. Si parlò di una “trovatura” e l’albero  venne anche soprannominato l’albero della “trovatura”.

Restarono anonimi non solo gli autori di quella anomala sepoltura, come anonimi restarono i proprietari dei gioielli trovati ed impossibile il ritrovamento di un eventuale corpo di donna uccisa. I cani molecolari erano riusciti a capire che in quel punto vi era stato sepolto qualcosa, ma non certo il corpo di alcuno. Si poté semplicemente stabilire il periodo di fattura di quei monili che datava   quasi ad un secolo di distanza.

Il ritrovamento in questione dette adito ad illazioni di natura esoterica e cominciarono a circolare notizie del tutto fantasiose intorno a quel luogo ed alla foresta, che venne considerata sede di spiriti e gnomi, il cui passatempo preferito fosse quello di sotterrare i tesori frutto della loro attività quotidiana, ma da allora, nonostante continue e costanti ricerche di maghi e presunti tali, nessun altro tesoro è stato mai ritrovato.

Se anche gli alberi potessero parlare, il nostro antico albero racconterebbe come sono andate effettivamente le cose intorno a quel ritrovamento e che l’unico vera  “trovatura” sicura in quel   terreno non sono altri gioielli, ma la quantità di funghi e tartufi che la foresta produce.

 

 

 

 

Ricordando Mimmo Rinaldi

 

Quando, giovanissimo, entrai a far parte del personale delle FFSS, mai e poi mai mi balenò l’ idea di dover conoscere un ferroviere … filosofo! Dai banchi del Liceo avevo appreso la frase fatta ( dagli studenti, ben inteso!) che “la filosofia era quella materia scolastica con la quale e senza la quale si rimane tale e quale”. In effetti qualcosa di vero vi era in quella frase, poiché la materia in questione non era la filosofia, ma la storia della filosofia, ovvero l’evoluzione del pensiero nelle vicende umane attraverso la conoscenza dei suoi maggiori rappresentanti storici o capo-scuola.

Avendo sentito parlare delle più astruse teorie esistenziali e di ragionamenti che talvolta esulavano dalla realtà per addentrarsi in meandri metafisici non facilmente comprensibili, ritenevo che il solo fatto di essere un ferroviere, ossia un aderente alla realtà giornaliera non lasciasse adito a profonde riflessioni, che riuscissero a coinvolgere lo stesso servizio di per se reale.

Ho dovuto ricredermi dopo aver conosciuto Mimmo Rinaldi, capostazione più grande di me per età di circa una ventina di anni.

Per un complesso di motivi che non rientrano con i fatti del presente ricordo, nonostante fossi stato destinato a coprire un posto di Dirigente Movimento Treni a Bicocca, finii per trasferirmi a Raddusa-Agira, uno scalo, allora di media importanza ed oggi ridotto a semplice fermata non presenziata.

Chiaramente , oltre a disimpegnare il compito di D.M. , contemporaneamente avevo attribuiti i compiti di C.S.T. , ossia titolare della Gestione Viaggiatori, quella merci ed anche del personale della stazione.

Non nascondo che incontrai delle difficoltà proprio nel compito di D.M. Allora il servizio di movimento dei treni avveniva tramite il servizio telegrafico, definito dal regolamento circolazione treni il regime del “giunto”. Solo successivamente si passò  ad un sistema di circolazione basato sul servizio telefonico con l’immissione dell’uso del mod M 100 V.L.

Per non rendermi noioso nelle descrizione dei diversi sistemi di circolazione, ormai  tutti superati, mi limito semplicemente a dire che il “regime del giunto” era basato sullo scambio di telegrammi trasmessi,  mediante un aggeggio telegrafico, in alfabeto morse, affidato al D.M., che , per questo motivo era tenuto a superare una prova di abilitazione, previo il corso frequentato nel periodo di prova.

Io ero abilitato a tale servizio, poiché avevo imparato l’alfabeto morse ed il funzionamento dell’aggeggio in questione. In effetti il sistema era molto facile da apprendere ed anche l’esame finale fu per me facile superarlo, poiché bisognava saper trasmettere e leggere la striscetta di ricezione, ottenuta con  punti, lineette e spazi vuoti, trasmessa dal corrispondente. Ma dal dire al fare c’è di mezzo il mare. I vecchi D.M., abituati da parecchi anni ad usare il telegrafo, riuscivano a distinguere punti e linee e spazi vuoti attraverso il suono che emetteva il telegrafo. Per loro era un giochetto ascoltare e trascrivere il telegramma sul protocollo senza la necessità di guardare la zona, anche se era obbligatorio, come previsto dal Regolamento che la zona andasse letta con gli occhi e non sentita solamente con le orecchie.

Per me non era un giochetto, perché non trascrivevo il telegramma se non dopo aver letto la tiritera di punti e lineette trasmessi dal corrispondente. Insomma ero lento anche perché qualche corrispondente trasmetteva in modo non molto chiaro. In effetti io mi attenevo al Regolamento, anche se costretto dalla mia imperizia ed i miei corrispondenti no certamente. Alcuni, addirittura avevano aggiunto all’aggeggio il cosiddetto “cicalino”, ossia un piccolo cono in carta che posizionato in maniera rovescia riusciva ad ampliare il suono del telegrafo rendendo più chiara la ricezione ad orecchio.

Un bel giorno, mi accorsi che il mio corrispondente con la stazione di Libertinia, trasmetteva a me i suoi telegrammi in modo composto e non accelerato e tale che potevo facilmente leggere la zona con molta calma. Dalla firma dei telegrammi appresi che non era il vecchio e rabbioso corrispondente di sempre. Era tale Mimmo Rinaldi, in missione a Libertinia per sostituire quel CS per alcuni giorni in ferie. Egli capì dal mio modo di trasmettere molto compassato che ero un novellino e ricambiò lo stesso modo di trasmettere senza nervosismo od eccesso. Fu in effetti uno scambio di cortesia che me lo rese simpatico e sicuramente riflessivo, e ponderato nel suo modo di agire. Ne ebbi la conferma da lì a pochi giorni dopo, quando egli da Libertinia passò a Raddusa-Agira per la sostituzione del mio collega che aveva richiesto una diecina di giorni di ferie.

Fu così che conobbi “de visu” Mimmo Rinaldi. Non era molto alto , anzi era di circa dieci centimetri più basso di me con capelli e barba rossiccia rigati da piccole chiazze di fili bianchi,

ossuto, mingherlino con sopraciglia foltissimi. Occhi penetranti, modo di parlare garbato e composto. Dal dialetto con il quale si esprimeva capii che non era catanese e come egli stesso poi mi disse era nativo di Siracusa. Faceva servizio nella stazione di Targia, la quale consentiva la possibilità di inviare un po’ lui, un po’ un altro collega in missione nel Reparto di Catania, sempre carente di Dirigenti Movimento.

Fui con lui molto gentile ed ospitale, offrendogli la possibilità di utilizzare il mio alloggio, abbastanza ampio. Egli gradì moltissimo la mia gentilezza e ricambio la mia simpatia con altrettanta disponibilità. Mi raccontò della sua famiglia, dei suoi figli e si congratulò con me per essere riuscito a trovare facilmente un lavoro, che riteneva dignitoso e soddisfacente. Da buon padre di famiglia mi esortò a non lasciare in asso l’Università e di conseguire la laurea. Cosa che, regolarmente, non feci!

Attraverso le discussioni, talvolta banali, scoprii che Mimmo, oltre ad essere un capostazione molto preciso e determinato nel lavoro, era anche filosofo! Intendo un pensatore nato  che aveva addirittura un suo sistema filosofico che mi lasciò sbalordito. Come titolo di studio aveva la terza media, quella di una volta, che inseriva nei programmi anche la conoscenza del latino.

Conosceva qualche rudimento della letteratura italiana, nonché latina. Conosceva Virgilio e di tanto in tanto non ometteva di citare l’espressione di “gurgite vasto”. Di riflesso, conosceva le origini di Roma e la storiella di Enea e della città di Troia. La qualcosa implicava anche la conoscenza della mitologia, degli Dei falsi e bugiardi, nonché del cristianesimo. Chiaramente aveva una visione del tutto sommaria  degli accadimenti storici,  che discriminava in alcuni particolari quando tirava in ballo i rapporti della Sicilia con Greci, Romani, Bizantini, Normanni ed anche attuali stati del mondo.

Da tutte queste conoscenze apprese e rielaborate dalla sua acuta intelligenza ne era scaturito un sistema filosofico che mi lasciava di stucco e che ricordava molto la scuola Aristotelica e quella Platonica , ma in modo del tutto incidentale.

Il suo sistema filosofico partiva da un semplice termine usato nella vita di ogni giorno e da tutta l’umanità, qualunque fosse la lingua parlata: il TRENO!

Un giorno, discutendo d’argomenti di servizio ferroviario,  mi chiese a bruciapelo che cosa fosse per me il treno. Per me fu facile rispondere poiché il treno non poteva essere che un insieme di carri o vetture viaggiatori ed una o più  locomotive e non nascosi la mia perplessità per una domanda così ovvia e lapalissiana.

Egli su quella mia risposta cominciò a pontificare e a fare le sue considerazioni, che, devo ammettere non erano fuori luogo.

Mi disse, chiaro e tondo, che la mia risposta non era completa, poiché ometteva il concetto del movimento. L’insieme dei carri,  delle vetture e della locomotiva poteva definirsi treno solamente se in movimento, altrimenti si era in presenza di un insieme di oggetti inanimati. Nulla da eccepire!

A questo punto venne dimenticata la questione puramente di regolamento ferroviario per cui era stato citato il treno per dare la stura al suo pensiero intorno a quello che riteneva la base del suo dilemma filosofico con risvolti anche nel campo sociale e morale.

Aggiunse che l’insieme degli oggetti che avevo elencato non era da considerare treno in quanto staticamente fermo. Esso diventava treno dal momento che scivolava sulle rotaie, ovvero che avanzava o comunque si muoveva da una località ad un’altra.. Per lui il treno era la stessa cosa che avviene per gli esseri animati, come, ad esempio, l’uomo, che si poteva considerare tale, solo se capace di far funzionare almeno uno dei suoi sensi. Sostanzialmente sosteneva che il treno nella posizione di stasi fosse una cosa morta e che in movimento fosse invece una cosa viva, così come nell’uomo il suo corpo inerte era un cadavere , mentre quello in movimento era da considerare vivente.

Ad un tratto disse che il treno aveva, come per gli uomini, un’anima  da individuare nel movimento! A questo punto lo guardai stupito, poiché non potevo ammettere una tale assurda similitudine, ma non nascondo che rimasi affascinato da quel ragionamento, poiché, a proposito del treno in movimento, mi sovvenne il primitivo problema della famosa freccia di un antico filosofo greco, che si era posto il problema se nel mondo conosciuto tutto fosse immobile e statico, oppure in continuo divenire. Costui era arrivato alla conclusione che la freccia scoccata, attimo per attimo era da considerare statica e che nel suo progredire era da considerare in movimento.

Era il concetto della relatività che balzava davanti a me nello ascoltare i discorsi di Mimmo , il quale aveva affrontato un problema altamente profondo con la sua meditazione intorno al suo “personaggio”, costituito dal treno.

La sua dissertazione sull’argomento “treno” non si esaurì lì … Essa si protrasse senza interruzione e con veemenza. Incominciò con il dire che ogni treno ha la sua individualità, che lo distingue dagli altri, esattamente come per gli uomini.

Egli sostenne che non solo il materiale di ogni singolo “pezzo” era diverso dagli altri componenti, ma anche la sua conformazione era diversa attribuendogli una diversa funzionalità. Infatti era possibile distinguerne da un primo esame, il diverso aspetto fisico ed era possibile distinguere sicuramentun treno viaggiatore da un treno merci. Quello viaggiatore, a sua volta era distinto in treno omnibus ed in treno di lusso. Anche i treni merci potevano essere distinti in relazione alle caratteristiche dei propri carri, che potevano essere “chiusi” ed aperti, ossia di marcatura F, oppure L ,  oppure P . Non parliamo poi del tipo di locomotiva, per cui i treni si distinguono in treni più veloci ed in treni meno veloci. Infatti era possibile notare che alcune locomotive avevano le ruote più grandi ed altre più piccole , ciò che consentiva loro di essere più o meno veloci,

Arrivò alla conclusione che per tutte le motivazioni addotte, nessun treno è uguale ad un altro. Semmai  simile. Aggiunse anche che il treno, a qualunque categoria appartenesse, nonostante avesse un’anima, non era libero di agire come volesse. Esso aveva una guida impostagli dalle due rotaie. Due treni , specialmente di senso inverso, sulle stesse rotaie non erano compatibili. Essi potrebbero servirsi delle stesse rotaie solamente se si venisse a creare un’armonia tra i due treni, realizzabile da un elemento esterno che ne coordinasse i movimenti.

Questa profonda disquisizione riguardante il treno, frutto della sua decennale esperienza di lavoro, lo portò a concludere che l’uomo, sostanzialmente, si comporta esattamente come un treno di cui ne è la copia comportamentale anche se non apparente e che la stessa società umana sottosta alle stesse regole.

Non  poteva  concepire che l’uomo fosse completamente libero ed uguale ad un altro, esattamente come  i treni. Non poteva certamente un uomo essere uguale ad un altro per il semplice fatto che le sue cellule erano diverse ed anche le sue fattezze erano differenti. Semmai poteva esistere tra uomo ed uomo una similitudine, ma mai un’eguaglianza. Quanto alla libertà era più evidente che mai e poi mai potesse esistere  per il semplice fatto che nessun uomo è libero di scegliere il posto in cui nascere , oltre alla considerazione che l’ambiente contribuiva alla formazione della sua personalità. In ogni caso la similitudine tra gli uomini conduceva questi ultimi ad agglomerati, altrimenti definiti “classi sociali” o ceti. Pertanto le varie classi, nate dalla similitudine, erano diverse le une dalle altre. Così come due treni non sono compatibili nell’uso contemporaneo di due rotaie , allo stesso modo due classi sociali differenti vengono in contrasto in un contesto umano, ma essendo costrette a vivere in comune, devono ricorrere ad un altro espediente, che non è certamente quello voluto dal comunismo di lotta tra abbienti e non abbienti, ma armonia tra i diversi ceti.

Già! A proposito di idee politiche ammetteva di essere comunista , ma non  di un comunismo quale  quello predicato durante i comizi elettorali. Egli ammetteva la differenza delle classi sociali, poiché ognuna di esse costituiva un fatto naturale e necessario per il buon andamento della nazione. Ammetteva, però, che una persona potesse transitare da una classe ad un’altra, ossia passare dallo stato di povertà a quello di ricco e viceversa a seconda delle sue capacità intellettive. Quello che non concepiva nel comunismo era la lotta tra le classi, che, invece avrebbe dovuto essere l’armonia, ossia la reciproca comprensione degli opposti interessi. Anche in questa sua teoria risentivo l’eco del pensiero di Gramsci e le correzioni socialiste di Nenni.

Sulla stessa falsariga poneva gli altri problemi sociali, dal diritto alla scuola al diritto al lavoro, dalla libertà di parola alla necessità  di dover a volte imporre il silenzio su argomenti particolari.

Quel suo costante riferirsi al treno se da un canto denunziava una certa  deformazione professionale, dall’altro canto rispecchiava la sua profonda ammirazione per il lavoro che disimpegnava, tradotta nella necessità di conoscere le motivazioni di diversi atteggiamenti  o posizioni assunte dai vari regolamenti.

Non nascondo che in quel mese circa di continua frequenza e discorsi ferroviari o meno, mi resi conto di aver acquisito dei concetti e dei pensieri che mai prima mi ero prospettato al di fuori dell’ambito scolastico. La mia amicizia con lui continuò anche dopo quel mese , ma scemò e non poco quando fui costretto a lasciare il servizio ferroviario per un anno e sei mese per assolvere i miei doveri di cittadino italiano nei confronti del servizio di leva militare, che lui definì addirittura una truffa nei confronti del popolo da parte di Governi retrivi e privi di buon senso. Egli era per la soluzione di un esercito di professione nazionale.

Oggi mi piacerebbe incontrarlo di nuovo e parlare del più e del meno e fare il punto sulla questione ferroviaria, il cui ambito è stato in parte invaso dalla nuova tecnologia e dall’evoluzione nel campo dei trasporti e delle comunicazioni.

Purtroppo  è questa una aspirazione difficilmente, anzi sicuramente irraggiungibile, poiché, tenendo conto della mia veneranda età e della differenza di anni tra noi due, il buon Mimmo Rinaldi dovrebbe avere oggi, ad occhio e croce, circa 120 anni; il che mi sembra piuttosto improbabile.

 

 

 

 

 

Un vecchio ricordo.

 

 

Quella volta, spulciando le pagine del quotidiano cittadino. mi imbattei nella pagina dei necrologi, dove faceva bella mostra di sé quello dedicato a Rosetta S..

Non potevo  non ricordare questa ex compagna di Liceo, che mi richiamava alla memoria tempi ormai passati e quasi dimenticati. Faceva parte di quel piccolissimo gruppo di ragazze che frequentavano il Liceo Scientifico “Umberto I° di Via Vittorio Emanuele a Catania e delle quali ricordavo anche i nomi. Lei in particolare la ricordavo per un motivo ben preciso, avendo avuto modo di conoscerla personalmente e di parlarle.

Pur conoscendola di vista e pur sapendo il suo nome e cognome, non avevo con Rosetta S. alcun rapporto di amicizia o cameratismo, fino a quando non la incontrai un sabato sera durante una serata di ballo che si era soliti organizzare a quei tempi.

Era una ragazzina bionda con gli occhi azzurri, mingherlina, con le tette che teneramente sporgevano sul suo seno , labbra sottili, viso da madonnina innocente e portamento che rivelava un carattere dolcissimo. Era semplicemente carina, ma nulla di eclatante o particolarmente  esuberante. La incontravo, da lontano, quasi tutti i giorni e devo sinceramente ammettere che non suscitava in me alcuna particolare attrazione. L’avevo notata semplicemente perché le ragazze del Liceo allora erano molto poche ed era difficile non poterle individuare.

Io frequentavo l’ultimo anno del Liceo ed non avevo altri pensieri che quelli degli esami di maturità che allora erano molto rigorosi:  prova scritta ed orale d’italiano , prova scritta ed orale di Latino con traduzione dal latino in italiano e dall’italiano in latino; stessa cosa per il francese; ma quelle che mi davano   più  preoccupazione  erano la prove di matematica, non tanto  quella orale, quanto quella scritta, consistente quest’ultima, nella risoluzione di problemi  geometrici non tanto facilmente risolvibili per l’intrufolamento di sistemi ed  equazioni con incognite, nonché d’applicazione di complicati teoremi sui triangoli rettangoli.

Tuttavia, ero un cultore assiduo del sabato sera.

Tutti i fine settimana, grazie alla disponibilità di Vito Di Marco, che metteva a disposizione di tutti un ampio salone della sua casa che sorgeva proprio nella piazzetta, dedicata a San Cristoforo, antistante la ex manifattura tabacchi, ci si riuniva per fare gli innocenti quattro salti tra amici ed amiche al suono di un giradischi allora di moda.

Durante uno di quei sabato-sera incontrai inaspettatamente Rosetta S. . Fu quella l’occasione che mi si offrì per poterle parlare e scambiare con lei le mie deduzioni in materia scolastica. In verità non avevo molto da dire, né ero preparato a sostenere con lei un argomento diverso da quello scolastico. La invitai a ballare continuando a parlare del professore di Storia e Filosofia,  che aveva scritto proprio per il Liceo un libro di testo e con la scusa di continuare a parlarne la invitai al successivo ballo. Fu così che ballando al suono della musica passai con lei tutta la serata, parlando di argomenti che ritenevo le interessassero e mi davano la possibilità di poterla invitare a ballare ad ogni successivo disco. Sarà stata la eccessiva vicinanza, oppure la musica dolcissima di allora o qualche altra cosa, che non so, mi sentii attratto da lei che mi sembrò ricambiasse la mia simpatia. Fu così che diventai più audace e stringendola ancora più teneramente le mollai un bacetto sul collo, accettato dal momento che corrispose una sua carezza di gradimento lungo la mia spalla. Non le feci la classica dichiarazione d’amore che era solita allora come preliminare in una coppia all’inizio di una relazione, perché pensai che il lunedì prossimo avrei trovato il modo per parlarle e dirle apertamente che mi piaceva immensamente. Non nascondo che al momento mi sentivo impacciato a causa della mia innata timidezza d’allora.

Passata la giornata di Domenica, finalmente arrivò il Lunedì. Io ero uscito dalle lezioni alle ore 12,30 ed anziché andare subito a casa mi soffermai ad attendere che lei uscisse dalla scuola alle ore 13,30. Nell’attesa che passasse quell’ora, che mi sembrava lunghissima, mi spostai verso la libreria Prampolini con l’intenzione di bighellonare un poco.

Fu proprio all’altezza della suddetta libreria, che incontrai Vittorio, un ex liceale della mia sezione. che si era diplomato l’anno precedente. Mi fece piacere incontrarlo perché avevo con lui un buon rapporto d’amicizia ed anche perché parlando con lui avrei impiegato quell’ora di attesa e vincere così l’ansia che avevo.

Parlammo del più e del meno e mi informò che si era iscritto al Politecnico di Torino per conseguire la laurea in ingegneria. Era giusto ritornato da Torino per il disbrigo di alcuni documenti e, nel contempo, per rivedere la fidanzata, che frequentava il Liceo scientifico. Precisò che si trovava lì per attendere che lei uscisse dalle lezioni.

Dal momento che le ragazze iscritte al liceo erano appena quattro in tutto l’istituto, ebbi la curiosità di chiedergli chi fosse. La risposta fu: la più carina di tutte, Rosetta S.

Fu come se fossi stato improvvisamente investito  da una doccia d’acqua fredda! – Ah, sì! – dissi -  Effettivamente è la più carina di tutte.

Non aggiunsi altro! Lo salutai, girai i tacchi e me ne andai. Preferisco non riferire  ciò che pensai della santarellina dagli occhi azzurri e dai capelli biondi, che mi aveva stregato e che , ovviamente, non tentai più di rivedere e  di cui non ebbi più notizie dopo essermi diplomato. Pensai, giustamente, che non era proprio il caso di dovermi imbarcare in una vicenda d’amore con una ragazza che dimostrava di essere volubile, nonostante la sua aria semplice che profumava d’acqua e sapone.

Erano passati circa venti anni da quell’episodio, quando per caso ho incontrato nuovamente  il vecchio Vittorio alla stazione centrale di Catania. Io dovevo andare a Palermo per una riunione di lavoro e lui doveva prendere il treno per Roma. Fui felice di rivederlo. Era molto cambiato. Aveva perso un po’ dei suoi capelli ed era ingrossato. Mi raccontò di essere approdato a Roma dopo un periodo di lavoro a Milano. Mi parlò dei suoi vecchi compagni di classe  che erano andati a Torino per frequentare il Politecnico. Mi parlò di Pasquale Pistorio, che era diventato un big dell’elettronica in veste di top manager , dello “Sceriffo”, alias capo classe, che era diventato direttore di una Agenzia del Banco di Sicilia, del povero Taverna che era morto ancor prima di potersi laureare e della sua vita peregrina nell’Italia del Nord.

Al momento di salutarci gli dissi di porgere i miei omaggi anche a sua moglie, che ricordavo ancora. Restò perplesso e subito dopo mi chiese come avessi fatto a conoscere  sua moglie dal momento che era del profondo Nord e mai venuta a Catania?!

- Ma non mi avevi detto che eri fidanzato con Rosetta S? -

- Sì! Ma mica l’ho sposata! Ricordo adesso che ti dissi della mia relazione con lei l’ultima volta che ci siamo visti davanti alla libreria Prampolini, dove  stavo aspettando che uscisse da scuola.  Di fatto ci siamo visti dopo che tu andasti via. L’ho trovata cambiata … Mi ha detto chiaro e tondo di essersi innamorata di un altro ragazzo e che non era il caso di continuare la nostra relazione. In poche parole mi ha mollato proprio quel giorno senza tanti complimenti  e, aggiungo, con lealtà come era nel suo stile. Da allora non l’ho più rivista . Dopo qualche anno  ho incontrato Virginia che adesso è mia moglie e mi ha regalato due bei bambini. 

- Sì! – Rimbeccai. Se è per questo anch’io mi sono sposato ed una amore di figlia … – Ma la mia risposta più che uno scambio di notizie, fu una riflessione rivolta a me stesso e mi rimproverai d’aver giudicato male Rosetta S., la quale, alla luce di quanto era emerso non mi sembrò essere volubile, ma di sani principi morali. Mi illusi di pensare  anche che, forse, il ragazzo di cui si era innamorata altri non fosse se non io.

Mai azzardare dei giudizi nei confronti delle persone se non dopo averle conosciute bene.

 

 

 

DALL’EPISTOLARIO CON MILLI del Venezuela

(Milli era una corrispondente di FB che ad un certo punto non si fece sentire più. Qualcuno, poi, mi comunicò che era passata a miglior vita. Avevo capito che stava combattendo contro il male del secolo. Era stata colpita dal cancro. Non me lo disse mai. Lo capii e feci di tutto per esserle virtualmente vicino, pur non toccando mai l’argomento “cancro”. Povera Milli, dolcissima, simpaticissima e soprattutto buona d’animo, colta ed amante della cultura italiana. Riporto alcuni brami della corrispondenza con lei che preparavo prima, per farla distrarre dai suoi problemi di salute.  Ho di Lei un ottimo ricordo.-

 

Carissima Mili

 

colgo l’occasione per parlarti di Alessandro Manzoni e del suo romanzo “I PROMESSI SPOSI.” –

Premetto che Alessandro Manzoni, Giacomo Leopardi ed Ugo Foscolo sono i massimi rappresentanti del cosiddetto Romanticismo italiano.

Il romanticismo era una corrente letteraria che metteva alla base della sua attività letteraria il pessimismo.

Leopardi non riesce a superare questa sua crisi spirituale e con le sue poesie non fa che piangere, diventando il cantore della giovinezza perduta. --- Ugo Foscolo supera il suo pessimismo con le illusioni, tra le quali è preminente l’amor di patria. --- Alessandro Manzoni supera il  pessimismo rifugiandosi nella  fede in Dio e nella Provvidenza divina, predicate dalla chiesa cattolica.

Inoltre voglio anche parlarti del verismo italiano, il cui massimo esponente è il Verga, mio conterraneo.

 

Il mondo di Leopardi.

 

Quello del Leopardi è il mondo del dolore della sua vita che assurge al simbolo del dolore metafisico di tutta l’umanità. Egli parla del suo dolore per una vita che non gli ha concesso di avere la felicità sperata. Aveva grossi problemi di salute anche fisici oltre che spirituali. Le donne da lui amate e forse mai possedute per questo suo eterno bisticcio dell’anima sono il simbolo se non il testimonio del suo sperare inutilmente una felicità irraggiungibile. Egli è il poeta che non è stato mai giovane, ma che della giovinezza ha fatto la sua meta, pur sapendo che a lui, come a gran parte dell’umanità viene negata. Anche l’infinito, cui naufragar gli è dolce, lo turba al di là dei silenzi e dell’inconscio evolversi del tempo. La bellezza dei suoi versi espressa in endecasillabi sciolti  intercalati con settenari molto tonicamente musicali, lo rendono infinitamente vicino al lettore riuscendo a catturare la sua attenzione sul quadro della tragedia umana del vivere.

 

Il mondo di Ugo Foscolo

 

Quello del Foscolo è il mondo delle illusioni e tra esse quella maggiormente preminente l’amor di patria. Una vita errabonda, quella del Foscolo, costretto a  girovagare per il mondo senza la possibilità di trovare un conforto stabile, che, forse conosce alla fine della sua vita, vivendo assistito da una sua figlia a Londra prima di morire. Tuttavia, egli si illude di poter superare questo suo stato di cose  prefiggendosi degli ideali o. meglio, delle illusioni di ideali rilevanti mai raggiunti anche se agognati. L’amor di patria, ossia il desiderio di vivere l’amore per la sua terra è l’illusione maggiormente agognata, come traspare dalla sua poesia ai Sepolcri. I suoi versi classicheggianti riescono a dar corpo a queste sue farneticazioni spirituali facendo di lui il poeta dell’eterna speranza e dell’amor di patria incondizionato. Tuttavia, egli morirà esule a Londra, dove per vivere si affida all’ideale dell’amore filiale sempre sperato e finalmente appagato.

 

Il Mondo di Manzoni

 

Alessandro Manzoni scrive questo suo romanzo sui promessi sposi, che è il suo capolavoro, adottato come testo nelle scuole italiane per la purezza della lingua italiana.

Ma andiamo al contenuto dei Promessi Sposi.

E’ una vicenda ambientata nel periodo in cui gli spagnoli dominavano in Italia ed in particolare nella Lombardia, il cui capoluogo è Milano. --- Due giovani ,Renzo Tramaglino e Lucia Mondella sono fidanzati e si vogliono sposare. Ma un uomo molto importante un certo Don Rodrigo mette gli occhi su Lucia, che lo rifiuta. Allora Don Rodrigo impedisce al parroco Don Abbondio di celebrare il matrimonio con minacce esercitate dai suoi sgherri, i cosiddetti “bravi”. Da qui tutte le peripezie dei due giovani, che, alla fine vengono superate per intervento della Provvidenza Divina, che, grazie all’imperversare della peste a Milano, fa morire Don Rodrigo consentendo ai due giovani di sposarsi. Il romanzo che ha molti riferimenti storici, è nello stesso tempo condanna della sopraffazione e trionfo della giustizia divina. Nello svolgimento della trama emergono delle figure caratteristiche del vivere umano, tra i quali, appunto, l’avvocato Azzeccagarbugli, che rendono molto piacevole la lettura.

 

 

Il mondo di Verga

 

Di Giovanni Verga ho ampiamente parlato bel mio libro di racconti !LARIA E CATANIA, dove descrivo alcuni aspetti della mia città, i più salienti almeno. Ti racconterò succintamente, alcune cose che io, catanese,  so e che nei libri di storia della  letteratura

raramente appaiono, essendo questi più che altro interessati alle questioni letterarie..

Le prime cose che ho letto del Verga sono state le sue novelle e che trascuro di nominare, poiché sicuramente tu  conosci.

Con mia grande gioia, ho scoperto e riconosciuto l’ambiente in cui le ambientò in massima parte.

Devi sapere che la stazione di Valsavoia, ora Lentini Diramazione, sorge nei pressi del famoso “Biviere”, che da quel punto si estende fino a raggiungere la stazione, che allora si chiamava “Leone”, oggi Palagonia , costeggiando la cittadina di Lentini (la vecchia Leontini greca).

Parallelamente al percorso ferroviario che da Catania porta a Caltagirone, su cui insistono sia la stazione di Valsavoia e Palagonia ed inoltre anche altri centri come Scordia e Militello in Val di Catania, dove è nato Pippo Baudo, esiste una strada provinciale che conduce a Caltagirone. Questa strada prima di raggiungere questo grosso centro, dopo Militello incontra le cittadine di Mineo e successivamente Vizzini e Grammichele.

Questa strada provinciale antecedente alla linea ferroviaria veniva sovente percorsa in calesse dal Verga per recarsi da Catania a Vizzini, dove realmente era nato e la famiglia possedeva dei terreni.

Ecco la prima cosa che non sai sicuramente. Verga, figlio di una famiglia di rustica progenie in odore di nobiltà pregressa nacque effettivamente a Vizzini nella casa dei suoi genitori, ma successivamente venne dichiarato di essere nato a Catania in Via Snt’Anna, dove attualmente vi è un museo a lui intestato per motivi di convenienza …  comunale. Devi sapere che allora esistevano le cinture daziarie, che poco ci mancava non fossero dei piccoli stati! (A tal uopo ti ricordo il film di Troisi e Benigni alle prese con i confini daziari veramente simpaticissimi)

Egli era costretto a viaggiare, frequentando l’Ateneo Catanese, dove il suo protettore ed amico Rapisardi, tra l’altro, insegnava materie letterarie e retorica. Pertanto conosceva benissimo la strada di cui parlo, anche nel tratto tra Catania e Valsavoia, che tocca la foce del Simeto.

Sono riapparsi ai miei occhi i canneti sul Simeto, la zona malarica che allora esisteva a causa delle acque morte del biviere,   e tanti piccoli particolari da lui  descritti nelle sue novelle, come ad esempio la casetta “rossa” da lui citata e che allora ancora esisteva. Questo perché vivendo i miei genitori a Catania ed abitando io a Valsavoia ero costretto a percorre la stessa strada con la mia prima macchina che non poteva non essere la mitica FIAT 500 ed inoltre percorrevo anche il resto della strada fino a Caltagirone, dove andavo spesso in missione per svolgere le mansioni di Dirigente Unico.

Fu così che conobbi anche la casa avita del Verga, il palazzo dei Traho, citato nel “Mastro Don Gesualdo”, la Vicaria della cavalleria Rusticana ed il luogo dove la tradizione vuole che fosse avvenuto  il famoso duello tra compare Alfio e compare Turiddu.

Successivamente ho conosciuto il borgo marinaro di Aci Trezza dove il Verga ha ambientato “I Malavoglia”, dove la tradizione vuole sia la casa del nespolo, compreso quest’ultimo, che, ti assicuro non è quello di allora!

Inoltre vi è ancora un angolo di terreno incolto e vincolato a verde pubblico che si trova in Tremestieri Etneo (Canalcchio) dove io abito, al limite con Catania, compreso, appunto, tra via Novalucello di Catania e via Nizzeti di Tremestieri e dove vi è un vecchio rudere abbandonato, che era il casale dei Verga fuori Catania. Ce l’ho sempre sotto gli occhi perché percorro queste due vie quando da casa mia, sita in Tremestieri Etneo vado a Catania Centro.

Ti invio questo “file” e dopo ti parlerò dell’uomo Verga.

 

Verga Uomo.

 

Giovanni Verga, nacque, dunque a Vizzini, ma per motivi di opportunità venne rivelato come se fosse nato in via S. Anna a Catania, nei pressi di via Crociferi. Pertanto frequentò le scuole a Catania, compresa l’Università. La famiglia, relativamente agiata, viveva dei redditi dei possedimenti terrieri di Vizzini e di un “jardinu” di limoni proprio a ridosso del confine catanese con il comune di Tremestieri Etneo. Fin da subito manifestò il suo interesse per le lettere ed in questo campo cercò sempre di emergere.

Questa sua tendenza letteraria, che gli fece vivere anche momenti poco brillanti, influì moltissimo nella sua vita. Aderì, manco a dirlo, alle idee garibaldine arruolandosi nelle file del Generale conquistatore della Sicilia, ma quando si parlò di attraversare lo stretto in armi, si tirò indietro e dovette pagare una grossa penalità in denaro per dimettersi dalle file garibaldine. Cosa che fece nonostante le sue ristrettezze economiche. Ritenne Garibaldi, per la sue idee apertamente sinistroidi, un pericolo per la perdita del suo peculio, costituito dai suoi modesti possedimenti terrieri. Successivamente, nella speranza di poter fare carriera letteraria, con l’aiuto dell’amico Mario Rapisarda, che intanto era un poeta affermato, si trasferì a Firenze, diventata capitale subito dopo la proclamazione del Regno d’Italia. Questa città, scelta come espressa rinuncia a conquistare Roma, protetta da Napoleone III, fu presto sede di cenacoli d’artisti, allora chiamati “salotti” , dove affluirono molti letterati od aspiranti tali. Insomma era quello il bel mondo culturale d’allora, che successivamente si trasferì a Roma dopo la breccia di Porta Pia.  Verga era un bell’uomo. Un siciliano con tutti i crismi   del fascino isolano accompagnato dalla sua tendenza letteraria, ma perennemente in bolletta.

Egli viveva appunto con i proventi del giardino di limoni di Catania. La vendita dei frutti era l’ossigeno che lo faceva vivere a Firenze … Ma era ben poca cosa. Per arrotondare le entrate appena intascata la somma correva al casinò di Venezia per tentare la sorte. Se gli andava bene continuava a vivere a Firenze che gli offriva svago ed una certa vita un po’ sulle righe. In caso negativo se ne tornava a Catania con le … pive nel sacco! Insomma , egli al ritmo dei soldi che riusciva a racimolare alternava la sua vita tra Firenze, Catania, Venezia ed anche Milano, dove si legò con qualche danarosa signora meneghina. Durante questa sua vita peregrina, conobbe a Firenze la giovanissima Giselda Fojanesi,. Anche lei attratta dal bel mondo fiorentino, insieme ai suoi genitori si era trasferita dalla provincia alla ricerca di notorietà, nella  capitale del nuovo Regno. Attratta dalle attenzioni del Verga, cedette alla sua corte, mirando al santo matrimonio, come tutte le fanciulle del tempo. Verga, che, in verità era allergico a legami impegnativi per il suo continuo essere in bolletta e perché anche attratto da situazioni avventurose, capita l’antifona si ritirò i … ponti, trovando anche il modo di concupire una ricca signora meneghina, regolarmente sposata, cui piaceva non poco il bel siciliano. In verità , grazie anche ai favori dell’amico Mario Rapisrda che aveva degli agganci politici, riuscì a farla venire a Catania con un incarico di insegnante presso un convento di suore. Fu proprio in quell’occasione che si servì della collaborazione della Fojanesi per scrivere la sua Storia d’una capinera, ambientata in un convento. Ripeto che il Verga, capito che la ragazza mirava al matrimonio, volò a Milano in cerca d’altri … porti.. La Fojanesi, rimasta libera suo malgrado, non trovò di meglio che accettare la corte del già arrivato Mario Rapisarda, che, intanto, era diventato magnifico rettore dell’Ateneo Catanese in barba a Giosué Carducci, nonostante la relazione di quest’ultimo, forse solo romantica, con la regina savoiarda. Mario Rapisarda, illustre professore di retorica e, tra l’altro emerito puttaniere frequentatore di postriboli, considerando i rapporti tra la donna e Verga una semplice simpatia di poco conto, finì per sposare la Giselda, che andò così ad abitare nella centralissima via Manzoni di Catania, insieme alla madre ed alla sorella del Rapisarda. Due vere arpie, bizocche ed indisposte nei confronti della pimpante ed evoluta Giselda. Insomma nacque tra le tre donne una guerra sotterranea ed infinita. Nel contempo la FoJanesi scoprì la poco accettabile tendenza del marito a certi incontri prezzolati. Sicché, in un periodo in cui il Verga era ritornato a Catania, perché in bolletta, riallacciò i rapporti con lui, il quale, questa volta non si tirò indietro. Anzi, come si dice a Catania si “Jttavu cu’ tuttu u sceccu” in questa storia. Gli incontri clandestini tra i due amanti avvenivano  proprio nel casale di Catania di cui ho parlato prima. Ora, siccome allora non c’erano telefoni, smartphone ed altre diavolerie moderne, i rapporti per appuntamenti e scambi di affettuosità avvenivano per lettera. Fu così che Mario Rapisarda un bel giorno, anzi un cattivo giorno, si accorse di essere … cornuto. La Giselda, vistasi scoperta, si recò in calesse dal Verga con la ferma intenzione di andare a vivere con lui. Ma il nostro Giovanni, sempre allergico a certi rapporti impegnativi, le disse chiaro e tondo che la cosa migliore sarebbe stata quella che Lei se ne tornasse a Firenze in attesa che Mario Rapisarda gli mandasse i padrini per l’immancabile duello. Allora non c’era il divorzio né la separazione. La prassi era il duello per lavare l’onore. Fu così che Giselda Fojanesi se ne tornò a Firenze, abbandonando il campo, poiché Mario Rapisarda non ritenne opportuno rischiare la pelle per una “bottana” tant’è che intensificò le sue visite alle case chiuse ed a sorbirsi il muggito del bue anonimo tra i suoi studenti alla fine di una sua lezione nell’aula magna.

Alla fine, il Rapisarda si consolò allacciando una relazione stabile con la scrittrice “Lyala”. E Verga? Niente, Verga rimase solo e continuò la sua vita di sempre lontano dalla Fojanesi, che licenziò in malo modo considerandola una donnaccia. Però avvenne il fatto nuovo che giocò a favore del Verga. Venne rappresentata l’opera lirica della “Cavalleria Rusticana”, che ebbe successo e fruttò alla casa editrice Treves fior di quattrini. A questo punto il Verga sempre in bolletta fece causa all’editore che gli dava una misera prebenda di diritti d’autore per la novella della cavalleria rusticana, da cui era stata ricavata l’opera lirica musicata dal Mascagni. Gli venne riconosciuto il suo buon diritto e Verga divenne improvvisamente ricco e non solo! Il processo ed il successo dell’opera lirica fecero di risonanza all’ascesa della fama di cotanto autore, fino ad allora rimasto anonimo. Fu così che vennero attenzionate le sue due opere “I Malavoglia” ed Il “Mastro Don Gesualdo” e si scoperse che erano dei veri capolavori della nuova tendenza veristica. La sua fama crebbe tanto che venne dichiarato senatore a vita per i suoi meriti letterari. Ora mi si potrebbe chiedere: ma allora, infine, Verga si sposò? E con chi? Niente di tutto questo! Verga non si sposò mai! Era proprio allergico al matrimonio. Ebbe altre relazioni con altre donne molto più giovani di lui che lo adoravano, ma lui … Nisba, come dice qualcuno. Morì solo, assistito da un suo allievo, dopo diventato famoso, ma non al suo livello: Federico De Roberto. Parlando del Verga, ho scritto che il Mastro Don Gesualdo è un po’ la controfigura del Verga e che la fobia per la “roba” di quest’ultimo in fondo era simile a quella del Verga.

I catanesi gli hanno reso giustizia ed onore dedicando a lui la più grande piazza di Catania, dove è nato il palazzo di Giustizia e l’albergo più grande della città e dove è stata allestita una fontana che ricorda la tragedia marinara della famiglia Malavoglia.

 

Carissima Milli,

 

non ti nascondo che Leopardi, Foscolo e Manzoni godono della mia ammirazione e nel mio piccolo ho cercato di imitarne la letteratura traducendo in dialetto siciliano parte dei loro scritti. Di Leopardi, addirittura ho pubblicato molte delle sue poesie con la casa editrice AKKUARIA, di cui ti ho già parlato. Del Foscolo ho tradotto la sua opera immortale de “I Sepolcri” e del Manzoni, di cui non mi è venuto facile tradurre le sue poesie, ho preferito rendere in forma poetica un celebre passo dei Promessi Sposi, l’Addio ai monti di Lucia.

Qui di seguito ti riporto in dialetto siciliano la poesia del Leopardi, “A Silvia”, i “Sepolcri” del Foscolo e “L’addio ai monti di Lucia” del Manzoni.

Spero, anzi sono sicuro, che tu capisca il mio dialetto perché anche il siciliano fa parte delle lingue neolatine, alle quali lo spagnolo è simile. Fammi sapere se trovi difficoltà e cercherò di chiarire.

 

A  SILVIA.  (di Leopardi)

 

   Cu' si po’ cchiù mai di Silvia scurdari

e di lu tempu quannu,

all'alba di la vita s'affacciava

e 'nta l'occhi mustrava

tuttu l'amuri e li pinseri strani

di cu' nun havi pinni pi’ vulari!

   Comu rintoccu di campani a festa

'nta l'aria si spannia,

spinsiratu cantu d'acidduzzu,

la so vucidda tra li cheti stanzi,

mentri allegra facia

li soliti cusuzzi di la casa.

Era lu tempu di li rosi in ciuri

e cu ducizza pinsava all'amuri!

   Nun haiu lingua sciota

e mancu versi arcani

pi’ diri chi pruvava 'nta lu pettu

quannu ascutava lu so’ duci cantu

e sintìa lu so’ lestu piditozzu.

mentri incurvatu supra

li travagghiati carti

liggeva in sichitanza,

spricannu da me’ vita la cchiù parti.

   Jù tuccava lu celu cu’ li manu

e sprufunnava 'nta lu mari azzurru

e mi pirdìa 'ntra l'immensi munti,

si m'affacciava di la porta antica

e la videva trammistiari allegra

comu un'apuzza c'a ciuri si frica.

Era cuntentu pi’ la grandi gioia

ca mi dvanu li spiranzi arcani

di li jorna a viniri,

sempri chiù beddi, sempri chiù filici,

pirchì granniusu e beddu

mi pareva tannu l'umanu statu

e lu prisenti fatu.

    Quannu pensu a sti passati cosi

ed all'attuali vita li cunfrontu,

lacrimi chiangiu amari

e mi pigghia lu scunfortu.

Maliditta natura,

pirchì tantu prumetti a li to’ figghi

e, poi, senza pietati, a cu' t'ascuta

mutuperii duni a centu a centu,

mentri fidi e spiranzi

si vannu sbraciannu

comu tizzuna lassati a lu ventu?

    Ancora prima ca finissi l'annu,

comu lu ciuri, ca lentu s'ammuscia

pi’ la mancanza d'acqua,

sutta lu raggiu di cucenti suli,

accussì la mischina,

di cancuru cunsunta,

supra la pettu la testa reclina

e senza scampu la morti l'ammanta.

Lassa la vita e l'amurusu affannu

e perdi, prima di tastarla ancora,

la duci etati di la gioventù,

senza gudiri di la so biddizza,

c'allampa comu rosa ca non sboccia.

   Pi’ mia macari tutta

la spiranza, ca in pettu tinia,

prestu finiu: spirdutu

'nta stu munnazzu chinu di duluri,

vecchiu mi fici prima di lu tempu,

senza l'amuri, senza

l'affettu di la me’ cumpagna amata,

chinu d'acri ricordi e d'insulenza.

Chistu é ddu munnu beddu

ca spirai cu tantu arduri?

Chisti su’ li gioi, chista

è la risulta di lu nosru amuri?

chista è la sorti di l'umana genti,

ca mori senza scampu

e di la vita nun lassa cchiù nenti?

Megghiu a stu munnu 'un nasciri pi’ nenti!

 

 

 I SEPOLCRI   (di Ugo Foscolo)

 

    All’ummira di l’arvuli pizzuti,

sutta  petri di chiantu cunfurtati,

è menu  tintu u sonnu di la morti?

Siddu pi’ mia lu suli la finissi

di nutricari cu lu so caluri

sta terra ricca d’erbi e d’animali

e si mi capitassi di firmari

l’anni futuri di la vita mia

e d’accussì nun ascutari chiùi

lu sonu  arcanu di li versi toi

ed iu stissu finissi di cantari

l’ amuri  beddu  di l’antichi vati,

unicu spinnu di lu me’ campari

privu  d’affetti  e di la patria mia,

pensi ca stari misu sutta terra,

dintra na tomba allicchittata e tali

di renniri distinti l’ossa mei

di l’autri morti sparpagghiati in terra,

dunari mi putissi  gran ristoru?

E’ veru sulamenti o Pindemonti

ca puru  l’ultimu spinnu di l’ omu, 

la spiranza,  li tombi sfuggi e lu tempu

li cummogghia di l’ ummira murtali

assemi all’ossa ca su’ dintra misi,

ca cangianu d’aspettu e sunu santi.

 

      Ma pirchì l’omu ancora vivu trema

pinsannu di muriri all’antrasatta?

Non campa forsi sutta terra misu

si la luci ci agghica nta lu pettu

di lu pinseri di li so parenti?

Non sulu bedda ma divina pari

sta rispundenza d’amurusi sensi

ca  fa campari cu l’amicu mortu      

e sentiri li cosi ca pruvava

quann’era vivu, si lu corpu giaci

sutta la terra matri ca l’accogli

all’ummira di ‘n-arvulu frunzutu,

sutta nu cippu di sculpita petra

ca lu difenni  di l’offisa gravi

di lu scunchiusu tempu e di lu volgu.

 

       Sulu cu ‘un lassa eredità d’affetti

nun havi cura di la tomba quannu,

sia ca, spirdutu, dopu di la morti

tumma nta l’infirnali strati oppuru

si godi u Paradisu nta lu celu,

ed abbannuna lu so’ corpu fremmu

a la disolazioni di lu tempu

senza ascutari  vuci di cu’ chiangi

supra na tomba leggia, c’ammustrari

non poti la so’ facci e lu so’ vantu.

 

     Di cancillari all’occhi di la genti

la nova liggi imponi li sepolcri

e di nun ammiscari morti e vivi

dintra li mura di li borghi antichi.

Pi’ chistu giaci senza tomba giusta

ddu gran sant’omu, ca pi’ tia, Talia,    

virdi chiantavu  d’arvuli  nta terra

na caterva d’eternu e santu alloru ,

facennuti curuni c’appizzava

supra l’artaru  ca t’apprisintava

e tu divina  di la to biddizza

ad iddu lu surrisu ci ammustravi.

Ora non vidu la to facci e mancu

lu ciavuru cchiù sentu di l’ambrosia

ca tu spannevi tra li rami, o Musa,

di st’arvuli ca sunu spogghi  e nudi

senza guardari l’onorata tomba

di lu gran vecchiu,  c’addumari tutta

di luci e  di grannizza ormai non puoi.

Forsi tu vaghi erranti tra li fossi

di cimiteri novi e cerchi invanu

lu postu scanusciutu dunni posa

la sacra  testa e dormi u to Parini,

di sangu lurda  di tagghiati testi,

di genti ca murivu dicullata.

Forsi  tu senti l’arraggiati cani

arriminari l’ossa scummigghiati

e la civetta nesciri gracchiannu

di ‘n-abbannunata crozza nta la terra

e svulazzari tinta in celu ancora

tra l’arvuli pizzuti ed a li stiddi

cuntistari la luci ca si vidi

luntanu di li cruci sparpagghiati

nta campagna senza nomu e paci.

Vani sunu li sbrizzi d’acquazzina

e li prigheri ca la notti spanni,

pirchì nun nasci mai supra li morti

nuddu ciuriddu ca non posi l’omu.

 

    Di quannu l’omu fu custrettu a dari

la giusta sepultura a cu’ mureva,

privannu belvi d’impietosu pastu,

fastusi tombi foru fatti in casa

c’altari  sunu di l’umanitati

pi’ cilibrari antichi fatti e patria

e nta li chesi tumulati foru

li morti sutta di lu pavimentu

senza ca nuddu lamintari  intisi

lu fetu di lu catalettu e mancu

di fantasimi l’appariri mestu.

Fu  daccussì ca nta l’antichi corti

sarbati foru  pi’ l’eternitati

li corpi di la genti ca cuntava

ed iu spirava di truvari in casa

‘n-agnuni nica dunni ripusari,

secunnu la buntati di cu’ campa

ca cilibrari voli lu ricordu.

 

A santi cosi  addumanu la menti

li tombi di la genti ca fu forti

e fannu cumpariri  a tuttti granni

la terra ca li serba o Pindemonti

Ju quannu vitti la tomba di dd’omu

c’ammustra quantu sunu tinti e latri

li guvirnanti in capu, dicennu comu fari

pi’ stari a galla, oppuru i monumenti

di chiddu ca  dda bedda Chesa  fici

a Roma pi’ li  Santi  e di chidd’autru

ca  lu misteriu  di lu firmamentu

canusciri ni fici  finalmente.

gridai cuntentu  cu’ li vrazza in celu:

“terra filici si’  o patria mia,”

pi’ tuttu chiddu ca  natura ammustra

di ciumari ca d’Appenninu scurrunu

e di gioghi e terri assulati e ricchi

di casi, di vitigni ed autri pianti

e puru tu Firenzi ca sintisti

li versi prima di to’ figghiu Danti

e chiddi di Petrarca ‘nnammuratu,

ma chiù di tuttu pi’ chiddu c’ ammustri

di monumenti ed opiri superbi,

ch’è valurusu vantu, cancillatu

non pututu di genti supirchiusa,

c’ oscurari non sannu u to valuri.

E, siddu ci ni veni  vuluntati 

e spinnu, cca venunu l’italiani

a sentiri lu stimulu d’onuri.

 

Ccà, unni l’Arnu e cchiù desertu, vinni

Vittoriu  Alfieri, ad ispirarsi quannu

currucciatu  sinteva lu duluri

pi’ la pirduta paci ed ora mutu

eternamenti vivi e l’ossa soi

sunu d’amuri pegnu  sempri vivu

pi’ chista nostra amata Patria granni.

Ah,si!  Supra di st’ossa appari e parra

lu Numi di l’amuri pi’ la Patria,

chiddu stissu quannu  Persiani e Greci

li vitti  cumbattenti a  Maratona.

Lu marinaru tannu  ca lu mari

passau vicinu  a l’isula  d’Eubea,

vitti lu scintilliu  di  spadi e d’elmi

ca ‘si scuntravanu tra d’iddi, focu

d’accatastati  piri pi’ li morti

e curriri cavaddi scalpitanti

supra li morti stinnicchiati in terra,

mentri lu sonu si sinteva forti

di li trummi strepitanti e lu cantari

di li vuci vilati di la morti.

Ancora tu, Ippolito filici,

pirchì  stu mari navigatu fu

di tia picciottu e vidiri putisti

li furtunati costi d’Ellespontu,

unni si cunta ca ristaru l’ossa

d’Aiaci  nta lu funnu ‘nsemi all’armi

ca d’Achilli foru e nun ebbi Ulissi.

   E puru ju filici,  pirchì   disiu

Iri mi faci randagiusu e tristu

ca  mi scigliu la Musa pi’ parrari

d’antichi eroi nta stu munnu novu.

Unni deserti e ruvinusi mura

di tombi fannu mustra di l’antichi 

nostri Patri, ca vinniru di Troia,

custodi sunu li divini Musi,

ch’ etrnamenti dunanu valuri

a chista nostra disulata terra.

Comu sti petri assuntumati e tristi

ricordanu l’imprisi di li Greci,

ma serbanu nta l’urni li Penati

di chiddi ca mureru cummattennu

e  non sunu e non furunu scurdati,

accussì facemu eterni li tombi

de nostri antichi Patri e Dei Penati

e  nun facemu  ca secunna Troia

divintassi  la nostra amata terra.

E vui, palmi e cipressi, ca li nori

di Priamu cu’ lacrimi crisceru,

l’urni cupriti di li nostri patri

e d’ummira non fatili suffriri

e nuddu s’azzardassi di sciancari

cu’ l’accetta li zucca e li ramagghi

pirchì diventa piccaturi forti

contru  natura , Patria ed anchi Diu.

Guardiani siti di li nostri patri

e nun cissati di ristari ddocu

finu a quannu d’Omeru nautra vota

arrivari viditi traballanu,

la figura ca trasi nta li tombi

ed addumanna a chiddi ca ci sunu

la storia  di la morti e di la vita.

Li tombi allura tremanu d’arduri,

parrannu  ancora di la persa Troja

e la   vittoria di l’antichi Greci.

Ed Ettori di chiantu havi l’onuri,

unni  è cunsidiratu sacru u sangu

virsatu pi’ la patria e finu a quannu

di luci u suli chista terra inonda.

 

  

 

L’Addiu a li munti di Lucia. (di Manzoni)

 

     Addiu , muntagni persi

 fora  di l’acqua sciuti,

e sparpagnati in celu;

cimi diversi, noti

a cu’ tra vuautri  crisci,

e fissi nta la menti

comu parenti siti;

turrenti vurticusi,

di cui lu scrusciu senti,

comu chiddu ca fusssi

di la secunna  casa;

villini janchi e russi 

d’attornu sparpagghiati,

comu  a lu maggiu pecuri;

addiu, pi’ sempri addiu!

Quantu è bruttu lu passu

di cu’,vi vitti crisciri

e  s’alluntana e manca!

A la manera stissa

di chiddu soru, soru,

ca si ni va cuntentu

cu’ la spiranza  certa

d’aviri cchiù furtuna

nta nautra terra nova

e nta lu stissu tempu

chiangi e bruttu ci pari

circari la spiranza

di divintari riccu,

si meravigghia tostu

di la so’ decisioni

e vulissi turnari

arreri e non pinsari

ca  riturnassi  ‘n-jornu

riccu. filici e chinu.

 Quantu cchiù lu chianu vidi,

tantu chiiù l’occhiu  stancu

arreri si ritira

scuntentu  e straburutu

di dda viduta sempri

pariggia e scunsulata;

l’aria morta ci pisa;

s’avvia scuntentu e mutu

versu di l’abitatu;

li casi a casi accantu,

li strati a strati dopu

ci levanu lu ciatu,

vidennu li palazzi

ca lu frusteri ammira,

ripensa amaramenti

all’ortu nicareddu

di lu so paisi anticu,

a dda casa nicuzza

ca pensa d’accattari

quannu riccu ritorna

tra sti muntagni amati.

Cu’ non ha statu mai

‘na sula vota almenu

di sti pinseri afflittu

si malasorti agghica

all’antrasatta e premi!

Cu’ , alluntanatu a forza

di parenti e amici

nun ha pruvatu mai

lu perfidu frastornu

di perdiri spiranza

e fidi di turnari

a vidiri sti munti,

assicutannu cosi

ca canusciri ‘un vuleva

e poi mai, mai pinsari

lu mumentu precisu

di putiri turnari

a rividirli ancora.

Addiu casa nativa,

unni assittatu soru,

cu’ pinseri ammucciati

s’imparava a capiri

senza sapirli ancora

tra l’ascutati passi

chiddi vuluti forti

e chiddi non graditi.

Addiu casa furastera,

casa taliata a casu

di cursa tanti voti

passannu cu’ disiu,

ca la menti pinsava

di viviri tranquilla

in vesti di muggheri.

Addiu Chesa di Diu,

dunni sirenu l’animu

turnò cantannu lodi

a lu Signuri in cruci;

unni era già prumissu

e priparatu ‘n-ritu,

unni ammucciata in pettu

nutreva la spiranza

d’avirlu binidittu

e vidiri agghicatu

l’amuri decretatu

perenni e santu; addiu!

Tanta filicità

ca li muntagni dunanu,

lu è pi’ tuttu e giova

puru a li figghi dopu,

ca trovanu ‘na vita

assai cchiù duci e granni.

 

    

 

 

Nosotros esperamos que Dios no revolve aquì.

 

Cuando Dios se cansò de crear lo todo creò en seis dias, tomado asiendo en cima de una nube opinò: – Ahora venimos a reposar dentro de poco por educar l’hombre que Dios sòlo no se cansa. Esta cosa justa no fue de gusto a los hombres apenas creados, los  cuals comenzaron a litigar si reposar el sabado o el domingo. No finiò esta guerra santa, cuando otra guerra explotò sindacal.  No unica dia de reposo basta, opina algien, mucho instruido, porque Dios no he determinado horario cotidiano de trabajo y horario semanal, que no era poco por crear todas cosas. Dios no fue sindacal; no una dia, mas duas dias de reposo eran precisos. Digo que Dios pona en duda la creaciòn de l’hombre rey de todo, mas tonto.  Dios dice: - Decido una dia de reposo semanal y ello quere duas; decido no tocar la manzana y la coma;  a ello doy la muyer y la mata. No hablo des hijos que se matano entre ellos bastonando; no hablo des otras

cosas malas que hacen, mas no perdono que crucuficeron meo hijo.

Yo digo que es preferible no hacer estas cosas malas antes de suya decision de rehacer el diluvio universal, como ello pasado. No digo de ser ovejos, mas sensatos. No muertos, no bombas, no cuchilladas, porque la muerte no vale nunca y hace echizar Dios.

 

Questa lettera in spagnolo ho scritto a Milly,  non solo per esprimere il mio pensiero in proposito, ma per farle capire che a forza di leggere i suoi post, ero riuscito a scrivere, io, che non conoscevo nemmeno una parola di spagnolo, ero  a scriverle una lettera in una lingua neo-latina. Non era per dimostrare la mia bravura, ma per dimostrarle che tra italiano e spagnolo non vi è molta differenza e che con un po’ di buona volontà si riesce a capire quasi tutto …

Attendevo una risposta per conoscere il suo commento … Ho atteso invano. Nessuna risposta … Sono andato sul suo profilo e … niente Nessun contatto o risposta a saluti, faccine ed altro.

Ho pensato che non volesse più corrispondere … Ma ecco, che dopo un mese una sua congiunta ha scritto sul suo sito che Milly era volata in cielo e che da quel momento veniva dismesso l’account. Aggiungeva di pregare per la sua anima.

Non vi nascondo che mi sono commosso …

 

 

 

Commento al romanzo LA CAMELIA DEL PARTIGIANO di Claudia Tortora

 

  Questo commento ho scritto leggendo i libro di Claudia  Tortora premiato dalla casa Editrice AKKUARIA  a Catania durante la manifestazione delle vie dell’arte del 2019

 

     Gentilissima Claudia Tortorella,

 

ho terminato di leggere il tuo romanzo storico “LA CAMELIA DEL PARTIGIANO”, dove con molta attenzione ed una descrizione realistica prospetti gli aspetti cruenti della seconda guerra mondiale con particolare riferimento alla nascita del movimento di resistenza partigiana colorandola di un romanticismo che si addice a tutte le imprese permeate da idealismi universali.

     Intanto comincio col dire che chiamarti Tortorella mi è venuto spontaneo per due motivi ben precisi. Il primo è che, oltre a ricordarmi le vicissitudini  del povero Tortora televisivo, mi sono venute in mente, spigolando tra i capitoli del tuo romanzo, le tortorelle che nel periodo estivo allietano con il loro caratteristico tubare il mio risveglio giornaliero nella mia casetta a mare, soggette agli attacchi di pellicani affamati ( crudeli nazisti e fascisti) ed il mio assomigliare ad un Gufo (partigiano motivato) che osserva in silenzio le vicende da te narrate, spiandole con una attenzione particolarmente acuta con l’intento di coglierne gli aspetti più salienti.

 

     La prima cosa che mi è saltata all’attenzione è il tuo narrare tutta la vicenda nei panni di un autore maschio, sapendo che a scrivere è invece una donna. Sostanzialmente tu, da donna, hai avuto il coraggio di assumere la personalità del personaggio narrante  “Ruggero, alias Ruggine”, mentre sarebbe stato più  naturale che tu raccontassi il tutto dandone, ad esempio, l’incombenza a Margherita, personaggio femminile.

    Anche se, forse , anzi sicuramente, il tuo scopo principale  era quello di descrivere la vicenda storica del movimento partigiano, tuttavia il romanzo segue il canovaccio romantico di un amore tra i due protagonisti principali, appunto Ruggero e Margherita, che diventa espressione di sentimenti universali  e l’aia di tutto il libro

    A raccontare i fatti in prima persona è Ruggero con la mano ed una preparazione culturale di una donna.      Hai avuto un bel coraggio, poiché ne poteva venir fuori un bel papocchio. Invece ne è venuta fuori una figura di uomo perfetta con la singolare prerogativa di avere le caratteristiche che tu, in quanto donna,  vorresti od hai già apprezzato. Sì, proprio la figura emblematica dell’uomo ideale sognato da tutte le donne: innamorato, altruista, comprensivo di eventuali difetti o precedenti esperienze della donna amata, rispettoso della sua libertà e delle sue debolezze e lontano dal fenomeno di violenza alle donne, nonostante quest’ultima fosse in auge grazie alla guerra in atto. Un vero eroe romantico degno delle favole del dopoguerra raccontate da Bolero o da Grand Hotel nel clima conturbante bellico. Anche gli altri personaggi del romanzo assumono quella colorazione rosa del tuo acume poetico.

 

     La seconda cosa che mi è saltata all’evidenza è la perfetta conoscenza dell’ideologia partigiana ed il suo procedere all’assuefazione alla violenza, nonostante il punto di partenza fosse la lotta a quest’ultima. La figura di Paolo-Gufo ne è l’espressione più evidente. Egli aborrisce quella insulsa guerra, diventa disertore, teme per la salvezza di quanti lo aiutano o nascondersi, matura il disegno di combattere quella forma di violenza praticata dai tedeschi, ma, alla fine riconosce di essersi anche lui ubriacato di potere essendo diventato capo di una formazione partigiana e, come coloro che combatte, diventa anche lui  duro, violento, inflessibile, calcolatore e privo di umanità. E’ la guerra il motore di questo circolo vizioso che coinvolge i nemici ignorando la pietà , anche se sperata . 

     Non solo l’ideologia del movimento partigiano emerge dal racconto, ma anche il metodo di lotta, fatto di resistenza attiva e sotterranea nei confronti del mondo fascista, adottandone  in parte lo spionaggio ed il silenzio prudente. Mi torna alla mente il famoso cartello  fascista  del “Taci, il nemico ti ascolta” adottato anche dai partigiani nei confronti dei fascisti. Sostanzialmente il partigiano assume gli stessi atteggiamenti e le stesse movenze di lotta del malefico ed aborrito nemico.

 

    La terza cosa che mi ha colpito è la descrizione apocalittica del bombardamento di Treviso da parte degli alleati, che coinvolgeva nel danno fascisti ed antifascisti nello stesso tempo. Gli alleati cercarono di giustificarne l’evento per motivi di eliminazione di obiettivi militari, ma in realtà  la  loro strategia era quella di stancare la popolazione ed indurla alla rivolta contro il potere fascista. Una specie di terrorismo capziosamente  camuffato da esigenze salutari e benefiche per l’umanità coinvolta.   

I  bombardamenti a tappeto avvennero a Treviso, in Sicilia ed ovunque in Italia ed in Germania senza alcun rispetto per la popolazione civile. Le identiche scene di strazio e di dolore io ricordo di aver visto a Castelvetrano, in Sicilia, dove mi trovavo bambino insieme alla mia famiglia. Vi era in quella cittadina un aeroporto militare, dove mio padre, sergente maggiore del personale di terra dell’aviazione faceva servizio. Gli alleati non si limitarono a bombardare l’aeroporto, poiché di volta in volta rovesciavano bombe a iosa pure su tutto il paese distruggendo case, chiese strade senza alcuna distinzione nella scelta degli obiettivi.

 

     La quarta cosa che mi ha colpito è la sintonia tra questo tuo lavoro e la mia filosofia di vita, che ho espresso nel titolo del libro che hai avuto in dono da Vera Ambra: “TUTTO PASSA E CAMBIA”.

In conclusione, nel tuo romanzo, passata la bufera della guerra, tutto ritorna come prima, compresi i pettegolezzi, le piccole cattiverie di ogni giorno, il trionfo del sentimento sulle ideologie e lo stesso perdono occhieggia tra gli ultimi approcci alla realtà. Tutto esattamente come nella mia raccolta di racconti autobiografici, dove li distinguo   in due settori: quello della guerra e quello del dopoguerra. Nel primo racconto la guerra vista con gli occhi del bambino che ero e nel secondo gli episodi della vita che continua, scevra di odi repressi e volta alla gioia di vivere cercando di mettere una pietra sul passato. Ritengo che dopo tanto odio d’ambo le parti, non può non emergere il bisogno del perdono per continuare a vivere e non piombare nella disperazione. Questo mio pensiero, emerge anche da due mie poesie che trascrivo in calce. Esso mi  sembra rispecchiato nella conclusione del tuo romanzo.

Sei stata bravissima a gestire e curare gli aspetti di tutti i personaggi nel groviglio di eventi veramente tremendi ed anche lontani dalla tua realtà. Io non ci sarei mai riuscito. Proprio per questo mi piace scrivere, oltre alle poesie, dei racconti più o meno brevi. Da questo punto di vista, forse sono un po’ pigro, anche nel leggere. Cosa quest’ultima che facevo nei piccoli intervalli che il lavoro mi concedeva.

Per quanto concerne lo stile, trovo abbastanza scorrevole ed incisivo il tuo modo di raccontare, che rifugge dalla ricerca di espressioni retoriche con un approccio al linguaggio comune. Mi piace il tuo ricorrere ai dialoghi diretti che favoriscono l’immediatezza dei concetti espressi

 

Pippo Nasca

 

Riporto i testi delle mie poesie citate in proposito.

 

.Pag  63  e 74 del mio libro Scarabocchiando briciole di sogni, edito da Lampidistampa  on line

 

 

 

VENTICINQUE APRILE.

 

Il ticchettar spasmodico e compatto

delle chiodate scarpe sul selciato

ormai non s’ode nella piazza antica

perché cessò la guerra ed ora pace

nel cielo aleggia rotta solamente

dal cicaleccio della gente in festa.

Non più di condannati i corpi esposti

al crepitare di spianati mitra

né sul balcone sventolante arcigna

la svastica signora della morte

ma solo il rintoccar dell’orologio

in cima al campanile della chiesa

circondato dal volo dei colombi

o dal notturno e silenzioso canto

delle candele accese per la pace.

La nube, stesa all’orizzonte, pare

Giuditta che conosce dove giace

la testa d’Oloferne, ma lo tace

sotto quel rosso lieve che traspare

per dire al mondo intero che la pace

è ritornata in terra e che l’oblio

già vinse la violenza del passato.

Non più quei corpi stesi sul selciato

nell’orrido scenario dell’eccidio

convien mostrare al vindice futuro,

ma del perdono sollevar la voce

fino a toccar le stelle e l’infinito

poiché non teme la giustizia il pianto

dell’uomo che perdona e in Dio confida.

 

GARRISCE LA BANDIERA.

 

Garrisce la bandiera

sui corpi dei caduti

vittorie celebrando

del prode condottiero,

ma tutt’intorno il pianto

si leva su dal campo

di donne disperate

che più non rivedranno

mariti e figli uccisi.

La tromba allora inonda

d’ipocriti gorgheggi

il cielo cupo e spande

le note del “Silenzio”

per celebrar la morte

dell’umile soldato,

che certo non mirava

d’aver cotanto onore!

La scelta si conviene

di celebrare i morti

a chi la morte arreca

in nome di qualcosa

che forse non la vale.

 

 

 

 

 

VIVA IL CIOCCOLATO

 

     Ho terminato di leggere questo interessantissimo libro edito da AKKUARIA e curato da Vera Ambra.

Non vi nascondo che in me sono nate delle perplessità in merito alla classificazione del libro, che non so proprio definire.

Ho pensato di definirlo un manuale del cioccolato, dei suoi pregi e delle sue qualità olfattive e nutritive, ma non è solo quello. 

Vi sono dei racconti, delle poesie, degli aneddoti , dei riferimenti storici, delle considerazioni che superano l’elenco dei suoi modi per essere confezionato e gustato. Pertanto non è un manuale da utilizzare da parte di chi per professione fa il dolciere.

Non è neppure un rigoroso trattato scientifico, atto a rilevare le qualità organolettiche e gustative o che descriva il suo modo di offrirsi in commercio.

Non è tutto di tutto questo ma in effetti lo è nel modo più completo ed assoluto, stupendamente descritto dai vari autori sia in prosa che in versi.

Lo possiamo solo definire  il libro del cioccolato, dove convivono insieme a profusione e senza esclusione d’alcunché tutte le caratteristiche e qualità di questo prodotto, descrivendone qualità aspetto, impiego, origine, evoluzione del suo impiego nel tempo, fatterelli piccanti, storielle e poesie d’amore, apoteosi del suo gusto, località di produzione e di perfezione, citazioni di persone che di tale prodotto ne hanno fatto un monumento che emerge e supera ogni altro tipo di dolci anche nel campo della sua confezione ed uso nell’industria dolciaria.

     Figuratevi che qualcuno è andato fino anche  a scoprire che al povero Re Sole, Luigi XIV,  si aggiunsero due raggi spuri al suo splendore, che lo resero … più splendente, bevendosi la storia che la moglie avesse dato alla luce una neonata  mora a causa del troppo cioccolato da lui  consumato durante il loro rapporto amoroso.

     Sembra proprio quasi gustare il suo profumo e la sua dolcezza nel leggere le poesie che aleggiano intorno a questo prodotto, introdotto in Europa dal nuovo mondo dopo la sua scoperta  nel 1492, avvenuta da parte di Cristoforo Colombo.

      Con la pubblicazione di questo libro Vera Ambra e la sua casa editrice AKKUARIA hanno effettivamente raggiunto il massimo nel descrivere tutto ciò che concerne il cioccolato.

     A questo punto non posso non definire questo libro, che uno zibaldone il cui personaggio principale, anzi unico, altri non è se non il cioccolato con in testa la corona ed in mano lo scettro di monarca assoluto del mondo favoloso dolciario per il suo largo impiego  nella corrispondente industria.

   Di questo monarca, viene rivelato tutto, dalla sua provenienza al suo impiego totale, comprese le leggende che nacquero intorno alla sua nascita ed al suo arrivo in Europa sui Galeoni spagnoli ed inglesi.

Per saperne di più e totalmente, non è necessario andare a consultare l’enciclopedia Treccani. Basta cercare in questo libro e trovarne la risposta legata ad ogni quesito-

    “Cento dieci cum laude” a Vera Ambra, al suo libro e ad AKKUARIA, che ha rivelato la sua potenzialità non solo poetica, ma anche utilitaria. Diciamo meglio che ha saputo sposare l’utilità con il sentire poetico e l’amaro-dolce di questo pregiato miracolo della natura.

Lunga vita al cioccolato.