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dai "Ricordi di un viaggio in Sicilia" 

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CONTATTI

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Gocce d'inchiostro

ispirazioni in prosa su Catania

 

 

“E' il raccontare la raison d’être della prosa artistica” 

 

                                                                         SAAC BASHEVIS SINGER

 

*******

 

 

 

 

da "Ilaria e Catania" di Pippo Nasca

 

 

Il "LIOTRU" emblema di Catania.

Chi l'ha messo lì? E chi lo sa?

 

 

.......Quell’elefante lì, il Liotru, ne è l’emblema. Chi l’ha messo lì? E

chi lo sa? Forse c’è sempre stato per ricordare che una volta alle

falde dell’Etna vivevano degli elefanti, anche se di dimensioni più

ridotte   di   quelli   africani.   Non   è   una   favola!   Alle   falde  

dell’Etna vivevano gli elefanti  nani  A confermarlo  basta risalire al mito di

Polifemo. Gli antichi Greci inventarono la figura di questo gigante

monoculare, perché scambiarono per umani dei teschi enormi, qui

trovati, con un grosso foro al centro, da cui fuorusciva certamente la

proboscide. Inoltre, i recenti studi geologici hanno messo in evidenza

che miliardi di anni fa il mar  mediterraneo era un bacino chiuso,

essendo   lo   stretto   di   Gibilterra   una   striscia   di   terra   che   univa

l’Europa   all’Africa.   L’effetto   termico,   nel   tempo,   produsse   la

completa  evaporazione delle  sue  acque, per cui l’area dell’attuale

mare altro non era che un’immensa pianura tra l’Europa, l’Africa e

l’Asia. Sì, i tre continenti, un tempo erano un tutt’uno, dove la fauna

e l’uomo potevano circolare senza il limite imposto dalle acque. È

plausibile, quindi, che degli elefanti vivessero in pianta stabile in

quest’area.

 

In  seguito al  conseguente  assottigliamento  della   crosta   terrestre

per l’eccessiva depressione, il fenomeno del cozzo delle tre placche

continentali (Europa, Africa e Asia), dette origine al corrugamento di

questa superficie, creando anche delle fratture vulcaniche lungo tutta

la linea di contatto. Ne scaturì un enorme e gigantesco movimento

orogenetico accompagnato da terremoti, che provocò il sollevamento

di molte aree di quella sconfinata pianura, dando origine alla catena

degli Appennini e a tutta una serie di vulcani.

 

Contemporaneamente, lo stesso movimento orogenetico provocò

una frattura della striscia di Gibilterra, consentendo all’oceano Atlan-

tico   di   sversarvi   le   sue   acque.   La   conseguenza   di   questo

sconvolgimento   fu   l’attuale   assetto   del   mar   mediterraneo   con   la

penisola   italiana,   tutte   le   isole   esistenti   e   tutti   i   vulcani   che   si

estendono nella fascia che va da Santorini in Grecia, all’Etna e a tutti

gli altri vulcani a Nord della Sicilia fino al Vesuvio.

 

È certo che molti animali, trovandosi imprigionati dalle acque in

Sicilia e senza un ambiente idoneo si siano estinti. Tra quest’ultimi

l’elefante, che allora doveva essere di dimensioni ridotte e che solo

in Asia e di più in Africa trovò le condizioni ottimali per svilupparsi

e crescere di volume fino all’attuale stazza.

 

Ritornando al nostro elefante in pietra, si sa poco del suo scultore

e della sua reale messa in opera. Ci viene in ausilio la leggenda di

Eliodoro, un uomo  che agli albori del cristianesimo,  non potendo

diventare vescovo di Catania, per dispetto, ricorse alle arti magiche e

al demonio, diventando la spina nel fianco della chiesa e dei catanesi.

Una volta catturato fu spedito a Costantinopoli per essere giudicato

dall’imperatore di Bisanzio. Questi compariva e scompariva a suo

piacimento   cavalcando   l’elefante   (che   dal   suo   nome   dialettizzato

 diventa: liodoro, dioru, diotru e poi liotru) prendendosi beffe di tutti

e trasformando le pietre in oro e viceversa. Alla fine Eliodoro fu arso

vivo   dentro   una   fornace   accompagnato   per   mano   dallo   stesso

vescovo che ne uscì indenne con tutti i paramenti sacri.

 

Dopo questi fatti leggendari, il mostruoso elefante venne posto ad

adornare il portico di un edificio ubicato nella piazza dove, sui ruderi

delle vecchie terme Achillee, era stata intanto costruita la chiesa in

onore di Sant’Agata.

 

Quasi dimenticato da tutti per i trascorsi leggendari di Eliodoro,

sembra  che da  quel posto non lo abbia  mai  più smosso  nessuno,

nonostante i frequentissimi terremoti, le colate laviche dell’Etna e gli

straripamenti dell’Amenano, che scorreva nei pressi. Ma nel 1693 un

tremendo   terremoto   completò   l’opera   di   distruzione   della   città,

iniziata con la colata lavica del 1669.

 

Questo  terremoto  ebbe il potere di seppellire l’elefante sotto le

macerie dell’edificio che era diventato la sua casa, spezzandogli le

gambe. Si salvò dall’oblio, grazie al Vaccarini, che lo posizionò al

centro di una fontana, alimentata dall’Amenano e ubicata nell’attuale

piazza Duomo, sopra un basamento in marmo bianco e avendo anche

recuperato un vecchio obelisco, glielo mise sul groppone, munito di

sella   marmorea.   In   cima   all’obelisco   pose   anche   i   simboli   della

cristianità per attutire la cattiva fama di quel mostro di pietra, non

tanto gradito dal mondo cristiano. Ne venne fuori un simbolo che

racchiudeva   storia,   leggenda   e   vicissitudini   della   città.   Una   vera

lungimirante intuizione del Vaccarini, destinata a durare nei secoli.

 

Fin da allora è rimasto lì, muto osservatore della vita cittadina. In

tutto questo trascorrere del tempo ha visto distrutta la fontana che gli

stava   sotto,   ed   è   stato   testimone   della   scomparsa   dell’Amenano,

dell’abbattimento   della   cancellata   in   ferro   costruita   attorno   a   lui,

della nascita e della morte dei tram, del rifacimento del basolato della

piazza e ha sentito e visto le proteste e gli scioperi dei catanesi di

tutte le epoche davanti alla casa municipale ed è rimasto sempre lì,

imperturbabile e sornione. Diciamo che ha rischiato grosso il giorno

in   cui   nel   1862,   come   racconta   il   Cristadoro:   l’allora   sindaco,   il

Marchese   di   Sangiuliano,   mosso   d’antipatia   nei   suoi   confronti,

adducendo la necessità di consentire una migliore circolazione delle

carrozzelle e della stessa processione del fercolo di Sant’Agata, non

decise di rimuoverlo da quel posto.

 

 Nonostante i mugugnii e i tumulti del popolo scontento, la sua

rimozione   stava   andando   in   porto.   A   salvarlo   dallo   sfratto   fu   il

Capitano   della   Guardia   Nazionale,   Cavaliere   Don   Bonaventura

Gravina che, con la spada sguainata, impose  alle maestranze  e al

sindaco, in nome del popolo, di non rimuovere il Liotru da lì, poiché

quello era il suo posto.

 

Un altro pericolo lo corse anche ai tempi di Federico De Roberto,

amico del Verga, che al Consiglio Comunale avanzò una petizione

per togliere dalla piazza quel mostro, così tanto in contrasto con la

santità e grandiosità del Duomo. Non fu ascoltato e non se ne fece

nulla, così come nulla poterono le bombe dell’ultima guerra, piovute

a tappeto su Catania.....

 

 

 

L'Amenano, il fiume che c'è e non c'è

e il Longane, il fiume fantasma 

 

 ........Non solo la magia si sente a fìor di pelle nella piazza del Duomo,

ma anche il mistero, quello del fiume che c’è e non c’è: l’Amenano.

Aggiungo che non è il solo fiume misterioso che bagna Catania. Ve

n’è   un  altro,   più  a   nord  similmente   sbalorditivo:   il   Longane,   che

nessuno vede, ma che esiste!

 

L’Amenano è per Catania quello stesso che è il Tevere per Roma o

l’Arno   per   Firenze.   Era   usanza,   ai   primordi,   formare   agglomerati

umani sulle rive dei fiumi per usufruirne le acque e per smaltire i

rifiuti urbani a valle, cosa, quest’ultima, solo oggi non consentita.

Ebbene, Catania non sfuggì a questa tendenza. Essa sorse sulle rive

di questo fiume che scorreva libero sul territorio e sfociava a delta

nel   mare   Jonio.   Uno   dei   rami,   che   attraversava   l’attuale   piazza

Duomo, dopo aver fornito le acque per le Terme Achillee, ubicate

laddove   adesso   sorge   la   cattedrale,   sversava   le   acque   nel   mare

antistante all’attuale Villa Pacini, un altro ramo proseguiva a sud,

fornendo le acque per l’irrigazione degli orti che sorgevano nella

zona Za’ Lisa.

 

Ti   chiarisco   subito   che   le   terme   si   chiamavano   Achillee,   non

perché Achille vi si facesse la toilette ma per il fatto che qui venne

trovato un graffito riferito all’eroe greco. Inoltre il termine  Za Lisa

viene   dal   romano  Latia   elisia,   ovvero   “pianure   felici”,   appunto

perché erano lussureggianti. Ciò non esclude che qualcuno non abbia

aperto in quella zona qualche trattoria o fondaco con il nome “nta Za

Lisa”.

 

È stato dimostrato che questo fiume nasce dall’Etna nei pressi di

Randazzo. Le continue e successive colate di lava lo hanno coperto,

ma ugualmente ha continuato a scorrere sotto la lava raggiungendo

Catania. In seguito al tremendo terremoto del 1693, in fase di rico-

struzione della città, venne deciso di coprirne il percorso per evitare i

miasmi che esso emanava, essendo state le sue acque inquinate da

carogne in putrefazione. Le acque vennero incanalate in un unico

letto e prima di far loro raggiungere il mare sotto traccia, vennero

fatte comparire in piazza Duomo nella fontana detta di   L’acqua a

linzolu.   Proprio   in   questi   ultimissimi   tempi,   un   canale   è   stato

costruito sotto la villa Pacini, che raggiunge una fontana sorta in

piazza Borsellino (ex Alcalà). Questo fiume fantasma che compare

ormai nel momento in cui sta per raggiungere il mare, di tanto in

tanto appare anche in città.

 

Se tu un bel giorno tornerai a Catania e accetterai il mio invito, ti

condurrò a cena sulle rive sotterranee dell’Amenano! Ho scoperto,

proprio   all’inizio   del   traforo   ferroviario   sotto   piazza   Federico   di

Svevia, presso la chiesa della Madonna dell’Indirizzo (o ‘ntrizzu)

una trattoria la cui cantina è a contatto con il letto del fiume ed è

stata attrezzata come saletta da pranzo; pertanto offre la possibilità di

cenare non solo al lume di candela, ma anche ascoltando il gorgoglio

dell’acqua che scorre. Bello, no?!

 

L’altro   fiume   fantasma   di   Catania   è   il   Longane,   quest’ultimo

nasceva alla Barriera e attraversando il terreno di Leucate puntava

dritto a nord di Catania, formando un canale, detto Canalicchio, per

sversare   le   sue   acque   a   estuario   in   una   larga   insenatura,   detta

Lognina, che costituiva il vecchio porto di Catania. Il suo percorso

era al di fuori della cerchia muraria della vecchia Catania, ma ormai

scorre sotto il territorio della città allargatasi nel tempo.

Questo fiume, colata su colata, fu ricoperto dalla lava dell’Etna e

Leucatia, Canalicchio, l’Ognina diventarono terreno sciaroso su cui

sono sorti gli omonimi quartieri.

 

Il Longane cosa ha fatto? Zitto zitto, quatto quatto, ha continuato a

scorrere sotto la lava andando a sversare le sue acque sotto gli scogli

di Ognina. Anche la stessa fonte è stata coperta! In quel punto vi era

una fontana che ha finito per non sversare più acqua.

 

Il Canalicchio ha solo conservato il nome, poiché oggi è costruito

interamente da case e strade.

 

L’area del porto di Ognina, che doveva essere grande, se è vero

che riusciva a dar ricovero all’intera flotta spagnola, è stata coperta

interamente dalla lava. Del resto, nel quartiere vi è una strada, chiamata   via   Porto   Ulisse,   che   ricorda   il   molo   di   questo   porto,   così

chiamato, che dà l’idea della sua ampiezza.

 

Come puoi notare, il senso di mistero e di magia, che aleggia su

Catania, è dato non solo da quell’elefante di piazza Duomo ma anche

da questi due fiumi fantasma che, quasi per miracolo, continuano a

vivere resistendo ai furori dell’Etna.

 

 

  

Nulla   resta   o   pochissimo   della   vecchia   Catania

 

Se tu rifletti attentamente, tutta la città di Catania ha qualcosa di

misterioso e di magico anche in tutta la sua storia, riuscendo a mostrarsi

come un fantasma redivivo di se stessa.

 

Nulla   resta   o   pochissimo   della   vecchia   Catania,   quella   greca,

romana, araba e bizantina. Nulla che sia anteriore alle fatidiche date

del 1669 e del 1693. Solamente qualche vestigio, qua e là.

 

L’ultima eruzione su Catania, quella del 1669, è stata micidiale.

Ha   distrutto  il   laghetto  di   Nicito,   ha   ingoiato  le   vecchie   mura   di

Catania, ha sommerso tutta la spiaggia che dalla Plaja si estendeva

verso nord, ha invaso il mare, rubandogli spazio per qualche miglio.

In Piazza Federico di Svevia, dov’è situato il castello Ursino, vi

era l’acqua intorno essendo stato costruito da Federico II su una rupe

circondata dal mare, appunto per consentire la difesa della città da

eventuali attacchi marini. La lava ha inghiottito tutto, risparmiando il

castello, grazie all’esposizione del velo di Sant’Agata, come riporta-

no le cronache del tempo.

 

Laddove adesso c’è il porto, vi era spiaggia dorata come quella

della Plaja, la quale venne fagocitata dalla colata lavica. Ti faccio

notare che il nome Ursino, dato al castello, ricorda questa circostan-

za. Infatti, la parola ursino altro non è che l’ulteriore trasformazione

del termine dialettale “o sinu” poiché per l’appunto il maniero era

allora denominato “u casteddu ‘o sinu” (il castello del seno); cioè il

castello   costruito   nel   seno   del   mare;   la   denominazione   rimase,

nonostante il mare fosse stato invaso dalla lava dell’Etna.

 

Il terremoto del 1693 completò l’opera di distruzione, abbattendo

tutto ciò che il vulcano aveva risparmiato. Catania morì, insieme al

suo fiume e le sue antichità greche, romane e arabe. Su questa città

morta emerse il suo fantasma vestito di rococò con qualche piccola

traccia di un mondo perduto, annegato nell’incandescente magma del

vulcano. Molte città dell’Asia, delle Americhe e della stessa Europa,

che hanno subito l’impatto di elementi negativi, sono scomparse del

tutto, inghiottite nel nulla dal tempo, invece Catania è risorta nello

stesso posto con caparbia volontà, nonostante il pericolo incombente

del vulcano e delle catastrofiche previsioni. Queste ultime non sono

modeste e le leggende, fin dall’antichità, ricordano la loro esistenza e

la loro consistenza confermate da recenti studi geologici.

 

A prescindere dal pericolo di terremoto, che scaturisce dal cozzo costante della placca euroasiatica contro quella africana e la conseguente frattura che ha dato origine ai vulcani che pullulano a nord della   Sicilia,   esiste   la   possibilità   che,   sull’esperienza   dell’isola   di Santorini e della stessa valle del  Bove dell’Etna, un bel giorno, anzi,un cattivo giorno, l’Etna potrebbe implodere, facendo inghiottire dal mare i territori circostanti e, gioco forza, Catania.

 

Un simile fenomeno si è verificato nel mar Egeo, dove un intero

vulcano   è   imploso   creando   un’immensa   caldara,   attorno   al   quale

sono rimaste emerse le isole di Santorini. Lo stesso fenomeno si è già

verificato sull’Etna milioni di anni fa, il quale ha fatto implodere un

suo fianco, creando l’immensa valle del Bove. Nel primo caso è nata

la leggenda di Atlantide, un continente, esistente in qualche parte del

mediterraneo, scomparso perché inghiottito dal mare. Nel secondo

caso invece è nata la mitica leggenda del pastorello Aci, distrutto da

Polifemo per amore di Galatea.

 

Aci era un fiume che nasceva dall’Etna e sversava le sue acque

ricchissime   di   fauna   marina   a   delta   a   nord   di   Catania.   La   ninfa

Galatea si innamorò di questo fiume personificato in un pastorello

che sapeva incantarla al suono del flauto e andava a trovarlo fino alle

sue sorgenti intrattenendosi a fare l’amore con lui. Ma Polifemo, con

quel suo occhio vigile, prima che Ulisse lo accecasse, punto da una

forte gelosia, al fine di possedere la ninfa, si munì di una grossa pala

e incominciò a rovesciare la lava incandescente sul povero Aci che

infine morì e scomparve per sempre; la leggenda si concluse con lo

stupro di Polifemo su Galatea, da cui nacque Galati che, allevato

dalla  madre   sulle   rive  del  mare,  dette   il  nome  a   un paesetto che

ancora oggi è chiamato così.

 

Come   non   bastasse   nacque   pure   la   leggenda   di   Colapesce,   un

mitico pescatore, mezzo uomo e mezzo pesce, che tuffatosi nel mare

non riemerse mai più perché rimase a sostenere la Sicilia, che stava

per affondare, con la forza delle sue braccia. 

 

 

 

Piazza San Cristoforo: qualcosa è cambiato

 

  

Ho rivisto la vecchia chiesa di San Cristoforo, quella la cui entrata

si affaccia in via Plebiscito, tra gli sbocchi di via Belfiore e di via

Juvara. La facciata esterna non presenta alcuna variazione rispetto

agli anni del dopo guerra. Nemmeno l’ambiente circostante sembra

aver subito in apparenza dei cambiamenti: la stessa ressa di gente e

di   bancarelle   allo   sbocco   di   via   Belfiore,   la   stessa   piazza   San

Cristoforo, dove in fondo troneggia la vecchia Manifattura Tabacchi,

il vociare della gente e il traffico assordante delle auto. Ma se ci si

sofferma a guardare attentamente, ci si accorge che alcune cose sono

cambiate. Non vi sono più le rotaie dei tram né la linea elettrica

aerea,   dalla   quale   i   trolley   prelevavano   l’energia   di   propulsione.

Quest’ultima fu più longeva delle rotaie, poiché servì per un certo

periodo a far andare i filobus, i quali sostituirono i tram. Alla fine,

quando si pensò di sostituire anche i filobus con autobus di linea a

diesel, venne cambiato del tutto il basolato in lava di tutta la via

Plebiscito con il più “comodo” asfalto. La stessa sorte subirono Via

Garibaldi, via Vittorio Emanuele, via Etnea, Piazza Duomo e tutte

quelle vie o piazze che avevano ospitato le vecchie rotaie dei tram,

tra le proteste dei cosiddetti “scalpellini”, che vedevano così svanire

per il futuro una sicura fonte di lavoro, costituita dalla fornitura delle

basole di lava dell’Etna.

 

Oggi, forse, a fianco degli scalpellini, sotto la funcia (proboscide)

del Liotru, avremmo avuto anche gli ecologisti, pronti a difendere

tutto ciò che è naturale; è fuor di dubbio che l’asfalto non fa poi tanto

bene alla salute, anche se più comodo da mettere in opera. Ho notato,

con  mio   grande  plauso,  che  via  Etnea  e  piazza  Duomo,   dopo  un

intermezzo di sampietrini, sono ritornati al basolato lavico con degli

effetti artistici stupendi, nonostante le critiche al vecchio sindaco,

Scapagnini, che intanto è anche passato a miglior vita.

 

A voler spingere lo sguardo avanti, ci si accorge che davanti alla

piazza di San Cristoforo è stato installato un rifornitore di benzina e

che la stessa piazza, al centro, ospita delle aiuole, regolarmente in

estremo abbandono, parzialmente occupate da auto in sosta e rifiuti.

Ricordo che quando non vi erano queste aiuole, costate chissà quanto

al   comune,   quello   spazio   era   adibito   a   utile   posteggio   di   veicoli

mimetizzando almeno in parte l’atavico abbandono dei luoghi.

A destra della facciata della chiesa, dove sbocca la chiassosa via

Belfiore, la piazzetta triangolare, da cui si accede a via Abate Ferrara

e a via Di Giacomo, è rimasta simile ad allora. Vi sono più auto di

allora in sosta e inoltre sono cambiate le insegne dei negozi; sulla via

Plebiscito   vi   è   ancora   la   farmacia   del   fu   dottor   Suma,   ma   è

scomparso l’emporio di calia (ceci infornati), calacausi (arachidi),

castagne napoletane, mostarda e altra frutta secca “d’o   Cantaturi”.

(Non so perché lo chiamassero così; forse perché “cantava” con le

forze dell’ordine o forse perché una volta faceva il cantante.).

È pure scomparsa La Portoghese, una piccola industria artigianale

di caramelle, che ha dato luogo a un negozio di elettrodomestici.

Al primo piano di un palazzo prospiciente la piazzetta troneggiava

al di sopra del balcone un enorme cartello rettangolare con la scritta

DEMOCRAZIA CRISTIANA; era la sezione della D.C. tenuta dal-

l’Onorevole Cavallaro, deputato per due legislature e trombato alla

terza.   Da   quel   che   mi   ricordo   la   trombata   fu   dovuta   alla   sua

opposizione   all’assunzione   da   parte   del   Comune   degli   “spazzini

abusivi”; sosteneva che, per equità e trasparenza, il Comune avrebbe

dovuto bandire dei regolari concorsi e siccome, quando una volta a

Catania le strade erano sempre pulite, provvedevano a ritirare i rifiuti

dei   volontari,   che   dall’oggi   al   domani,   furono   definiti   abusivi,

l’onorevole Cavallaro, come  suol dirsi a Catania, al momento del

voto “si attaccò al tram.” Il suo elettorato, composto quasi tutto da

genterella,   che   raccoglieva   gratuitamente   i   rifiuti   della   città   e   li

rivendeva   ricavandone   di   che   vivere,   vedevano  sfuggire   non  solo

l’opportunità   di   essere   assunti   dal   Comune,   ma   anche   di   poter

continuare a fare quel lavoro che sarebbe diventato illegale; insomma

i   suoi   vecchi   elettori   considerarono   lesivi   dei   loro   interessi   la

posizione di “equità e trasparenza” assunta dell’onorevole Cavallaro

e nelle preferenze lo sostituirono con l’onorevole Turnaturi, proclivo

a difenderli. Anche se il mio ricordo è molto appannato per il tempo

trascorso, le cose andarono proprio così o quasi.

 

Alla sinistra della facciata della chiesa, dove adesso fanno mostra

tre grosse palle gialle, che rivelano l’esistenza di un emporio tessile

gestito   da   cinesi,   vi   era   un  laboratorio  a   conduzione   familiare   di

giocattoli   d’altri   tempi:   bamboline   di   tutte   le   misure,   girandole,

carrettini siciliani con cavalli di cartapesta, pulcinella che battevano

le   mani   spinti   da   un’asta   di   legno,   maschere   di   carnevale   e   altre

cosette d’immediata e semplice realizzazione.

 

A gestire la fabbrichetta, che era nello stesso tempo negozio, vi

erano due signore di mezza età e un uomo anche lui anziano, tutti e

tre fratelli. Ricordo che da ragazzo a volte mi fermavo a osservare il

loro lavoro. Quello che mi appassionava era veder nascere i cavalli di

cartapesta che poi venivano attaccati ai carrettini.

Niente di difficile: avevano degli stampi, che riproducevano le due

metà del cavallo, sui quali mettevano più strati di carta di giornale

inzuppata di colla vinilica liquida. Quando la colla si essiccava univano

le due parti e dopo procedevano alla colorazione, dipingendo

zoccoli, occhi, boccaglio e foge. Con la stessa procedura costruivano

le maschere in carta pesta. Ovviamente ogni manufatto poteva essere

pronto dopo quasi una settimana, ma loro eseguivano il loro lavoro

in serie e con ordine. Un giorno provvedevano allo stampo, un altro

all’essiccazione della carta, un altro alla colorazione del mantello,

un’altra ai vari disegni e così anche per la lavorazione degli altri

giocattoli.   Seguivano   un   certo   ordine:   una   specie   di   catena   di

montaggio dai rudimenti artigianali.

Lavoravano   senza   l’impellenza   della   vendita   immediata,   tranne

qualche cianfrusaglia, e accumulavano il prodotto, pronto a vendere

al momento opportuno e cioè, prima della fiera dei morti, prima del

carnevale e così via.

Certamente   non   guazzavano   nell’oro,   ma   riuscivano   ad   andare

avanti e non si stancavano mai di lavorare. Non so quando hanno

smesso la loro attività, poiché poi io mi sono allontanato da Catania,

ma sicuramente fino a quando non sono entrati in commercio altri

tipi di giocattoli più sofisticati.

Nel ricordare questo laboratorio, alcuni anni fa ho scritto questo

sonetto in vernacolo che mi piace riportare:

 

 Giucattuli d’autri tempi

 

All’angulu da chiazza di li morti,

supra na lapa ammunziddati stannu

li carritteddi di na vota e fannu

lu stissu effettu d’essiri risorti.

Na vota, quannu c’era fami forti,

li picciriddi annavanu jucannu

cu carritteddi nta li strati. Tannu,

nun c’eranu giucattuli cuntorti

e simuventi. Sulu di cartuni

mudillatu, cavaddi fermi e tisi

foru impaiati a carritteddi ‘i lignu,

pi’ picca sordi. Ma ora ti n’adduni

ca sunu cari ed hannu li pritisi

d’essiri antichi, a prezzu senza signu.

 

Traduzione: All’angolo della piazza dei morti/ sopra una moto-ape

ammonticchiati stanno/ i carrettini di una volta e fanno/ lo stesso

effetto d’essere risorti./ Una volta quando c’era fame forte/ i bambini

andavano giocando/ con i carrettini nelle strade. Allora/ non c’erano

giocattoli   complicati/   e   semoventi.   Solo   di   cartone/   modellato,

cavalli fermi e rigidi/ furono attaccati a carrettini di legno/ per pochi

soldi.  Ma  adesso te  ne accorgi/  che sono cari  e hanno le pretese

d’essere antichi senza limite di prezzo.

 

Per chi non lo sapesse “a chiazza de’ morti”, a Catania è la piazza 

dove   alcuni   giorni   prima   della   ricorrenza   dei   defunti,   vengono 

venduti dei giocattoli per i bambini, ai quali, poi, viene fatto credere, 

secondo le tradizioni, di essere stati donati dai parenti morti al fine di 

perpetuarne il ricordo. Il risultato è che un giorno di mestizia per gli 

adulti, diventa un giorno di gioia per bambini, con un significato 

molto   diverso   dalla   ricorrenza   dell’Epifania,   nel   quale   il   dono 

assume  una sacralità meno  religiosa, ma  profondamente  umana  e 

fortemente accostata al culto dei morti.

 

L’interno della chiesa, almeno la parte adibita al culto e alla Santa

Messa è rimasto come allora. Quand’era parroco Padre Mannino, da

molto tempo ritornato alla casa del Padre, ebbi a frequentare l’orato-

rio di questa chiesa, per ricevere la cresima e la prima Comunione

insieme,   dalle   mani   del   Vescovo   che,   se   non   ricordo   male,   era

Monsignor Bentivoglio, ora sepolto nel Duomo di Catania.

In verità non erano tempi belli quelli. I postumi della guerra si

facevano sentire ed economicamente non si guazzava nell’oro. Era

tutto limitato e misurato: niente sprechi e solo desideri molte volte

non appagati.

 

Eppure dall’alto dei miei tre quarti di secolo, penso con nostalgia a

quel periodo di serenità affettiva e familiare che mai più ritornerà pur

nel   bisogno   delle   cose   più   semplici   e   nell’amarezza   di   rinunce

talvolta   dolorose,   ricompensate   solo   dall’amore   e   dall’affetto   dei

miei genitori.

 

 

 

LA PESCHERIA A CATANIA

 

 

«Vossia a ciaurassi, ca ci l’ammoghiu!»  diceva il pescivendolo,

tirando   fuori   dalla   vasca   d’acqua   salata,   una   grossa   lambuca   e

passandola sotto il naso dell’occasionale avventore che si aggirava

tra i banchi della pescheria.

«Friscu, friscu è... Ora-ora arrivavu co’ vapuri!»

«Bello, bello! Signora taliasssi chi bello caponi!»

Egli dall’avventore era passato a mostrare il pesce a una signora

che si era fermata a guardare.

Il pescivendolo che gli stava accanto gridava a sua volta:

«U puppu, ci haiu u puppu. Ora, ora ‘u pigghianu all’ognina… Si

movi ancora...»

E mentre con una mano teneva fuori dal secchio un bellissimo

esemplare di polipo, con l’altra gli dava degli schiaffetti sulla pelle

che reagiva corrugandosi.

«Chi fa, non ci piaci u puppu?»

«Dagliolo, dagliolo alla signora – rimbeccava l’altro – ca ci piaci

bello frisco…»

«Chi fa, signura, ci lu dugnu sanu? Comu voli ci lu dugnu …»

«Bello, bello! E chi è zammù! »

«Arrustutu si l’havi a fari oppuru ca cipuduzza e u pumaroru...»

 

Dall’altra parte del viottolo, altri venditori reclamizzavano i trighi

di scoghiu, i precchi, i sparacanaci, i masculini, i scazzùbuli e i pisci

palummu, non omettendo di usare qualche doppio senso allo scopo

di attirare l’attenzione degli astanti.

 

C’era  di  che  comprare; vi era pesce di tutte le qualità,  magari

spacciato per fresco quando fresco non era, ma bellamente mostrato

sotto la luce di una grossa lampada elettrica che esaltava i riflessi

delle squame e il colore rosso di li jargi, tirate fuori e artificialmente

tinte.

 

Per comprare il pesce alla pescheria di Catania bisogna essere un

poco esperti, conoscere i venditori e sapere qual è il loro ruolo nel

mercato.   Infatti   tra   i   venditori   di   pesce   bisogna   distinguere   i

“riatteri”, cioè quelli che comprano la merce allo “sgabello”, dove

arriva sotto ghiaccio dal vicinissimo porto. Si tratta di pesce pescato

chissà dove e, quindi, tanto fresco poi non è, specialmente se è di

quello avanzato dalla vendita dei giorni precedenti. Talvolta il pesce,

nel   tentativo   di   spacciare   per   vera   la   loro   freschezza,   viene   dai

venditori sottoposto a piccoli trucchi, come la lucidatura degli occhi,

fatti sporgere mettendo sotto di essi dei piccoli cuscinetti di carta, la

tinta   di   rosso   vivo   di   li   jargi,   capziosamente   tirate   fuori   dal   loro

naturale   alloggiamento,   l’esposizione   in   mezzo   ad   alghe   (queste

fresche veramente!) profumatissime di mare. Basta conoscere questi

signori per tenere gli occhi ben aperti nel comprare.

Generalmente, quelli che vendono il cosiddetto pesce a fette, come

pesce spada e tonno sono rigattieri e non disdegnano di mettere in

auge tutti i trucchi per far apparire freschissimo il prodotto esposto,

che   arriva   sempre   congelato   e   talvolta,   quando   non   si   riesce   a

venderlo durante la giornata viene ricongelato senza tanti scrupoli e

poi scongelato e chissà quante volte. Uno dei trucchi per spacciare

per   fresche   trance   di   pesce   spada,   reduci   di   più   di   uno

scongelamento, è quello di mettere sul banco una sua testa con tanto

di spada ricolorata.

 

Oltre ai rigattieri, vi sono dei pescatori veri e propri, che cercano

di   vendere   il   loro   pescato   al   di   fuori   del   circuito   di   mercato

controllato e magari non hanno la licenza per vendere. Fra questi si

può   trovare   il   pesce   veramente   fresco   e   del   nostro   mare,   ma   a

comprare   da   loro   si   va   incontro   ad   altri   inconvenienti.   Intanto,

bisogna   capire   se   al   pesce   effettivamente   fresco   non   ne   sia   stato

mischiato dell’altro di dubbia provenienza. Inoltre la garanzia della

freschezza viene fatta pagare lievitando i prezzi e … rubando sul

peso.

Di solito un chilo di pesce, regolarmente pesato, corrisponde a non

più di un ròtolo (800 grammi).

Talvolta viene anche rispettato il peso, ma si ricorre ad altri trucchi

a   seconda   della   qualità   venduta.   Per   esempio,   per   la   vendita   dei

calamari freschi si ricorre all’espediente di riempire i loro sacchi con

pesci  di  più scarso costo,  quali  acciughe  o  sarde  e  qualche  volta

anche con pietruzze o sabbia.

 

Quindi per comprare alla pescheria e non andare incontro a delle

fregature, bisogna essere abbastanza istruiti in materia e, cioè, saper

distinguere   a   occhio   l’effettiva   freschezza   del   pesce   e   conoscere

colui che lo vende. Per questo motivo chi compra alla pescheria deve

essere   un   frequentatore   del   mercato;   andarvi   una   volta   tanto   per

comprare qualcosa non è prudente.

 

Un trucchetto, o meglio una furbizia, da parte del compratore per

spendere meno e meglio è quello di comprare nella tarda mattinata.

Di buon mattino i prezzi sono più alti e verso le ore 13,00 scendono

poiché i pescivendoli cercano di vendere la merce in rimanenza per

non doverla riporre in deposito e riproporla il giorno successivo.

 

In   ogni   caso   l’andare   in   pescheria   magari   solo   per   guardare   e

ascoltare  le  facezie  dei  venditori  o degli  avventori  che  a  volte  si

associano   alle   prime   con   effetti   talvolta   comici   e   piacevoli,   può

costituire un vero spasso e un passatempo al quale molti catanesi,

specialmente pensionati, sono adusi provare

 

Quella piazza incastonata tra le case antiche, che generalmente

servono di deposito della merce, a ridosso della statua dell’acqua o

linzolu dell’Amenano, è un vero spaccato della vita cittadina che si

svolge laddove il fiume versava le sue acque per incanalarsi lungo i

rivoli, ormai sepolti, diretti al mare.

 

Ai   nostri   giorni,   non  a   caso,   sempre   più  frequentemente,   nella

ressa   della   pescheria   è   possibile   notare   le   bandierine   delle   guide

turistiche alla testa di gruppi, per lo più stranieri, che sciamano tra i

banchi del pesce. Lo scopo, ovviamente,  non è quello di far fare

degli   acquisti,   ma   sicuramente   quello   di   mostrare   un   aspetto

veramente caratteristico della vita cittadina catanese.

 

 

 

 

LE ORIGINI DI PIAZZA BORSELLINO (EX ALCALÀ)

 

 

Dopo la recentissima alluvione verificatasi su Catania, ho avuto

modo di vedere a confronto su Internet, una foto scattata con piazza

Borsellino (ex Alcalà) allagata e una vecchia foto degli archi alla

marina di Catania, che, a quanto pare, furono costruiti sul mare per

consentire il transito della ferrovia.

Ho   così   scoperto   che   la   piazza   in   questione   era   un’insenatura

marina, dove trovavano ricovero le barche dei pescatori, chiamata il

Porticello, la quale venne coperta con i detriti e i resti degli edifici

abbattuti   dai   bombardamenti   dell’ultima   guerra.   Ho   letto   altrove,

pure di un recente progetto, che ritengo un sogno, o forse una trovata

politica per catturare l’interesse di nostalgici e creduloni ambientali-

sti,   di   ripristinare   l’insenatura   marina   per   la   realizzazione   di   un

particolare parco marino.

Non nascondo di provare una certa emozione, quando attraverso la

piazza in auto per andare verso la Plaja, al pensiero che una volta

quei posti erano solcati da barche a remi e a vela.

Catania, nel suo crescere, oltre a inerpicarsi sui pendii dell’Etna,

non ha risparmiato di rubare spazio allo stesso mare, aiutata, talvolta,

dalla   lava   del   vulcano,   non   solo   distruttore,   ma   anche   amico   e

benefico costruttore della città!

Dall’antro ad arco, dove trovano posto i banchi dei pescivendoli,

una volta porta marina di Catania di fronte all’ingresso dell’attuale

villa Pacini, affiancata alla piazza Borsellino, versava le sue acque a

mare un ramo dell’Amenano, mentre un altro proseguiva verso la Za

Lisa, i vecchi campi elisi di romana memoria o, forse, così chiamati

perché vi sorgeva un vecchio fondaco chiamato appunto da Za Lisa,

come qualche storico sostiene. Certamente il paesaggio d’allora era

più   suggestivo   di   adesso   ma   fu   cancellato   dall’evoluzione   del

territorio, pressato dalle eruzioni dell’Etna e stressato dal terremoto

del 1693. Inoltre non è stata indifferente l’opera dell’uomo. Si pensi

che gli archi del condotto ferroviario che adesso cingono Catania

sulla striscia di terra antistante il porto fino a immettersi in galleria al

punto chiamato dell’Indirizzo (o’ ntrizzu), furono costruiti sul mare e

che all’uscita da Catania l’Amenano, era sormontato da un ponticello,   che   le   signore   attraversavano   per   raggiungere   il   parco   che   fu

dedicato al musico Pacini e che i catanesi oggi chiamano  A villa ‘e 

varagghi (La villa degli sbadigli) perché frequentato dai pensionati.

 

Ai nostri giorni la zona di ritrovo dei catanesi si è spostata verso

Piazza Europa e la circonvallazione a mare dell’Ognina, ma allora,

quando la città era limitata alla Porta d’Aci (piazza Stesicoro), a quei

tempi il bel mondo catanese frequentava per le passeggiate a piedi i

locali   della   villa   Pacini   per   l’aspetto   romantico   e   suggestivo   dei

locali prospicienti il mare, tanto da ospitare nelle serate estive dei

concerti musicali, che le cronache vogliono frequentatissimi.

Sì, insomma, quando la villa Bellini era ancora bosco e territorio

dei Biscari, la villa Pacini, declassata oggi a villa de’ varagghi, era il punto di ritrovo della Catania-bene d’allora, frequentatissima dalle

signore e dagli immancabili cicisbei.

 

Non posso non abbandonarmi a una considerazione che mi viene

spontanea. Il tempo non solo modifica gli uomini nelle loro usanze e

nei loro costumi ma esercita il suo cambiamento anche sul territorio,

attraverso le trasformazioni imposte dalla natura in continuo divenire

e dagli stessi uomini sotto la spinta impellente del bisogno e del-

l’evoluzione tecnologica.

 

Senza le eruzioni dell’Etna, senza il terremoto tremendo del 1693,

senza la necessità di seppellire l’Amenano, divenuto fonte d’inquina-

mento, senza l’invenzione della macchina a vapore che impose  la

costruzione delle strade ferrate, senza i bombardamenti dell’ultima

guerra che imposero di rubare spazio al mare per smaltire le macerie,

oggi quest’angolo di Catania sarebbe rimasto forse identico ad allora.

Avremmo sicuramente al posto della piazza Borsellino la vecchia

insenatura marina, il vecchio “porticello”, forse unito all’adiacente

porto,   ulteriormente   ingrandito  sotto   la   spinta   dell’incremento   dei

trasporti   marini;   avremmo   forse   un’ecologica   foce   dell’Amenano,

oggetto di culto degli odierni ambientalisti, uno stupendo paesaggio

marino   da   difendere   dall’intrusione   dell’opera   dell’uomo   e   una

stupenda campagna irrigata dall’altro ramo dell’Amenano fino alla

lontana  Za   Lisa,   con   il   conseguente   mancato   sviluppo   edilizio

attuale, volto sicuramente in altra direzione.

 

  Nonostante   tale   considerazione,   non   mi   sento   chiaramente   di

condannare le modifiche avvenute nel territorio, tra l’altro ritenute al

momento   valide   e   utili,   poiché   fanno  parte   del   naturale   evolversi

degli eventi, anche se preso dal velato rimpianto di non aver potuto

vedere quei luoghi nella loro genuinità naturale.

 

Tutto passa e cambia, come ebbi a dire in altre occasioni, e non

resta che accettare il cambiamento!

 

 Il nostro mondo non è statico, ma, come per primo intuì il greco

Eraclito,   esso   è   in   continuo   divenire.   L’essenza   del   problema   è

l’evoluzione del cambiamento e gli effetti da esso prodotti; non tanto

la distinzione tra staticità e movimento. Tutto diviene continuamente,

tutto passa e cambia e, quindi, ad ogni cambiamento corrisponde un

risultato, che, anch’esso è destinato a cambiare nel tempo. Se le cose

vanno   in   questo   modo,   diventa   importantissimo   fare   delle   scelte

sensate per ottenere risultati ottimi e in linea con i tempi. Ma chi è in

grado di prevenire i tempi futuri, dal momento che anch’essi variano

di generazione in generazione? Ecco, quindi, che conviene accettare

la realtà che sta sotto i nostri occhi, così com’è, senza perdersi in

congetture superflue. L’unica cosa buona da fare è osservare bene la

realtà e farla cambiare al momento, secondo il proprio punto di vista

e   non  disperarsi   per   l’eventuale   mancato  raggiungimento   del   fine

agognato, poiché altri, dopo, potranno raggiungerlo e, se del caso,

cambiarlo. Insomma, in un certo senso, bisogna accettare la filosofia

del “carpe diem” di latina memoria per trarre il maggiore godimento

dall’aspetto   reale   e   immediato   delle   cose   e   coglierne   gli   aspetti

positivi.

 

  Per questo motivo mi limito ad osservare l’attuale stato dell’ex

Porticello, diventato terra ferma, apprezzarne gli attuali vantaggi e a

pensare,   magari,   come   poterne   migliorare   il   suo   attuale   aspetto,

naturalmente senza non provare un po’ di nostalgia per ciò che non

sono riuscito a vedere prima ed era bello!

 

 

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La storia delle CIMINIERE

e della STAZIONE FERROVIARIA

 

......accanto alle Ciminiere, sorge quello che io

ero solito definire “il mio regno”. Parlo della stazione di Catania

Centrale. Lì venni assunto nell’ormai lontano 1 luglio del 1959 e,

dopo alterne vicissitudini, lì ho concluso la mia carriera ferroviaria il

31 Luglio 1996 come Capo Reparto dell’Area Rete FS. Tutta una

vita che ha visto la trasformazione delle FS da Azienda Autonoma ad

Ente   e   successivamente   ad   S.p.A.   Voglio   evitare   commenti,

delusioni, aspettative e quent’altro relativamente a questi passaggi. I

risultati  salienti  sono  evidenti  e  non  hanno  bisogno di  commenti.

Essi, anche se passati sotto silenzio, hanno contribuito, e non poco,

all’attuale crisi, che identifico con la perdita di posti di lavoro e ti

posso assicurare che in ferrovia se ne son persi molti.

  

Quello che mi preme evidenziare è la vera storia di questi luoghi e,

cioè, delle “Ciminiere” e della stessa stazione ferroviaria di Catania,

che, in un certo senso, si intersecano tra loro.

 

Come ho già detto, l’antica Catania nacque e si estese lungo le

rive del fiume fantasma Amenano e verso la zona marina meridionale. Tutto il territorio a Nord, ossia Ognina e piazza Europa erano

piena campagna fino all’attuale piazza Stesicoro (a “porta di Aci”).

Successivamente,  dopo  i  disastri  del  terremoto   e  della  precedente

ultima eruzione dell’Etna, intorno al 1860, la città si estese fino a

raggiungere l’attuale piazza Iolanda. Anche il territorio di Ognina,

scaturito dall’eruzione lavica che aveva cancellato la foce del fiume

Longane era rimasto una accumulo di nera pietra lavica. Sostanzialmente,   tutta   questa   fascia   di   territorio,   attualmente   brulicante   di

automobili   e   di   vita,   dalla   settentrionale   Ognina   fino   al   Castello

Ursino e oltre verso sud, era solo campagna, ovvero roccia lavica

fino a raggiungere il mare. Ciò favorì in quei luoghi un insediamento

industriale non indifferente , distante dalla città abitata, comunque a

portata di mano, che aveva la possibilità anche di smaltire le acque

reflue nel mare (allora non era recepito il bisogno di salvaguardare il

mare   dall’inquinamento   industriale!).   Fu   così   che   nacquero   le

“Ciminiere”; un insieme di fabbriche, forni fonderie e quant’altro per

la   lavorazione   del   ferro,   dello   zolfo   e   dei   minerali   affluenti

dall’entroterra   catanese.   Questo  agglomerato   industriale,   dotato  di

tutti i crismi tecnologici d’allora era abbastanza fiorente ed efficiente

fino al 1860 e tanto da consentire al Regno delle Due Sicilie di trarne

degli enormi vantaggi economici.

Con la  caduta dei Borbone e  appunto con l’avvento dell’Unità

d’Italia, fu decisa la vocazione agricola di tutto il Sud d’Italia e la

vocazione industriale del Nord, con il conseguente abbandono delle

vecchie fabbriche di Catania, che rimasero fatiscenti e pericolanti,

fino al giorno in cui (questa è storia recente) venne fuori l’idea di

recuperare   i   luoghi   per   destinarli   all’attuale   funzione   artistica,

culturale e sociale.

Un   mare   di   cemento   invase   le   “Ciminiere”,   distruggendo,

riattando e adattando le vecchie fabbriche alle nuove esigenze. Un

fiume di soldi cominciò a scorrere sulle balze della costa di Larmisi e

le   costruzioni,   ad   opera   dei   privati,   di   nuove   case   sui   territori

urbanizzati adiacenti, contribuì a far progredire tutta la zona, fatta

attraversare   dall’ampio   viale   Africa,   che   prosegue   con   la

circonvallazione   a   mare   fino   alla   piazzetta   Mancini   Battaglia   di

Ognina.

Allo sviluppo edilizio contribuì non poco la decisione di costruire

a ridosso delle Ciminiere la stazione ferroviaria di Catania, avvenuta

subito dopo l’Unità d’Italia, dopo il 1860.

 

La  costruzione   della  Stazione   di   Catania  Centrale  e   la   posa   in

opera   della   ferrovia   che   doveva   collegare   Messina,   Catania   e

Siracusa ha tutta un’altra storia che si è evoluta in una direzione

opposta   a   quella   delle   “Ciminiere”.   Queste   ultime,   bene   o   male,

hanno trovato nell’attuale contesto cittadino una funzione sociale e

culturale veramente ragguardevole, anche se non del tutto sviluppata

e   completamente   attuata.   È   fuor   di   dubbio   che   alle   Ciminiere

vengono  svolti   molti   incontri   culturali   e   vengono   intraprese   delle

attività un tempo neppure immaginate...... Capisco che forse

appartengo a una generazione molto diversa, ma il concetto reale che

voglio evidenziare è la dinamicità sociale di cui il posto si è reso

promotore.  Che   quanto  ho visto  possa   essere  buono  o cattivo,  di

buon gusto o di cattivo gusto, non ha alcuna importanza. La cosa

evidente è che in quel posto si aggira tutta una fucina di idee, di

nuovi   modi   di   sentire,   di   nuove   tendenze   che   costituiscono   il

substrato del futuro.....

 

 

  Per   quanto  concerne   la   stazione   di   Catania   C.,   non  vedo  uno

sbocco   altrettanto   lusinghiero   per   diversi   motivi,   che   vanno

dall’errata posizione primigenia di tutto il tracciato ferroviario, alla

politica   svolta   dalle   FS   e   alla   mancanza   di   lungimiranza   sempre

costante nell’ambito ferroviario e nell’assenza di interesse pubblico

da parte dello Stato. Quest’ultimo ha il grande torto di non badare

alla comodità e allo sviluppo di un servizio necessario e utile, ma al

solo obiettivo di spendere il meno possibile trascurandone l’effettivo

sviluppo e l’effettiva efficienza sociale...

Ma cominciamo a dire le cose con ordine.

Quando fu deciso di costruire la strada ferrata tra Messina Catania

e Siracusa con la conseguente ubicazione delle stazioni di Catania e

Siracusa,   il   progetto   governativo   prevedeva   l’attuale   piano,   che

sottoposto   all’allora   Senato   della   città   di   Catania   (si   chiamava

proprio così!) venne regolarmente bocciato e a buona ragione. Le

autorità comunali , in alternativa, proposero di far passare il tracciato

ferroviario   nell’entroterra,   distante   dalla   costa   e   allora   non

urbanizzato, ubicando la stazione di Catania Centrale  nella piazzetta

antistante l’attuale ingresso al porto. Tale progetto avrebbe favorito

la   facile   congiunzione   ferroviaria   con   il   porto   e   l’eliminazione

dell’attuale   traforo   tra   Catania   Centrale   e   Acquicella,   nonché   la

costruzione di “l’Archi a marina” e l’accesso pianeggiante a Catania

dei   treni   provenienti   da   Acireale.   Nonostante   l’opposizione   del

Comune la ferrovia venne costruita com'è oggi, con gli errori che

sono i seguenti: il tracciato, venendo da Acireale dovette inerpicarsi

sulla costa del Larmisi con un ragguardevole dislivello che influiva

non   poco   sulle   prestazioni   delle   locomotive;   la   devastazione

ambientale della costa rocciosa per consentire la posa dei numerosi

binari;   la   costruzione   della   attuale   bretella   in   forte   pendenza   per

raggiungere il porto con conseguente invasione di una parte dello

specchio di mare;  la costruzione dell’attuale cinta degli Archi sul

“porticello”   (oggi   rubato   al   mare   dando   luogo   all’attuale   piazza

Borsellino); nonché il traforo dell’indirizzo (u ‘ntrizzu) tra Catania e

Acquicella.   I   costi   per   la   costruzione   di   tale   tracciato   lievitarono

enormemente,  ma  il Governo centrale fu irremovibile, poiché alla

base della sua realizzazione vi era un motivo prettamente politico.

Infatti   il   piano   imposto   dal   Governo   era   un   atto   dovuto   di

ringraziamento al Governo francese per aver appoggiato e favorito

l’Unità   d’Italia   dal   momento   che   il   progetto   in   questione   era

totalmente francese. Sostanzialmente si trattò della concessione di un

grosso affare commerciale al Governo francese, a spese del popolo

catanese, da parte del Piemonte per aver favorito l’allargamento dei

confini savoiardi su tutto il territorio italiano.

Come   sempre,   Catania   e   la   Sicilia   tutta   subì   anche   in   questa

occasione lo strapotere del settentrione italiano a coronamento dei

propri   interessi   politici   e   calpestando   i   diritti   dell’aborrito   Sud,

costretto intanto a un maggiore esborso fiscale imposto dalla famige-

rata  tassa   sul   macinato  di  Quintino Sella,  gravante  maggiormente

sulla zona agricola dello Stato e cioè sui contadini del meridione,

maggior produttore di grano e farine.

Gli effetti deleteri di una siffatta determinazione ferroviaria, lungi

dall’esaurirsi, perdurano ancora provocando un’ulteriore aumento dei

costi.   Infatti   la   successiva   urbanizzazione   di   Ognina   impose   allo

Stato la necessità di eseguire un traforo sotto piazza Europa. Non

solo   questo!   Poiché   l’aumentato   traffico   impose   la   necessità   del

doppio binario da Messina a Siracusa o per lo meno da Messina a

Bicocca. Ovviamente per via dei trafori, che sono a semplice binario

sia in ingresso che in uscita a Catania, d’ambo  i lati, la stazione

risulta molto limitata nei rapporti di circolazione. Per quanto sulla

carta risulti ufficialmente esistente il doppio binario tra Cannizzaro e

Acquicella, in effetti il traforo tra Cannizzaro e Catania Centrale e il

traforo tra Catania C. e Acquicella, sono entrambi a semplice binario.

Essi sono stati sottoposti al cosiddetto regime di Blocco Automatico

Reversibile: un marchingegno regolamentare che dovrebbe garantire

lo snellimento della circolazione e la sicurezza d’esercizio, legata,

comunque, al rispetto categorico dei segnali di partenza e protezione

di  Catania C.  da parte del personale di  macchina.  Il malaugurato

mancato   rispetto   di   tali   segnali   da   parte   dei   macchinisti   può   dar

luogo   a   scontri   frontali   in   galleria;   ma   i   grossi   problemi   di   una

siffatta situazione si manifestano in caso di guasti ai circuiti elettrici

poiché   la  regolamentazione   manuale   per   la   sicurezza   provoca   dei

ritardi ingenti.

 

Bisogna   aggiungere   che   altre   spese   vennero   affrontate   per

duplicare gli archi della marina. Ma il tutto non si esaurisce qui! La

stazione di Catania Centrale ha perduto tutto il traffico merci per via

dell’urbanizzazione intensa della città, il quale è stato acquisito dalla

stazione di Bicocca. Si potrebbe pensare che tutto finisca così e che il

futuro   della   ferrovia   a   Catania   sia   ormai   definito,   pur   con   le

limitazioni   imposte   dai   tempi.   Ma   non   è   così,   poiché   è   apparsa

all’orizzonte   un’altra   emergenza:   l’aeroporto   di   Catania.   Con   il

regredire dei trasporti ferroviari e con le aumentate relazioni interna-

zionali   si   rende   necessario   ingrandire   l’aeroporto   di   Catania   con

l’allungamento delle piste di rullaggio degli aerei. Tale allargamento

delle piste comporta che la linea ferroviaria tra Acquicella e Bicocca

venga   messa   sotto   traccia.   Di   conseguenza   necessita   mettere   in

tunnel  tutto  il  tracciato ferroviario dalla   stazione   di   Cannizzaro a

Bicocca con la conseguente scomparsa della stazione di Catania C.

che   diverrebbe   sotterranea   e   alla   quale   accedere   con   ascensore   e

scale, la definitiva soppressione di Acquicella, divenuta inefficiente

sia dal punto di vista del traffico merci che di quello viaggiatori e lo

spostamento   della   stazione   di   Bicocca   fino   all’attuale   punto

coincidente con l’attuale Ipermercato IKEA.

 

In questo grosso problema di trasformazione di percorso ferroviario, si aggiunge  il problema  non indifferente  della  trasformazione

della Circumetnea in metropolitana, che partendo dal porto dovrebbe

raggiungere   i   paesetti   dell’Etna   in   circolo   per   ritornare   al   porto.

Ovviamente il porto, ai fini dei rapporti di scambio con le ferrovie,

non è preso in alcuna considerazione; parimenti sono stati tenuti in

alcuna considerazione i rapporti di scambio tra aeroporto e ferrovie.

Ciò  significa,   che   il   progetto  che   era   in  atto   di   interporto  da   far

nascere   a   ridosso   della   stazione   di   Bicocca,   ha   perso   consistenza

essendo stato superato dagli eventi.

Dalla   realizzazione   di   questo   nuovo   progetto   ferroviario,   oltre

all’aumento dell’efficienza aeroportuale, potrebbe trarne vantaggio

tutta la città di Catania, potendosi destinare tutta l’area della scomparenda   stazione   di   Catania   all’intensificazione   delle   attività   delle

“Ciminiere” opportunamente integrate con altre di natura sportiva.

 

 

 

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L’UOMO DAL PAPILLON

«....per fortuna ti resta ancora del tempo per 

visitare la città»

 

 

racconto di Ilaria Ferramosca

 da "Ilaria e Catania" di Pippo Nasca

 

 

Arrivare   a   Catania   non   era   stata   per   me   un’impresa   facile. 

Provenivo dalla Puglia e in particolare da un paese del basso Salento 

poco conosciuto, nelle vicinanze della più nota città di Gallipoli; 

anch’essa affacciata, o meglio, adagiata sul mar Ionio proprio come 

Catania. Due città sorelle, figlie dello stesso mare dunque, eppure 

così diverse e soprattutto così distanti tra loro.

Durante il viaggio, non avevo fatto che maledire ministri e società 

di  trasporti  pubblici  per  il pessimo  modo   con  cui  la  mia  terra  è 

collegata  al  resto  del  mondo.   Un  percorso  lungo  dodici  ore,  che 

partendo da Lecce faceva tappa in Calabria, passava attraverso il 

mare e approdava a Messina; poi da lì, prendendo una serie di treni 

locali, finalmente si arrivava alla cittadina siciliana meta del mio 

sfiancante itinerario.

Giunta a destinazione ero troppo stanca e strapazzata dai continui 

sballottamenti per riuscire ad ammirare sin da subito la bellezza dei 

dintorni, eppure ad alcune cose era impossibile sottrarsi, non c’era 

stanchezza alcuna che tenesse.

Il profumo di fiori d’arancio, per esempio, o dei pitosfori e delle 

erbe aromatiche, perveniva alle mie narici in modo così intenso e 

penetrante, che era impresa ardua il non percepirlo; e io, che adoro 

inebriarmi delle fragranze della natura, non chiedevo di meglio se 

non   essere   sopraffatta   da   quelle   essenze   dolci   o   speziate   che   si 

impossessavano dei miei sensi in modo prepotente e al contempo 

delicato.

Altrettanto impossibile era il fuggire la visione dell’imponente dio 

forgiatore di metalli: l’Etna, che si stagliava sullo sfondo di quel 

paesaggio. Pareva riposare, ma di un sonno quieto solo all’apparenza, i leggeri fumi e le bocche rossastre, che si notavano nelle ore 

dell’imbrunire, testimoniavano infatti una sorta di fermento, intimo e 

irrequieto.

Cosa ci facessi a Catania è un po’ lungo da spiegare, ma diciamo 

che si trattava di un motivo legato alla mia essenza femminile e… a 

quello che sto facendo in questo preciso istante: scrivere.

No, non mi  trovavo lì per delle struggenti lettere, inviate a un 

amore siciliano coltivato a distanza e che finalmente avevo deciso di 

incontrare, se è questo ciò a cui si potrebbe pensare.

Mi ci ero recata per prender parte a un convegno sulla donna e per 

la   presentazione   di   un   libro.   Beh,   in   effetti,   si   poteva   definire 

anch’essa   una   questione   passionale,   ma   di   natura   diversa:   una 

passione del tutto artistica.

Avevo solo due giorni a disposizione e poi sarei dovuta andar via, 

rientrare agli impegni della quotidianità, per cui il mio intento era 

quello   di   rubare   alla   breve   parentesi   di   relax   letterario,   quanti 

maggiori momenti possibili di conoscenza e cultura della città.

Invece mi ritrovai, alla fine della seconda giornata, ad aver seguito 

numerosi dibattiti interessanti e, nel medesimo tempo, con il cruccio 

di non aver visitato nulla del luogo.

Così, al termine dell’ultimo congresso, feci una rapida corsa nella 

piazza del Duomo, per riuscire a visitare almeno quello, tuttavia la 

Cattedrale di Sant’Agata era già chiusa.

La suggestione che ebbi da  quella visione,  seppure  esteriore  e 

parziale, fu comunque forte. Il contrasto tra pietra lavica e marmo 

faceva   splendere   quest’ultimo   di   un   bianco   lattiginoso,   anche   se 

ormai era già sera; lo stile barocco della facciata mi sembrava così 

familiare e al contempo così dissimile da quello leccese, caratterizzato invece da pietre ruvide del colore della sabbia.

Guglie,   statue   e   colonne,   rendevano   quel   tempio   ancora   più 

maestoso e gli donavano un’aria di mistero e sacralità. Sconsolata 

per non essere riuscita nel mio intento, mi sedetti sul bordo di una 

vicina  fontana,  a  capo  chino;  guardai  l’orologio,  il mattino  dopo 

sarei già dovuta ripartire.

«Su con la vita ragazza mia, non crucciarti» una voce mi destò dai 

pensieri in cui ero assorta, «per fortuna ti resta ancora del tempo per 

visitare la città.»

Sulle prime mi parve una sorta di presa in giro, poi quella voce 

continuò: «Il segreto è concentrarsi solo su alcune cose e godere 

appieno delle bellezze che ci sono concesse, se pur poche; non è 

forse così anche nella vita, in genere?»

Non me ne ero avveduta, eppure un distinto signore anziano si era 

seduto   proprio   accanto  a   me.  Aveva   uno  sguardo  austero  se  pur 

cortese, dei folti baffi bianchi rivolti all’insù e indossava un elegante 

abito grigio, mentre al collo recava un papillon azzurro. Forse uno 

stile alquanto retrò, pensai, ma di sicuro gli donava molto.

Lo osservai attonita e lui con ogni probabilità si rese conto della 

mia espressione di stupore, per cui si affrettò a presentarsi.

«Permette, signorina... mi chiamo Giovanni, Giovanni Carmelo, 

per l’esattezza.»

Rimasi a guardarlo ancora così, a bocca spalancata, sia per come 

era sbucato all’improvviso, silenzioso, sia per il fatto che sembrava 

comprendere tutto quanto mi passasse per la mente.

«Molto... molto piacere signor Giovanni.» Gli risposi titubante.

Mi chiesi come facesse a sapere che ero dispiaciuta per non aver 

potuto visitare la città e lui, sempre come leggendomi dentro, ribatté 

pronto.

«È chiaro, mia cara, è chiarissimo. Lo si vede dalla tua faccia e lo 

si comprende dal fatto che eri così intenta a pensare di non aver 

tempo  a  sufficienza, che te ne  stavi seduta  su  quest’opera  d’arte 

senza neppure essertene avveduta.»

Mi alzai di scatto, voltandomi indietro, e stavolta notai la fontana 

per intero.

«Marmo e basalto, proprio così. Questa composizione fu eretta sul 

finire del 1600, dopo un tremendo terremoto che distrusse gran parte 

della città.»

Continuai   a   scrutarla   con   il   naso   puntato   verso   l’alto,   mentre 

ascoltavo   quelle   parole.   Un   elevato   obelisco   grigio,   retto   da   un 

elefante scuro, s’innalzava al centro della bianca fonte.

«Le sculture che vedi ai lati, sul piedistallo del basamento, rappresentano i fiumi Simeto e Amenano, mentre l’ornamento posato sopra 

il  dorso  dell’elefante,  riproduce  gli  stemmi   di   Sant’Agata,   nostra 

patrona.»

Mi accorsi solo allora di quanto fosse bella e singolare quella 

fontana.

«Vorrei sapere il nome di questo monumento» chiesi quindi al 

mio signorile cicerone, «è davvero molto particolare.»

«Si  dice che sia magico, è chiamato  Liotru» mi  informò,  «dal 

nome di Eliodoro, infatti la leggenda vuole che fosse stato costui a 

scolpire quell’elefante. Pare fosse un negromante e che si divertisse 

a far muovere le sue opere d’arte.»

«Perché proprio un elefante?» Domandai incuriosita.

«Ci sono svariate teorie in merito, compresa quella secondo cui, 

durante la fondazione di Catania, un pachiderma avesse messo in 

fuga delle pericolose fiere.»

Quell’uomo   aveva   un   forte   fascino,   nel   modo   elegante   di 

muoversi e nel suo parlare così solenne.

«La ringrazio molto signor Giovanni, con molta probabilità non 

avrei mai appreso queste interessanti notizie senza di lei» gli dissi 

riconoscente, poi tornammo a sederci entrambi sul bordo della vasca, 

che conteneva le acque della fontana.

«E non è tutto» riprese lui, «in questo piazzale c’è molto altro da 

ammirare: pregiati edifici, antiche porte. Vieni, andiamo a vedere.»

Lo seguii ancora un po’ confusa. Intanto si era fatta sera inoltrata 

e la gente cominciava a defluire dalla piazza, per recarsi nei locali 

notturni della vicina via Etnea.

Guardavo   quelle   antiche   costruzioni   e   le   altre   opere 

architettoniche, affascinata dalla loro fattura, ma al tempo stesso con 

l’amarezza di non poter andare in altri luoghi, oppure osservare gli 

interni delle chiese, dei musei. Poi all’improvviso mi ritrovai seduta 

sul gradino di un palazzo.

«Mi spiace, non posso portarti fisicamente a visitare tutta la città 

in   poche  ore,   sarebbe  impossibile,  ma  posso   condurti   in   un  giro 

immaginario. Sono molto bravo a narrare, mi si dice.»

Giovanni sorrise soddisfatto e prese a raccontare: «Per esempio, lo 

sai che proprio qui, sotto la pavimentazione della piazza, scorre un 

fiume sotterraneo, inabissatosi per via del sisma? Neanche questo 

potresti vederlo, eppure c’è, è lì sotto i tuoi piedi e tutto ciò che 

rimane di lui è l’acqua di quella fonte.»

Mi   mostrò   un’altra   elaborata   costruzione   in   marmo,   sovrastata 

dalla statua di un giovane che recava una cornucopia.

Poi   mi   invitò   a   chiudere   gli   occhi:   «Prova   a   concentrarti   in 

silenzio e forse lo sentirai scorrere.»

Feci come lui mi suggerì e… forse fu il condizionamento indotto 

da quella voce così persuasiva, ma mi parve avvertire uno scrosciare 

soffocato, diverso da quello che fuoriusciva dai getti della fontana.

«Ho sentito dire che voi giovani potete fare viaggi all’interno di 

città simulate, grazie a nuove tecnologie. Potete visitare luoghi reali 

sebbene   situati   nella   parte   opposta   del   mondo,   oppure   del   tutto 

immaginari e inventati, ciononostante riuscite a camminarci dentro 

come se fossero veri.»

Non sembrava particolarmente entusiasta di queste alternative, a 

dire il vero, comunque proseguì.

«Forse   è   un’opportunità   in   più   per   chi   non   ha   la   fortuna   di 

muoversi  o  viaggiare.  Tuttavia  mi   chiedo  che  fine  abbia  fatto  la 

fantasia. Dov’è sparito quel soave incantesimo prodotto dal sentir 

parlare di un luogo, o leggerlo e immaginare di trovarvisi dentro?»

Serrai   le   labbra   nell’ascoltare   quelle   parole,   sapevo   che   aveva 

ragione e potei solo annuire in silenzio, con un cenno del capo.

Subito dopo m’invitò a fantasticare di potermi librare in volo con 

lui sulla città e iniziammo a volteggiare come gabbiani, da un capo 

all’altro di Catania. Il tono del suo parlare era caldo e trascinante, 

variava spesso d’intensità nel descrivere le cose e io, con gli occhi 

della mente, fui capace di scorgere ogni minimo dettaglio di tutto ciò 

che mi mostrava.

Riuscii a visitare teatri, antiche terme, vecchie mura, strade, pozzi 

legati a insolite e tristi leggende, come quella di una giovane donna 

che   per   sfuggire   alle   attenzioni   moleste   di   un   suo   corteggiatore, 

aveva preferito gettarsi nel vuoto e lasciarsi inghiottire da quelle 

fauci di tenebra.

In   ognuno   dei   posti   descritti,   avevo   l’impressione   di   potermi 

avvicinare,  dal  basso  o  dall’alto,  come   più  mi   aggradava;  ero  in 

grado   di   vedere   dettagli,   decorazioni,   interni,   esterni,   dipinti 

nascosti. Avevo quasi l’impressione di poterli toccare e mi sentivo 

una   visitatrice   privilegiata,   euforica   ed   ebbra   da   tutto   quanto   mi 

stesse accadendo. Finché,  sempre  grazie alle ali  della fantasia, il 

nostro volo notturno cessò e atterrammo un’altra volta sul gradino di 

quel palazzo, lì da dove eravamo partiti.

Nel riaprire gli occhi, mi sentii come se mi stessi risvegliando da 

un profondo torpore, per cui per un attimo mi sorse il dubbio di aver 

sognato ogni cosa.

Invece lui era lì, accanto a me, con il solito abito grigio elegante, il 

papillon al collo, gli occhi fieri e i suoi modi fini da uomo d’altri 

tempi.

«È ora di andare, ragazza mia.» Mi disse sollevandosi in piedi e 

tendendomi la mano affinché mi alzassi anche io. Così iniziammo a 

incamminarci lungo una via, non molto distante da lì, chiamata via 

Sant' Anna.

«Ormai   è   proprio   giunto   il   momento   che   io   rincasi.»   E   ci 

fermammo dinanzi a un antico edificio.

«Signor Giovanni» cercai di esprimergli la mia gratitudine, con 

voce   ancora   tremula   per   l’emozione   provata,   –   io   non   so   come 

ringraziarla e mi chiedo perché mai abbia fatto tutto questo per me.»

«Non saprei dire» mi rispose, «forse perché amo questa città e mi 

dispiace   che   la   gente   possa   andar   via   da   qui   senza   aver   goduto 

appieno della sua bellezza, benché con attimi fuggevoli e un briciolo 

di immaginazione. Magari perché vieni da una terra tutto sommato 

molto affine a questa e siamo legati da un identico sentiero azzurro, 

fatto di sale e acqua, o ancora perché condividiamo passioni simili, 

chissà.»

Esitò un attimo prima di andarsene, poi mi parlò ancora e in quel 

momento io capii ciò che in modo ottuso non avevo compreso fino a 

quel momento.

«Forse l’ho fatto per ricordare alcune cose a voi, che vivete questo 

secolo, affinché non smettiate di aver presente quanto è importante 

la storia di chi è venuto prima; di chi vi ha condotti a quanto oggi vi 

circonda. Per rammentarvi di scoprire ciò che è nascosto e al tempo 

stesso di avere curiosità e meraviglia anche per quel che è sempre 

sotto i vostri occhi; e soprattutto, di usare ancora la genuinità del 

pensiero per sognare a occhi aperti, senza accontentarvi dei surrogati 

prodotti da menti elettroniche.»

Aggiunse infine: «I giovani hanno la memoria corta, e hanno gli 

occhi per guardare soltanto a levante; e a ponente non ci guardano 

altro che i vecchi, quelli che hanno visto tramontare il sole tante 

volte.» Poi si voltò, salutandomi con un gesto della mano.

Rimasi   senza   parole:   «Che   stupida,   come   avrò   fatto   a   non 

accorgermene prima» pensai, vergognandomi di me stessa.

Lo osservai entrare nel palazzo e varcare il portone, così senza 

neppure aprirlo, con quella malinconica leggiadria che a volte hanno 

i vecchi.

 

 

 

 

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Racconti di viaggio

Un Week End di primavera a Catania

 

da Zingarate.com

 Autore: Patrizia

 

 

....Arriviamo all’aeroporto di Fontanarossa puntualissime, praticamente in anticipo. Ci attende un meraviglioso clima. Sfuggendo alla tentazione della vetrina de “I dolci di nonna Vincenza”, con cannoli e cassatine a dir poco invitanti, facciamo il biglietto per l’autobus (il 457) che in 20/30 minuti ci porta a Catania centro. E’ appena cominciata la mia mini vacanza ed ho già perso il senso del tempo!! 

Da subito capiremo che la sede storica de “I dolci di nonna Vincenza” è proprio in piazza San Placido, dove si trova anche il nostro Bed & Breakfast. Questo è solo il primo segnale di quanto questa città sarà per noi una tentazione culinaria continua. E pensare che prima di partire stavo portando avanti, con un certo successo, una dieta dimagrante!!

Alle 15.00 l’autista del nostro autobus ci indica dove scendere ed in due minuti siamo al B&B. Dopo un attimo di confusione, generato da un gruppo in partenza (di cui però solo alcuni membri avevano alloggiato al nostro B&B), Lea e Francesco, i nostri padroni di casa, ci deliziano con tutta la loro cortesia, le loro premure e la loro ospitalità, in un ambiente solare e luminoso che risponde pienamente alle nostre aspettative.  

Aspettative non tradite dopo aver visto il sito del B&B Bianca.

La nostra stanza ha ben due balconi che si affacciano sui tetti del centro storico, che scopriremo essere molto animato. Ammiriamo inoltre da qui la cupola del Duomo e scorgiamo il mare!! La finestra della cucina dà invece sulla bellissima facciata barocca della Chiesa di San Placido. Gli ambienti riflettono il gusto dei nostri ospiti, amanti dell’arte ma anche della praticità. Parquet, colori, ampi spazi, pulizia ed il calore di una casa vera. Cosa volere di più da un B&B? Vogliamo aggiungere due padroni di casa disponibili all’accoglienza e a condividere con i propri ospiti le proprie esperienze di vita? C’erano anche quelli! 

E dalle esperienze di vita di Lea e Francesco abbiamo trovato ottimi spunti per la nostra corsetta mattutina e per i ristoranti da visitare. Ci mettiamo subito in “marcia”: alle 16.00 siamo già di nuovo fuori casa. Ci dirigiamo in centro con l’intenzione di farci subito un’idea della città. Il B&B è ad un passo da Piazza Duomo ma sbagliamo leggermente strada e, di vicolo in vicolo, ci ritroviamo in Piazza dell’Università. 

In pieno sole, con i catanesi ed i turisti impegnati nel loro lento passeggiare e con un gruppetto di musicisti swing, l’aria di primavera dà alla piazza un ampio respiro. Passeggiata lungo la vivace via Etnea, arriviamo all’altezza di Villa Bellini. Prima di entrare nei meravigliosi giardini dell’’800, che il giorno dopo, tra alberi centenari e vialetti labirintici, ci avrebbero viste impegnate nella nostra corsetta mattutina, ci facciamo tentare da Spinella, storica rosticceria e pasticceria catanese: arancino al ragù, arancino al forno con spinaci, cartocciata e, per finire, un cannolo a testa. Gnam!! 

La perlustrazione continua fino a ritornare, attraverso i bellissimi palazzi di piazza dell’Università, in Piazza Duomo. Ci accoglie O’Liotru, l’elefante in lava di epoca romana che sorregge un obelisco egizio e che è il simbolo della città. Il Duomo, a fianco a porta Uzeda, impera sulla piazza con la sua meravigliosa struttura barocca.

A colpirci, alla luce dell’imbrunire, sono i colori di questa città, così singolari, a richiamare i toni della lava dell’Etna. Ma è con la sera che ci abbandoniamo con tutti i sensi alla città. Seguiamo il consiglio dei nostri padroni di casa ed andiamo a mangiare all’Osteria De Fiore in Via Pietro Antonio Coppola, 24, nella zona di Piazza Bellini, dove si trova il bellissimo e ricchissimo Teatro Massimo.

 In un locale rustico e che richiama in qualche modo l’idea di tempi antichi in cui le compagnie teatrali si ritrovavano lì al termine dei loro spettacoli, ci facciamo tentare dal menù ricco e tradizionale. Su questo, a più riprese, e soprattutto nella versione in inglese per turisti, troviamo chiarito che per alcuni piatti ci vuole tempo. Per fare le cose buone, tagliare le verdure, portare ad ebollizione, aggiustare la cottura, ci vuole tempo: abbiate pazienza!

Per la verità la nostra ordinazione arriva piuttosto velocemente o, per lo meno, secondo tempistiche che ben riflettono i nostri desideri ed il nostro stato d’animo. Caponatina per antipasto (decidiamo di non eccedere e ne dividiamo una in due), caserecce alla norma (il piatto forte della signora Rosanna. Fantastica pasta al pomodoro ricoperta da una deliziosa cupola di melanzane fritte che diventano bianche per una generosa spolverata di ricotta salata), caserecce al nero di seppia e un incredibile piatto di masculini alla brace! Mamma mia che bontà! Mai mangiate alici (qui dette masculini, appunto) così buone! Chiude il pasto una golosa mela fritta con uvetta e pinoli. Il tutto, insieme ad acqua e vino, per 34,00€… 17,00€ a testa!

Con i sensi di gusto e olfatto ben soddisfatti, girovaghiamo per soddisfare la vista. E di chiesa barocca in chiesa barocca, arriviamo al Castello Ursino in piazza Federico di Svevia. Scopriamo che un tempo il castello sorgeva su un isolotto la cui forma e natura è stata completamente trasformata dall’eruzione e dal terremoto del 1963. Difficile credere che fosse una struttura di difesa marina!! Decisamente un luogo molto suggestivo, nel bel mezzo della movida catanese alla quale decidiamo di prender parte, spostandoci di bar in bar, fino a tornare in piazza Bellini e, quindi, al nostro B&B. Si sono fatte le due…

La sveglia del sabato mattina è inclemente e d’altronde B. è più che decisa di andare a correre. Alla fine sarò felice di averla seguita. Per due motivi. Primo, perché scopro di potercela fare! Almeno 6, 7 km che mai avrei sospettato di poter sostenere. Secondo poi, perché la corsa dal B&B, in via Etnea e con 7 giri di Villa Bellini, ci danno una buona idea della vitalità mattutina dei catanesi. Sono già le dieci quando ci sediamo, dopo una bella doccia, nella “nostra” colorata cucina e ci abbandoniamo in “chiacchere da donne” con la nostra simpatica padrona di casa. 

Rinunciamo alla luculliana colazione che ci avrebbero offerto volentieri (cornetti e dolci tipici del forno di piazza San placido, crostata e cappuccino) e optiamo per yoghurt e the quasi a presagio della necessità di tenersi leggere in vista dei pasti successivi… Ancora chiacchere con Lea e Francesco per i commenti sulla serata passata ed i piani della giornata incipiente. Qualche prezioso consiglio e decidiamo di dirigerci verso Aci Trezza ed Aci Castello. Prendiamo l’autobus 534 dal vicinissimo Piazzale Borsellino ma nell’attesa della partenza dello stesso, ne approfittiamo per curiosare al mercato del pesce (la Pescheria), a ridosso del Duomo (ed altrettanto vicino al piazzale della partenza del nostro autobus!). 

Pesce di tutti i tipi, freschissimo, praticamente vivo, ad un prezzo imbarazzante per quanto basso! Ma non solo pesce! Tant’è che decidiamo di fare lo spuntino di mezza mattina con una bella ricottina fresca! Vabbè, è ora di mettersi sull’autobus. L’occasione è buona per spostarsi dal centro storico (via Etnea e viale XX Settembre) alla zona residenziale più chic (corso Italia) fino alla periferia più degradata per poi scendere lungo la costa più romantica con il villaggio di pescatori di Ognina. I circa 40 minuti di viaggio sono allietati dall’umanità varia che riempie tutti gli autobus del mondo. 

Non starò qui a raccontarvi le vicende delle tre dodicenni che sono salite sull’autobus complottando alla ricerca della scusa migliore da presentare alla mamma di una delle tre, fino a quando la suddetta mamma ha telefonato sul telefonino della figlia Francesca (userò un nome di fantasia visto che è la fantasia la regina di questa storia); risponde però l’amichetta che, candidamente terrorizzata, dice: “Signora, Francesca è QUI a casa mia per pranzo ma ora è in bagno. La faccio richiamare non appena esce dal bagno”. In sottofondo i rumori assordanti dell’autobus, dei suoi motori, dei suoi freni e dei suoi occupanti!! Povere mamme d’Italia!

Arriviamo dunque ad Aci Trezza. Vi posso dire che, rapite dalle bellezze naturali, abbiamo dimenticato di visitare la Casa del Nespolo??!?!? Nel paese in cui Verga ha fatto vivere i suoi Malavoglia ed in cui Luchino Visconti ha ambientato il suo capolavoro verista “La terra trema”, con la partecipazione degli abitanti del luogo come attori, la cosa che più colpisce sono i famosi faraglioni che il povero Ulisse rischiò di trovarsi scaraventati addosso! Conformazioni di origine vulcanica che caratterizzano la costa ed il porticciolo di pescatori, colorato di barchette variopinte. Abbiamo dimenticato di vedere i luoghi dei Malavoglia (che d’altro canto sono solo ricostruzioni) ma non certo di degustare le delizie del posto. 

Preoccupate di cadere in qualche trappola per turisti, siamo in realtà capitate in un ristorantino con vista mare a dir poco ottimo. Il nome non lo ricordo con esattezza purtroppo (forse Il Nespolo) ma ricordo con precisione la cortesia del proprietario e la bontà e la ricchezza dei nostri piatti. Per antipasto un freschissimo polpo in insalata ed alici marinate (si capisce che adoro le alici?!?!). Poi un misto di pesci alla brace (che bontà il calamaro!) e pesce spada alla brace, 2 bottiglie d’acqua, 2 caffè. Il tutto a 51,00€. Un po’ caro per i canoni catanesi ma assolutamente rispettabile per una romana e per una come me che viene da un posto turistico del basso Lazio dove a volte 51,00€ non bastano nemmeno per pagare il contro per una sola persona nei ristoranti di pesce!

Stiamo mangiando in abbondanza, non c’è che dire! …Ci sentiamo un po’ in colpa. Quindi decidiamo di raggiungere Aci Castello a piedi. Quando arriviamo, dopo una piacevole passeggiata lungo la costa, ci innamoriamo! Il Castello normanno, in lava nera, adorna una bellissima piazzetta che affaccia sul mare. La chiesetta e la facciata del municipio, entrambe molto belle, richiamano elementi della vita comune che giustificano i crocicchi di adolescenti del sabato pomeriggio, le coppiette sulle panchine, i papà che insegnano ai figlioletti come andare in bicicletta…

E’ ora di tornare a  Catania. Gli ottimi autobus AMT, con i loro orari sicuri, ci offrono un passaggio alla modica cifra di 1€ per un biglietto da 90 minuti. A Catania ci ritroviamo in Piazza Duomo… ammiriamo gli interni del duomo e non perdiamo tempo: decidiamo di prenotare un tavolo per cena all’Ambasciata del Mare che è proprio all’angolo opposto al Duomo, a ridosso della Pescheria. Tavolo prenotato. Ma la serata ci porterà altrove. Quando saremo in via Santa Filomena non potremo fare a meno di disdire la prenotazione all’ambasciata a favore di uno dei locali di quella via. 

Ci troviamo là perché sono curiosa di vedere “Ibridi”, lo shop corner di un giovane designer catanese, già oggetto di attenzione in diversi articoli di riviste di moda o in rubriche televisive. Il proprietario ha decisamente una personalità spiccante. Il negozio è molto stuzzicante. Peccato trovare solo pochi pezzi rimasti dall’ultimo appuntamento vintage. Giro quindi la mia attenzione su un paio di orecchini disegnati dal nostro amico e prometto di mantenere i contatti tramite Facebook (e come, se no?!?)… 

Chissà che non ci sia poi qualcuno nella mia città disposto a prendere contatti per vendere gli oggetti di Ibridi. Ma è ormai ora di cena e ci fermiamo alla Polpetteria, sulla stessa strada, qualche numero civico più in là. Non saprei dire se siamo state meglio per l’ottimo cibo, la buona birra artigianale, il locale di atmosfera o il personale simpatico (e anche carino!), fatto sta che ci tornerei anche ora! Segnalo però qualcosa di quello che abbiamo preso perché si tratta di piatti originali e gustosi. Anzi, non voglio tralasciare proprio nulla! Quindi, frittatina con amareddi (verdure amare), polpette di pollo con salsa al curry e riso basmati, polpette di calamari alla Eoliana e, dulcis in fundo, cheese cake e fedora… Volete sapere cosa sia la torta fedora? E’ semplicemente il peccato di gola più peccaminoso a cui possiate pensare: strati di pan di spagna, ricotta con scaglie di cioccolata, panna e mandorle tostate a sfoglie. Devo aggiungere altro?

La serata continua nel turbinio della mondanità frivola e un po’ freak-ketona della magica Katanè. Nonostante tutto anche questa sera riusciamo a fare tardi! Fortunatamente abbiamo deciso di non andare a correre la domenica mattina. Sarà una domenica all’insegna del relax. Ci trascineremo fin da Spinella per concederci gelati e cassate ma la nostra verve si limiterà a questo. Certo non prima di  aver goduto del sole di Piazza Bellini, al cospetto dell’elegante Teatro Massimo. 

A metà pomeriggio siamo sufficientemente riposate  per avviarci con l’autobus 457 all’aeroporto. Solo qui, quando realizziamo che il nostro volo ha due ore di ritardo, veniamo a sapere che quella mattina l’Etna ha eruttato. Evidentemente da una bocca sul versante opposto a quello che domina Catania perché noi non ci siamo accorte di nulla! E certo non avremmo potuto capirlo da altri segnali visto che questo vulcano non si è lasciato scoprire più di tanto. Lo ammetto, è colpa nostra: non abbiamo organizzato nemmeno una gitarella sull’Etna! Ed abbiamo perso l’occasione di vederci il più grande vulcano attivo d’Europa? No, tranquilli: nessun occasione persa, solo rimandata. Perché in questa città val la pena di tornare!! 

 

 

 

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CATANIA e DINTORNI

 

da: callmeleuconoe.wordpress.com

di Veronica Adriani

 

 

.....Non che fosse la mia prima volta in Sicilia. La mia, più che una scoperta, era una riscoperta di cose che avevo visto con occhi da bambina. Novità: non ero più sul sedile posteriore a guardare le cose dal finestrino, ma al volante ad evitare i pazzi che si lanciavano tra le macchine senza guardare. Non più trainata dalla famiglia, ma padrona delle mie scelte: dei miei soggiorni, delle mie cene, delle mie rotte improvvisate. E, soprattutto, di nuovo sul mare, che per scelta mia o per necessità involontaria, negli ultimi anni mi è stato un po’ troppo lontano.

Catania l’ho vista, per la prima volta, con la guida di tre catanesi DOC. Ho assaggiato la sua pizza alta, morbida, condita come mai sarebbe pensabile a Roma, e quella granita spumosa, in porzioni da gigante, che ti fa rimpiangere ogni volta che hai definito “granita” quell’ammasso striminzito di ghiaccio e sciroppo che vendono nei bar della tua città. Ho giocato a slalom con gli automobilisti locali, che professano ad ogni movimento di ruota la più totale, sistematica e netta strafottenza per ogni forma di regola del codice della strada. Ho visto la pietra lavica sui muri delle case, perché Catania, la nera, è figlia dell’Etna, che mentre ti minaccia di portarti via la casa con un fiume di lava, ti regala una terra fertile che è la più verde di tutta la regione. Una sorta di compensazione, di rimborso danni di stampo naturalistico.

L’Etna, che “è cresciuta negli anni”, mi dicono, perché per i catanesi è femminile pure se è un vulcano, è una montagna che appena ci arrivi su ti pare di stare sulla Luna, tra le nuvole che ti inghiottono e un freddo che ti taglia le mani. Sali lungo le curve come se stessi cambiando pianeta, con la terra che ti diventa nera sotto i piedi. Se ti affacci dall’alto, quando c’è il sole e il cielo è limpido, domini tutto il golfo. E allora lo capisci, perché è così importante, quel mostro fumante che vorresti guardare fin dentro la bocca – se il tuo portafoglio o il giusto connubio di gambe&fiato te lo permettessero, visto che con la macchina si arriva solo a metà strada: perché è lui il padrone. Catania, che vive tra il mostro e il mare, l’ha capito, e lo rispetta: galleggia, con le sue regole e la sua vita. Galleggiano anche i paesi che sorgono ai piedi della montagna, quelli che la lava la vedono passare, e che spalano la cenere che si deposita all’entrata delle case proprio come ad Asiago spalano la neve. E il perché lo facciano è nelle parole di una signora di Zafferana: “Noi siamo aperti, solari, fatalisti. Abbiamo avuto tutte le dominazioni possibili e viviamo ai piedi dell’Etna”. Come a dire: ce l’abbiamo nel DNA, fate un po’ voi.

Vicino all’Etna scorre il fiume Alcantara, che ha scavato dei passaggi nelle montagne, lasciando delle tracce che oggi sono diventate un parco naturale. Se hai visto quelle del Vintgar in Slovenia, le Gole dell’Alcantara sembreranno poca cosa. Ma per i siciliani, più che lo spettacolo naturale della montagna che si apre, conta l’acqua gelida in cui si immergono, scendendo dall’entrata comunale gratuita per trovare un po’ di fresco nella calura estiva. Per addentrarsi nelle gole e vedere l’acqua dall’alto, c’è un percorso obbligato. Mi affaccio tra la montagna e l’acqua che scorre sotto, e il geologo del gruppo mi spiega che sto osservando dei basalti colonnari, che sembrano dei parallelepipedi lanciati in orizzontale nella parete, e incastrati lì aspettando tempi migliori. Belle, le gole, ma il pensiero è immediato: da piccola mi erano sembrate tutt’altra cosa.

Se Catania è una proletaria ribelle, Taormina è aristocratica per (pro)vocazione. Lei, il vulcano non la tocca: vive la sua storia millenaria circondandosi in egual misura dei fasti del passato e dei negozi di souvenir, totalmente disinteressata alle sorti degli onnipresenti visitatori. Assaltata da turisti incoscienti, più attratti da ceramiche e magliette stampate col volto di Don Vito Corleone che alla bellezza del Teatro Greco, sfrutta la massa e coglie il momento. Non dà più informazioni storiche di quelle indispensabili, ma è prodiga di scacciapensieri, ceramiche e calamite da frigo, alternati alle boutique e agli hotel di lusso da sempre – e per sempre – pieni di raffinati e facoltosi avventori. Si affaccia sull’Isola Bella, da cui la separa solo un lembo di terra spesso sommerso dall’alta marea. Sulla spiaggia una sequela di bar, scomodi ciottoli e barche pronte a salpare per la vicina grotta azzurra e il  faraglione che ha fatto la fortuna di un locale a tema.

Dopo lo struscio forzato sul corso – nel mio caso persino privo di sole – non restano che due modi per riprendersi: il primo è affacciarsi dagli spalti verso lo squarcio sulla scena, che offre una doppia vista sul mare – con GiardiniNaxos, tanto bella da lontano quanto deludente da vicino, e sull’Etna. Il secondo è  infilarsi tra i vicoli in prossimità del Teatro, alla ricerca del laboratorio di pasticceria di “Roberto, il mago del cannolo”. Chiamatemi superficiale, ricordatemi che da morta finirò nel girone dei golosi, ma io la penso così: immergersi in un lago di ricotta dolce impastata con tante gocce di cioccolato è il modo migliore per dimenticare il turismo di massa e salutare le province di Messina e Catania per partire alla volta di Palermo. Ma questa è un’altra storia.

 

 

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