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Leggende

 

L’Elefante di Catania

 

Il caso tipico è rappresentato dalla mai avvenuta vittoria dei Catanesi sui Libici, che pure è stata eternata dal pennello di Giuseppe Sciuti nel telone del Teatro Bellini.

     La vittoria è esistita solo nella fantasia degli storici Catanesi del '600 - primo fra tutti Pietro Carrera - che inventavano anche quello che non era mai avvenuto, pur di dare lustro e gloria alla città che li accoglieva, e da cui si attendevano onori e prebende.

     Ma, sebbene la vittoria sia una pura e semplice invenzione, pure il fondamento storico esiste ugualmente, perché si tratta di un tentativo di spiegazione del motivo per cui i Catanesi hanno scelto l'elefante come loro simbolo civico.

     Il Carrera disse infatti che in quell'occasione i Catanesi catturarono gli elefanti Libici, e pertanto assunsero l'elefante come simbolo della loro vittoria.

     Il simpatico pachiderma è anche al centro di altre leggende.

     Esso, che è una statua magica, è intimamente collegato alle leggende raccolte dal Pitrè e dal Lo Presti, che ci parlano dall'antica leggenda, che si narrava ad Aci Castello, di un miracoloso elefante, che i Catanesi scelsero a loro simbolo, perché fugò da Catania tutti gli animali nocivi alla città; nonché di un mago Eliodoro, che realmente visse nel secolo VIII (come afferma l'insigne storico Michele Amari, in Storia dei Musulmani in Sicilia, vol. I, p., 344 ed. Nallino, Catania 1933 ), e di cui si diceva che cavalcasse l'elefante di pietra per le sue magiche scorribande.

     Il popolo, collegando l'episodio del pubblico rogo del mago Eliodoro, ordinato dal vescovo di Catania San Leone II nel 778, con le leggende relative all'elefante, ha chiamato e tuttavia chiama Liotru

(o Diotru ) la statua lapidea che da secoli troneggia in piazza Duomo.

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L’Elefante e il mago Eliodoro

 

     All'elefante di piazza Duomo è attribuito un nome popolare di oscuro ordine e cioè << Liotru >> o << Diotru >>.

    Secondo la leggenda il nome deriva da quello di Eliodoro o Diodoro.

    Questo strano personaggio, famosissimo mago esperto in incantesimi, tramutava gli uomini in bestie e avvicinava oggetti molto lontani.

    Riuscì persino a sfuggire alla condanna a morte inflittagli dai potenti della città.

Neanche il grande Costantino riuscì ad avere la meglio sui suoi prodigi.

    Fu solo il vescovo Leone, detto il Taumaturgo, cioè il guaritore, che liberò, attraverso un esorcismo, Catania dalla ingombrante presenza dell'inquieto personaggio.

    L'elefante entra nella leggenda di Eliodoro perché pare fungesse da cavalcatura del mago per i suoi rapidissimi viaggi da Catania a Costantinopoli.  

 

 

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La patetica storia di Gammazita

 

Alla signoria degli Angioini in Sicilia (1270-1282) è da riferire la patetica storia della giovinetta catanese di cui la leggenda ci tramanda lo strano nome di Gammazita. Il racconto popolare relativo a questa virtuosa giovinetta catanese dice che essa preferì gettarsi in un pozzo, forse nel cortile dei Vela, verso il 1280, anziché cedere alle voglie di un soldataccio francese che la insidiava. E’ evidente il collegamento con la realtà storica, non soltanto per il riferimento alle angherie compiute dai dominatori francesi sugli oppressi siciliani, che fu una delle cause dello scoppio dei Vespri siciliani del 30 marzo 1282, ma anche per il tentativo di spiegare come macchie del sangue di Gammazita i depositi ferruginosi lasciati da una sorgente minerale, che scaturiva a Catania tra le lave di Via San Calogero, e da qualche tempo disseccate. Una vecchia poesia popolare ricorda le virtù di Gammazita; in questi versi, una virtuosa fidanzata del buon tempo antico, per tenere a bada il focoso innamorato, lo ammoniva a tenere le mani a posto, altrimenti ella, come la vergine catanese del periodo angioino, si sarebbe gettata in un pozzo, preferendo la morte al disonore.

 

               Una poesia popolare coeva ricorda il sacrificio della virtuosa Gammazita.

(L. Vigo, Opere - Raccolta amplissima di canti popolari siciliani, vol. II,

Tip. Galatola, Catania 1870-74, pag. 567).

 

"Tu di lu cori sì la calamita

La mia palora non si cancia e muta;

Ti l'hè  juratu e ti saroggiu zzita,  

Chista mè porta ppi l'autri  è  chiujuta:

Cala li manu si mi voi pi zzita

L'ura di stari 'nzemi 'un è vinuta:

si cchiù mi tocchi, comu Gammazita,

       Mi vidi 'ntra lu puzzu sippilluta"

 

 

Il testo, in italiano, suonerebbe così: 

 

"Tu del cuore sei la calamita

La mia parola non cambia, né muta;

Ti ho giurato e ti sarò fidanzata,

Questa mia porta per gli altri è chiusa:

Non toccarmi se mi vuoi per fidanzata

L'ora di stare assieme non è ancora giunta:

se ancora mi tocchi, come Gammazita,

Mi vedrai nel pozzo seppellita" 

 

Una rappresentazione di questa leggenda si trova in uno dei candelabri bronzei di Piazza Università a Catania, opera di Mimì Maria Lazzaro e D. Tudisco su disegno dell'architetto V. Corsaro (1957).

 

 

 

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Cola Pesce

 

Ci fu una volta a Messina un giovane pescatore bello e forte, chiamato Cola. Nessuno meglio di lui sapeva maneggiare il remo, e la sua barca volava sulle onde come un uccello, vincendo gli stessi delfini. Il mare era la sua casa e la sua piazza; vi passava i giorni e le notti, avendo per amici i pesci che gli guizzavano intorno e per compagne le stelle che gli rinfrescavano gli occhi ansiosi e gli insegnavano la via. A lungo andare questa amicizia del mare gli tolse dal cuore ogni altro affetto, sicché non cercò più né uomo né donna, e dimenticò madre e fratelli.

Nelle notti silenziose, piene soltanto delle risa e dei sospiri dei flutti, egli conobbe le ninfe marine dagli occhi come le stelle, e le sirene dal corpo di serpente. I loro canti e i loro vezzi lo incantavano, ma com'egli cercava di afferrarle esse sempre gli sfuggivano, sparendo con un trillo nel mare. Ammaliato egli ficcava giù gli occhi, e alla vista gli si paravano meravigliosi spettacoli che più lo turbavano e lo attiravano: giardini di corallo, palazzi di cristallo, saloni tutti scintillanti d'oro dove donne bellissime dolcemente danzavano.

Questa febbre continua gli tolse la pace e il sonno, e lo fece diventare più solitario e più triste di prima. Restava lungamente fisso con gli occhi incantati, e non sapeva più dove volgere la sua barca. Sentiva nelle pause delle onde musiche che salivano dagli abissi del mare, e le sirene affacciandosi lo chiamavano ripetutamente:
- Cola! Cola! perché non vieni a trovarci?

Non potendo più resistere, egli si gettò nell'acqua, e nuotando disperatamente scandagliò tutte le profondità del mare. Ciò che egli vide nessuno lo seppe mai; ma quando ritornò a galla il suo viso era pallido come quello dei morti e nei suoi occhi c'era il ricordo delle cose spaventevoli e meravigliose viste dove nessuno era mai stato. Da quel giorno i suoi occhi ebbero un inusitato splendore, e il suo viso una nuova bellezza: ma egli non parlò più e, come vedeva da lungi un essere umano, via fuggiva con la sua barca, e a un tratto spariva nei frutti. Per questo lo chiamarono Cola Pesce, e la sua fama si sparse per tutta l'isola.

 

Ora un giorno capitò a Messina il Re Federico. Aveva con sé la figliola bella come un raggio di sole, e gran seguito di baroni e cavalieri tutti lucenti d'oro e d'argento. Egli viaggiava la Sicilia per cercare alla sua figliola un marito degno di lei, bello e prode, e bandiva giostre e tornei. Ma nessuno ancora era piaciuto alla superba fanciulla, e molti erano morti per lei in avventure e imprese impossibili.

- lo mi darò - ella diceva - a chi non avrà più niente da negarmi.

Sentito di Cola Pesce, ella volle conoscerlo e per ordine del Re barche e navigli corsero per ogni dove il mare a cercare l'uomo meraviglioso. Finalmente egli fu trovato, e condotto alla presenza della fanciulla. Guardando il viso bello del pescatore ella ebbe un fremito, e gli occhi di lui a vederla si accesero.

- È vero - chiese le Reginetta con la voce tremante - che tu vivi negli abissi del mare, amando le sirene e cavalcando i tritoni?

Cola sorrise e la fissò senza rispondere.

- Ebbene - chiese ancora la fanciulla - che faresti tu per me?

- Tutto - rispose Cola.

Ella tolse dalle mani del Re la coppa d'oro e la buttò nel mare, e le onde si torsero per lasciarla affondare.

- Se tu me la riporti - disse - ti darò la mia bocca a baciare.

Cola gettò un salto e sparì nei flutti. Un grande silenzio si fece a riva, e tutti attesero frementi. Finalmente le onde si mossero, si gonfiarono e Cola apparì levando alto nel sole la coppa d'oro. Un clamore lo salutò; ma la fanciulla tutta pallida rise, prendendo la coppa dalle mani del pescatore:
- Come vuoi, o Cola, ch'io possa amarti?

E Cola sorrise, guardandola fisso negli occhi. La fanciulla si sganciò dai fianchi la cintura d'oro e di diamanti e la buttò nel mare, e le onde gorgogliarono per lasciarla passare.

- Se tu me la riporti - disse - io mi farò da te abbracciare.

Senza nulla dire, Cola si slanciò e sparì. Un lungo fremito corse la folla, e la superba fanciulla sentì tremare il suo cuore. Dopo lunga attesa le onde si agitarono nuovamente e Cola riapparve, tenendo nella mano la preziosa cintura. Un urlo di gioia lo salutò, e tutti gli occhi si volsero alla superba fanciulla. Ma ella tutta pallida rise, prendendo la cintura dalle mani del pescatore:
- Come vuoi, o Cola, ch'io possa amarti?

 

E Cola nulla rispose, guardandola triste negli occhi. Ella si tolse dal dito il piccolo anello e lo buttò nel mare, e nessuno s'accorse dove mai cadesse.

- Se tu me lo riporti - disse, con negli occhi un meraviglioso splendore - io sarò tua sposa.

Un mormorio minaccioso s'udì dalla folla, e gli stessi baroni gridarono a Cola che non più s'arrischiasse:
- O temerario, non cercare la morte!

Ma Cola s'era slanciato, e lungamente si videro, dov'egli era sparito, fremere e spumeggiare le onde.

Molto tempo passò e Cola non ritornò più. Invano la folla attese, invano gli occhi della superba fanciulla interrogarono ansiosi il mare; e molto ella pianse, perché molto amava il pescatore meraviglioso ch'era perito per lei.

E ancor oggi in fondo allo stretto di Messina, Cola Pesce vaga disperato cercando l'anello della principessa; ma l'anello è troppo piccolo, e troppo grande è il mare.

 

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1° variante della leggenda di Cola Pesce

 

 

La leggenda di Cola Pesce è diffusa in tutta la Sicilia ed in tutto il mondo mediterraneo, e di lei corrono ben 18 varianti, sicché di questa leggenda si può parlare come della leggenda "nazionale" della Sicilia, per gli elementi culturali, storici e ambientali che vi si trovano: ed una variante della leggenda dice addirittura che Cola Pesce si trova in fondo al mare, per sostenere una delle tre colonne, ormai pericolante, su cui secondo la fantasia popolare si regge l’isola. 
I riflessi catanesi della leggenda di Cola Pesce, che era un sub eccezionale, capace di stare settimane e mesi sott’acqua, come un autentico pesce, sono dati non soltanto dal fatto che molte varianti della leggenda lo dicono nativo di Catania, ma anche dal fatto che a Catania, nel Settecento, c’era un bravo tuffatore, un popolano soprannominato Pipiriddumi, che si vantava di essere un diretto discendente dal celebre Cola Pesce; ma il riflesso catanese più importante nella leggenda di questo tuffatore veramente singolare è che Cola Pesce, in tutte le varianti del racconto popolare, parla sempre del fuoco dell’Etna, che ribolle sotto il mare: e in una diffusa variante della leggenda, il marinaio catanese muore proprio bruciato dal fuoco sottomarino dell’Etna, perché il re Federico, incredulo della relazione fattagli da Cola, pretese che egli portasse una prova di quanto affermato. Al che, Cola Pesce prese una ferula (il noto, leggerissimo legno che galleggia facilmente) e disse: "Maestà, questa ferula ritornerà bruciata alla superficie del mare, e questa sarà la prova che sotto il mare esiste il fuoco dell’Etna; ma io non ritornerò più, perché il fuoco sottomarino mi distruggerà". E così fu!

 

 

 

2° variante della leggenda di Cola Pesce


Un'altra leggenda vuole che il Re incuriosito della bravura di Colapesce o forse pensando di poter utilizzare il giovane per qualche impresa, lo convoca. L'incontro avviene nelle acque antistanti Messina (Colapesce ormai vive costantemente in acqua). Il re sottopone Colapesce a prove sempre più difficili. Butta in mare la preziosa corona e gli chiede di ripescarla, gli chiede di quali misteriose creature vivono negli abissi e quanto è profondo il mare. Dopo una di queste immersioni Colapesce riemerge spaventato. Racconta al re di aver visto che la Sicilia poggia su tre colonne, una a capo Passero, una a capo Lilibeo e una a capo Peloro, proprio sotto Messina, e per di più questa colonna è incrinata e potrebbe crollare da un momento all'altro. Il re gli chiede di andare a controllare meglio, ma la profondità è eccessiva e Colapesce è stanco. Chiede allora un pugno di lenticchie da portare con sé. Se le lenticchie torneranno a galla vorrà dire che Colapesce é morto. Colapesce si immerge e dopo qualche tempo riemergono le lenticchie. 
Grande è lo sconforto per la morte di Colapesce e per il destino della città. Secondo la leggenda Colapesce non è morto, ma, avendo visto che la colonna incrinata stava cedendo, si è sostituito ad essa ed è ancora lì a sostenere Messina e la Sicilia intera.

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La leggenda dei fratelli pii

 

I fratelli Anapia e Anfinomo sono sorpresi nei loro campi, insieme ai vecchi genitori, da un’eruzione dell’Etna. L’unica speranza è una fuga veloce, ma gli anziani genitori non possono farcela. I fratelli allora se li caricano sulle spalle. Quando sono raggiunti dalla lava, questa si divide miracolosamente in due per poi ricongiungersi, lasciando i fratelli e i genitori incolumi.

In loro onore vennero innalzati tempi, scolpite statue e coniate monete. La loro tomba fu posta nel "campo dei fratelli pii" presso il tempio di Cerere. Non è improbabile che a questa leggenda si sia rifatto Virgilio nell’episodio di Enea che fugge dall’incendio di Troia con il padre Anchise sulle spalle.

 

 

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I Giganti Ursini


Se dal periodo Bizantino passiamo a quello arabo-normanno, troviamo la leggenda dei giganti arabi Ursini sconfitti dal normanno Ruggero, che recava l’insegna cristiana della Madonna: ed è evidente il fondamento storico di questa leggenda, che adombra l’effettiva lotta dei normanni cristiani contro gli arabi musulmani, nonché il tentativo di dare una spiegazione al nome del più illustre monumento catanese, il Castello Ursino, il quale sembrava invece che debba il suo nome ad un Castrum Sinus, cioè  “castello a mare”, che in epoca romana e bizantina sorgeva su un promontorio, a guardia del porto e della città.

     Se ora il Castello Ursino è lontano dal mare, ciò è dovuto alla tremenda colata lavica del 1669, che lo circondò completamente, e si spinse per oltre tre chilometri nel mar Ionio.

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Il paladino Uzeta


All’età  feudale si fa rimontare la storia del paladino catanese Uzeta (che sebbene figlio di povera gente, divenne cavaliere e sposa la figlia del re): ma essa è una favola romantica senza nessun fondamento storico, ed infatti è nata dalla fantasia del giornalista catanese Giuseppe Malfa. Questo paladino dalla nera armatura è quindi creatura assolutamente fantastica, e non ha proprio nulla da spartire con lo storico personaggio del duca Paceco de Uzeda (vicerè spagnolo della Sicilia alla fine del sec. XVII) il cui nome è ricordato dalla porta Uzeda di piazza Duomo, perché egli volle la ricostruzione di Catania, distrutta dal terremoto del 1693, ed infatti vi spedì il suo architetto militare Giuseppe Lanza, duca di Camastra, cui si deve l’attuale forma topografica della città.

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La  pietra del Malconsiglio

 

     Una delle più violente esplosioni dell'ira dei Siciliani contro gli esosi governatori spagnoli del tempo, fu senza dubbio, quella rivoluzione, avvenuta nel 1516-17 contro il viceré Ugo Moncada, e che per la sua asprezza fu chiamata "i secondi Vespri Siciliani".

     Anche a Catania serpeggiava il malcontento contro il viceré Moncada, e i nobili catanesi, capitanati da Cesare Gioeni, da Giorolamo Guerrera e dal giureconsulto Blanco Lanza, si riunivano presso una grossa pietra nelle vicinanze della città (nel piano detto dei Triscini, oggi piazza Santa Nicolella).

     Poiché tutti questi partigiani del Moncada fecero male fine - chi non morì nel combattimento della torre di don Lorenzo, finì impiccato nel Piano delle Forche, oggi Piazza Cavour o Borgo,  il 10 marzo 1517 - la funesta pietra, che tanta sfortuna aveva portato ai congiurati fu detta pertanto la Pietra del Malconsiglio e lungo tempo stette abbandonata in piazza Manganelli, donde fu portata nel secondo cortile del palazzo Carcaci, ai Quattro Canti, dove si trova tutt’ora.


 

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Leggende legate al terremoto del 1693

 


     A questo terribile cataclisma sono legate due leggende catanesi quella di "Don Arcaloro" e quella del vescovo Carafa.

     La prima di queste due leggende narra che nella mattina del 10 gennaio 1693 si presentò al palazzo del barone catanese Don Arcaloro Scamacca una fattucchiera locale, e con la sua vociaccia gridò a Don Arcaloro di affacciarsi subito, perché gli doveva dire una cosa di grande importanza: ne andava di mezzo la vita! Don Arcolaro, conoscendo il tipo, ordinò che la facessero salire. La vecchia strega allora confidò al barone che quella notte gli era apparsa in sogno Sant'Agata, la quale supplicava il Signore di salvare la sua amata città dal terremoto, ma il Signore a causa dei peccati dei catanesi, aveva rifiutato di concedere la grazia, ed aggiunse la terribile profezia "Don Arcaloru, Don Arcaloru, /dumani, a vintinura, /a Catania s’abballa senza sonu!", e cioè "Don Arcaloro, don Arcaloro, domani, alle 14, a Catania si ballerà senza musica!". Il Barone capì subito di quale ballo la vecchia parlasse, e si rifugiò in aperta campagna, dove attese l’ora fatale, e puntualmente all’ora indicata dalla strega il terremoto si verificò.

Un vecchio quadro settecentesco, riprodotto da Salvatore Lo Presti, rappresenta il barone catanese con l’orologio in mano, in attesa della funesta ora.


La seconda leggenda relativa al terremoto del 1693 è quella che riguarda il vescovo di Catania Francesco Carafa, che fu a capo della diocesi dal 1687 al 1692. La leggenda dice che questo vescovo, mediante le sue preghiere, era riuscito per ben due volte a tenere lontano dalla sua cara città il terribile terremoto. Ma nel 1692 egli morì, e l’anno dopo, venute meno le sue preghiere Catania fu distrutta. Nell’iscrizione posta sul suo sepolcro, che si trova nel Duomo di Catania, si legge infatti: "Don Francesco Carafa, già Arcivescovo di Lanciano poi Vescovo di Catania, vigilantissimo, pio, sapiente, umilissimo, padre dei poveri, pastore così amante delle sue pecorelle, che poté allontanare da Catania due sventure da parte dell’Etna, prima del terremoto del 1693. Dopo di che morì. Giace in questo luogo. Fosse vissuto ancora, così non sarebbe caduta Catania.

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Aci e Galatea

 

La ricchezza di sorgenti d’acqua dolce nella zona etnea, venne dai Greci spiegata con il mito di Aci e Galatea.

Aci, era un pastorello che viveva, pascolando il suo gregge, lungo i pendii dell’Etna. Di lui era innamorata la bella Galatea che aveva respinto le proposte amorose di Polifemo. Questi, accortosi delle preferenze date da Galatea al pastorello Aci, uccide il suo rivale, nella speranza di conquistare la bella Galatea, una volta eliminato il suo concorrente! Ma, ahimè, l’amore di Galatea per il suo Aci continua sino a dopo la sua morte, lasciando Polifemosconsolato. La bianca Nereide, sconsolata, con l’aiuto degli Dei, trasforma il corpo morto di Aci in sorgive di acqua dolce, che scivolano giù, lungo i pendii dell’Etna, mormorando suoni melanconici di struggente nostalgia.

Non lontano dalla costa, vicino la località chiamata oggi "Capo Molini", in un luogo poco accessibile da terra e più facilmente dal mare, esiste una piccola sorgiva ferruginosa chiamata dalla gente locale "il sangue di Aci" per il suo colore rossastro.

Notare quale soave spiritualità pervade questa storia che non spiega nient’altro che un fenomeno geologico. Nella località chiamata oggi "Capo Molini" esistette un modesto villaggio chiamato, in memoria del pastorello del mito greco, Aci. Nell’XI° sec. d.c.d.C.D.C. un terremoto distrusse il villaggio, provocando l’esodo dei sopravvissuti, i quali fondarono altri centri nei dintorni. In memoria del nome della loro città d’origine, i profughi vollero chiamare i nuovi centri col nome di Aci, al quale fu aggiunto in seguito un appellativo per distinguere un villaggio dall’altro: così Aci Castello (per un castello costruito su di un faraglione prodotto da un’eruzione sottomarina che poi fu raggiunto da una colata lavica nell’XI sec., trasformandolo in un promontorio); Acitrezza (per la presenza di tre faraglioni antistanti il Paese); Aci Bonaccorsi, Aci Catena, Aci S. Antonio, Aci Platani, Aci Sanfilippo.

 

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Il cavallo del vescovo di Catania


 

Appartiene all’età sveva la leggenda che parla del cavallo del vescovo di Catania.

Dice infatti questa leggenda che il crudele imperatore svevo Enrico VI, che regnò in Sicilia dal 1194 al 1197, impose in Sicilia vescovi e dignitari a lui fedeli, e suoi degni rappresentanti anche quanto a ferocia . Uno di questi crudeli funzionari imperiali era il vescovo di Catania, il quale una volta affidò il suo cavallo più bello a uno scudiero, per portarlo a passeggio sulle balze dell’Etna. Il cavallo a un certo punto, si imbizzarrì, e cominciò a correre verso la cima del vulcano. Lo scudiero, ansante e grondante sudore, seguì il cavallo del vescovo fin sulla vetta dell’Etna, ma, arrivato sull’orlo del cratere centrale, il cavallo diede un balzo, e vi sparì dentro. Il povero scudiero si mise a piangere pensando a quale sorte lo aspettava se fosse tornato a mani vuote dal suo feroce signore, quando improvvisamente vide accanto a sé un vecchio, dalla solenne barba bianca, che gli disse: "Io so perché tu piangi; vieni con me, e ti mostrerò dov’è il cavallo del vescovo di Catania".

E afferratolo per mano, lo condusse per un passaggio misterioso, attraverso il fumo del vulcano, dentro una sala meravigliosa, dove c’era un trono tutto d’oro, e sul trono c’era re Artù (che secondo una leggenda inglese vive ancora sull’Etna). Il re gli disse che sapeva tutto di lui e del crudele vescovo di Catania, e gli mostrò, in fondo alla sala, il cavallo che egli cercava, ed aggiunse: "Torna dal tuo vescovo, e digli che sei stato alla corte di re Artù; e digli anche che la sua crudeltà e la sua prepotenza, hanno stancato perfino la pazienza di Dio, che presto lo punirà per mio mezzo, e digli infine che, se vuole il suo cavallo, deve venire a riprenderselo lui stesso, salendo a piedi fin qui, ma se non verrà entro 14 giorni, al quindicesimo giorno egli morirà". E detto questo lo congedò. Lo scudiero, ritornò a Catania, ma il crudele vescovo non gli credette, anzi sostenne che lo scudiero aveva venduto il cavallo, ma, colpito dall’accento di verità del suo servo, non ordinò di decapitarlo, e lo fece imprigionare.

Per 14 giorni, lo faceva venire dinanzi a sé e lo interrogava, e lo scudiero raccontava sempre la stessa storia di re Artù, il vescovo non voleva umiliarsi e riconoscere le sue colpe, e mandava sempre gente sull’Etna a cercare il suo cavallo, e la gente non tornava più. Così si andò avanti per 14 giorni, all’alba del quindicesimo giorno il vescovo, esasperato, si fece venire davanti l’intrepido scudiero. "Tu sei uno stregone" lo investì, "tu ti sei divertito a fare scomparire non solo il mio cavallo, ma anche i miei cavalieri e le mie guardie

E io ti darò ora il premio che si conviene agli stregoni come te: non la forca o la decapitazione, ma il rogo. Orsù, guardie, prendetelo e bruciatelo vivo!". Nel dir così si alzò in piedi, ma strabuzzò gli occhi, diede una giravolta, e cadde morto stecchito.

La profezia di re Artù si era avverata, e il crudele vescovo aveva terminato per sempre di tormentare i poveri catanesi.

 

 

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Il cavallo senza testa

 

La Catania del '700 ci presenta una leggenda davvero affascinante, quella del cavallo senza testa.

Questa leggenda è ambientata nella bellissima Via Crociferi; in questa via i numerosi nobili che vi abitavano nel '700, e che vi tenevano i loro notturni conciliaboli o per intrighi amorosi o per cospirazioni private, e quindi non volevano essere notati, e tanto meno riconosciuti, fecero spargere la voce che di notte vagasse un cavallo senza testa, e perciò nessuno vi si avventurava una volta calate le tenebre. Soltanto un coraggioso giovane scommise con i suoi amici che ci sarebbe andato nel cuore della notte, e come prova di questo, avrebbe piantato un grosso chiodo sotto l’Arco delle monache Benedettine, che la tradizione vuole costruito in una sola notte nel 1704. Gli amici accettarono la scommessa, e l’ardimentoso giovane, munito di scala, del grosso chiodo e del martello, si recò a mezzanotte sotto l’arco delle monache, e vi piantò il chiodo (ancora se ne vede il buco), ma, nell’eccitazione non si accorse di avere attaccato anche un lembo del suo mantello al muro, sicché quando volle scendere dalla scala, si sentì afferrato a una mano invisibile, il giovane credette allora di essere stato afferrato dal cavallo senza testa, e ci rimase secco.

Aveva vinto la scommessa ma la leggenda del cavallo ebbe una clamorosa conferma, e nessuno si azzardò più di passare di notte per Via Crociferi.

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Pippa la Catanese era una florida popolana nata a Catania, e morta a Napoli. Visse a cavallo tra il XIII e il XIV secolo. Il suo vero nome era Filippa "per vezzo familiare detta Pippa". Di mestiere faceva la lavandaia ma il destino le riservò poi un’esistenza quasi splendida conclusa però con una morte atroce. Giovanissima, fù scelta per nutrice di Luigi, figlio di Roberto d’Angiò e Violante d’Aragona nato nel castello Ursino, per cui "si addisse al nuovo servizio con entusiasmo di affettuosa mamma siciliana", tirando su con ogni cura il principe, che cresceva vigoroso. Allorché gli Angioini furono cacciati dalla Sicilia e ritornarono a Napoli, Pippa seguì la Corte dove i sovrani "l’ebbero in particolare benevolenza, l’arricchirono di doni e la tennero in onore", anche quando il "bambino regio" improvvisamente morì. Anzi, conquistò un ruolo sempre più importante e frattanto aveva acquistato "gentilezza di modi", fino a sposare il siniscalco del regno al quale diede tre figli. Nel 1343 sul trono salì Giovanna I d’Angiò che aveva sposato il principe Andrea d’Ungheria, il quale, ancora prima dell’età dei ventidue anni, volle essere consacrato re di Napoli, ostentando nella cerimonia dell’incoronazione, la minaccia della mannaia per i dissidenti, i quali erano molti e facevano affidamento sull’antipatia e l’intolleranza che la sovrana, che amoreggiava con il cugino Luigi duca di Taranto, nutriva per il marito contro il quale fu ordita una congiura; e il meschino fu strangolato e scaraventato giù da una finestra. Intervenne il Papa, quale supremo signore feudale sul Regno di Napoli, e cominciò, per identificare i congiurati, la caccia all’uomo ma la prima ad essere indiziata fu una donna, Pippa assurta da qualche tempo a rango di confidente della Regina. L’ex lavandaia fu atrocemente torturata, disse di aver saputo della congiura ma di non avervi preso parte. Ma dalla catanese si voleva sapere di più, "adoperando tenaglie infuocate per dilaniare le carni di lei", per costringerla a parlare. Ma la donna, o perché veramente non sapeva nulla o per fedeltà alla sua regina, non parlò e spirò fra strazi orrendi. Anche uno dei suoi figli e un nipote furono martirizzati: bruciati vivi sul rogo mentre quelli che avevano assassinato Andrea restarono immuni da qualunque punizione.

 

Scilla e Cariddi
 
Un altro esempio del costume di personificare le forze della natura in personaggi ideali, furono le figure di Scilla e Cariddi. Scilla, dal lato calabro, e Cariddi dal lato siculo, furono rappresentati dal mito greco come due mostri che terrorizzavano i naviganti al loro passaggio. Scilla (colei che dilania), e Cariddi (colei che risucchia), rappresentavano per i greci le forze distruttrici del mare. Un tempo Scilla era conosciuta come una bellissima donna, figlia di Ecate, la quale fu poi trasformata in un orrendo mostro di forma canina, dalle sei orrende teste e dalle dodici zampe. Cariddi, figlia di Poseidone e della Madre Terra, era considerata come una donna vorace, che Giove scagliò sulla terra insieme ad un fulmine: ella era usa bere enormi quantità di acqua che poi ributtava in mare.Queste due divinità, pur essendo state localizzate tra le due rive dello stretto di Messina, dove le coste sono più vicine, furono intese in senso lato a rappresentare i pericoli del mare dove questo è ristretto dalla presenza delle terre. Un altro fenomeno notato dagli antichi era quello che, fu chiamato "Fata Morgana" (costei, sorella di re Artu’ ed allieva del Mago Merlino, fu un personaggio dei romanzi cavallereschi). L’evaporizzazione provocata dal surriscaldamento dell’acqua del mare, nelle calde giornate d’estate, (particolarmente quando l’acqua dello stretto appare calma) produce foschie, facili a creare immagini di ombre vaganti. Furono proprio queste foschie che facevano "vedere" ai Greci, dalla costa calabra, schiere di uomini erranti sulla costa sicula,a far nascere il mito della Fata Morgana.

 

 

Aretusa
Racconta il mito che Aretusa, figlia di Nereo e di Doride, inseparabile amica della dèa cacciatrice Diana, venne da questa dèa trasformata in una fonte di acqua dolce, che sgorga copiosa lungo la riva baciata dalle acque del porto grande di Siracusa. La metamorfosi fu attuata per sottrarre la timida ninfa alla insistente corte del dio Alfeo; costui, però, quale divinità fluviale, scorrendo sotto le acque del mare Egeo, raggiunse la fonte nella quale era stata trasformata l’amata Aretusa. Raggiunta la fonte, Alfeo sgorgò a non molta distanza da lei, al fine di consentire alle sue acque di raggiungere quelle della fonte Aretusa e quindi mescolarsi con loro. In verità, Alfeo era un piccolo fiume della Grecia che, dopo aver effettuato un breve tragitto in superficie, scompariva sotto terra. Quando i Greci trovarono la piccola sorgiva di acqua dolce fuoriuscire non lungi dalla fonte copiosa di Aretusa, trovarono lo spunto per spiegarsi, fantasiosamente, la scomparsa del fiume Alfeo in Grecia, che sarebbe riapparso in superficie (dopo il lungo viaggio sottomarino) in Sicilia
Don Arcaloro
Si narra che nella mattina del 10 gennaio 1693 si presentò al palazzo del barone catanese Don Arcaloro Scamacca una fattucchiera locale, e con la sua vociaccia gridò a Don Arcaloro di affacciarsi subito, perché gli doveva dire una cosa di grande importanza: ne andava di mezzo la vita! Don Arcolaro, conoscendo il tipo, ordinò che la facessero salire. La vecchia strega allora confidò al barone che quella notte gli era apparsa in sogno S.Agata, la quale supplicava il Signore di salvare la sua amata città dal terremoto, ma il Signore a causa dei peccati dei catanesi, aveva rifiutato di concedere la grazia; ed aggiunse la terribile profezia "Don Arcaloru, Don Arcaloru, /dumani, a vintin’ura, /a Catania s’abballa senza sonu!", e cioè "Don Arcaloro, don Arcaloro, domani, alle 14, a Catania si ballerà senza musica!". Il Barone capì subito di quale ballo la vecchia parlasse; e si rifugiò in aperta campagna, dove attese l’ora fatale: e puntualmente all’ora indicata dalla strega il terremoto si verificò. Un vecchio quadro settecentesco, riprodotto da Salvatore Lo Presti, rappresenta il barone catanese con l’orologio in mano, in attesa della funesta ora.
La leggenda di Billonia
Billonia era una donna minuta, tutt’altro che sgraziata, era "la fioraia della Villa, sfiorita per conto suo, ma con la camicetta ostinatamente sfavillante di dorati lustrini" . Andava anche su e giù per via Etnea "con i fasci di fiori di campo, le margherite, le rose, che offriva alle coppiette di fidanzati sperando di ricevere una ricompensa, e di sera si piazzava davanti ai teatri" In fondo, era un’immagine gentile con i suoi coloratissimi costumi ricchi di nastri, un’immagine che sotto i lustrini tentava di nascondere un’immensa povertà. Ma c’era anche un pizzico di femminile civetteria in quello strano abbigliamento! Andava spesso in giro con la madre "ma gli stenti le avevano rese uguali e sarebbe stato difficile capire, a vederle, chi di esse fosse la più vecchia" . D’inverno trascorrevano gran parte delle giornate sui gradini della chiesa di San Biagio, in piazza Stesicoro, ma d’estate si trasferivano al giardino Bellini, sempre popolato di catanesi che accorrevano ad ascoltare i concerti della banda: e lì Billonia poteva raggranellare qualche soldino in più. Poi la madre morì, e poco dopo scoppiò il primo conflitto mondiale: "e, mentre il mondo dava addio ai divertimenti e alle spensieratezze di un tempo, neanche Billonia, la semplice e inutile fioraia, travolta dai tempi e dalla guerra, ebbe più motivo di sopravvivere". Nessuno la vide più.
 Il cavallo del vescovo di Catania
La leggenda narrà che il crudele imperatore svevo Enrico VI, che regnò in Sicilia dal 1194 al 1197, impose in Sicilia vescovi e dignitari a lui fedeli, e suoi degni rappresentanti anche quanto a ferocia. Uno di questi crudeli funzionari imperiali era il vescovo di Catania, il quale una volta affidò il suo cavallo più bello a uno scudiero, per portarlo a passeggio sulle balze dell’Etna. Il cavallo a un certo punto, si imbizzarrì, e cominciò a correre verso la cima del vulcano; lo scudiero, ansante e grondante sudore, seguì il cavallo del vescovo fin sulla vetta dell’Etna; ma, arrivato sull’orlo del cratere centrale, il cavallo diede un balzo, e vi sparì dentro. Il povero scudiero si mise a piangere pensando a quale sorte lo aspettava se fosse tornato a mani vuote dal suo feroce signore; quando improvvisamente vide accanto a sé un vecchio, dalla solenne barba bianca, che gli disse: "Io so perché tu piangi; vieni con me,e ti mostrerò dov’è il cavallo del vescovo di Catania". E afferratolo per mano, lo condusse per un passaggio misterioso, attraverso il fumo del vulcano, dentro una sala meravigliosa, p dove c’era un trono tutto d’oro, e sul trono c’era re Artù (che secondo una leggenda inglese vive ancora sull’Etna). Il re gli disse che sapeva tutto di lui e del crudele vescovo di Catania, e gli mostrò, in fondo alla sala, il cavallo che egli cercava, ed aggiunse: "Torna dal tuo vescovo, e digli che sei stato alla corte di re Artù; e digli anche che la sua crudeltà e la sua prepotenza, hanno stancato perfino la pazienza di Dio, che presto lo punirà per mio mezzo; e digli infine che, se vuole il suo cavallo, deve venire a riprenderselo lui stesso, salendo a piedi fin qui; ma se non verrà entro 14 giorni, al quindicesimo giorno egli morirà". E detto questo lo congedò. Lo scudiero, ritornò a Catania, ma il crudele vescovo non gli credette , anzi sostenne che lo scudiero aveva venduto il cavallo; ma, colpito dall’accento di verità del suo servo, non ordinò di decapitarlo, e lo fece imprigionare. Per 14 giorni, lo faceva venire dinanzi a sé e lo interrogava, e lo scudiero raccontava sempre la stessa storia di re Artù; il vescovo non voleva umiliarsi e riconoscere le sue colpe, e mandava sempre gente sull’Etna a cercare il suo cavallo, e la gente non tornava più. Così si andò avanti per 14 giorni; all’alba del quindicesimo giorno il vescovo, esasperato, si fece venire davanti l’intrepido scudiero. "Tu sei uno stregone" lo investì, "tu ti sei divertito a fare scomparire non solo il mio cavallo, ma anche i miei cavalieri e le mie guardie. E io ti darò ora il premio che si conviene agli stregoni come te: non la forca o la decapitazione, ma il rogo. Orsù, guardie, prendetelo e bruciatelo vivo!". Nel dir così si alzò in piedi, ma strabuzzò gli occhi, diede una giravolta, e cadde morto stecchito. La profezia di re Artù si era avverata, e il crudele vescovo aveva terminato per sempre di tormentare i poveri catanesi.

 

L'elefante di Catania
A un’antica leggenda è riportata l’origine dell’elefante di Catania, che dal 1239 è il simbolo ufficiale della città. Questa leggenda racconta che quando Catania fu per la prima volta abitata, tutti gli animali feroci e pericolosi furono messi in fuga da un elefante, al quale i catanesi, in segno di ringraziamento, eressero una statua, da loro chiamata con il nome popolare di liotru, che è una correzione dialettale del nome di Elidoro, un dotto catanese dell’VIII secolo, che fu fatto bruciare vivo nel 778 dal vescovo di Catania san Leone II il Taumaturgo, perché Elidoro, non essendo riuscito a diventare vescovo della città, disturbava le funzioni sacre con varie magie, tra cui quella di far camminare l’elefante di pietra. Diverse ipotesi sono state fatte dagli studiosi per spiegare l’origine e il significato della statua di pietra, che oggi troneggia in Piazza Duomo, nella sistemazione datale dal Vaccarini nel 1736.Di queste ipotesi due meritano un cenno: la prima è quella dello storico Pietro Carrera da Militello (1571-1647),che nel suo libro Memorie Historiche della città di Catania,lo spiegò come simbolo di una vittoria militare riportata dai catanesi sui libici;ipotesi che ha generato il telone del teatro Bellini di Catania,perché il pittore Sciuti nel 1890,per l’inaugurazione del teatro,vi raffigurò proprio questa immaginaria vittoria dei catanesi sui libici. L’ipotesi più attendibile è però quella espressa dal geografo arabo Idrisi nel XII secolo :secondo Idrisi,l’elefante di Catania è una statua magica,costruito in epoca bizantina,proprio per tenere lontano da Catania le offese dell’Etna ;questa sembra la migliore spiegazione che si possa dare sul simpatico pachiderma,cui i catanesi sono legatissimi,tanto da minacciare una sommossa popolare,quando nel 1862 si ventilò la proposta di trasferire u liotru dalla Piazza Duomo alla periferica piazza Palestro.

 

 

La leggenda della Zisa
A Palermo,\nel quartiere Olivuzza, c’è un grandissimo palazzo che assomiglia a un castello ed è chiamato La Zisa.In questa Zisa c’è una grande entrata,è fatta d’oro ed elegantemente affrescata;nel centro sta una fontana di marmo dalla quale sgorga acqua limpida e fresca,e nella quale si riflettono i mosaici dorati delle pareti. Alla Zisa c’è un incantesimo per via di un grande tesoro nascosto di monete d’oro. A tenere l’incantesimo,a guardia del tesoro,ci stanno i Diavoli,i quali non vogliono che sia preso dai Cristiani. Questo palazzo fu infatti costruito al tempo dei pagani, e sì ci custodivano i tesori dell’imperatore. All’entrata della Zisa ci sono dipinti dei diavoli:chi va a guardarli nel giorno della festa dell’Annunziata (25 di marzo) vede che essi muovono la coda,storcono la bocca,e non si finisce mai di contarli. C’è chi dice siano tredici, chi quindici, chi di più. Sono diavoli, ed appunto per questo non si fanno mai contare.Anche le monete non si sa quante siano e nessuno è mai riuscito a prenderle.Ma un giorno forse ci riuscirà a sciogliere l’incantesimo e allora finirà tutta la miseria di Palermo.E’ per questo che, quando una cosa non si può sapere con esattezza, si dice: <>!
La leggenda dei due fratelli
Per spiegare l’origine del monte Mojo (che si trova in provincia di Messina),che ha l’aspetto di un moggio,o di un immenso cumulo di grano,una leggenda locale parla di due fratelli,di cui uno era cieco,e l’altro era un volgare profittatore;il quale,al momento della spartizione del grano trebbiato,riempiva il moggio completamente quando toccava a lui,e lo capovolgeva,riempiendolo dal fondo,quando toccava al fratello cieco;e per di più gli faceva passare sopra la mano,per fargli capire che il moggio era ben colmo;e il fratello cieco,passando la mano sul misero mucchio,diceva:<>.E il Signore ci penso lui,a fare le giuste vendette;perché,quando fu terminata la fraudolenta spartizione,una spaventosa folgore bruciò il fratello ladro,e trasformò l’enorme mucchio di frumento nel monte Mojo,che ancora si vede.
La leggenda della bella Angelina
Per spiegare il toponimo del comune di Francavilla di Sicilia (ME), una leggenda popolare racconta di una nobile fanciulla francavillese, Angelina, di cui si era innamorato il delfino di Francia; il quale, durante il Vespro, venne a rapirla nottetempo, per questo Angelina raccomandava alla sua fedele ancella Franca di vegliare (Franca, vigghia!), per essere pronte al momento dell’atteso segnale di partenza. La leggenda, in realtà, non è che un tentativo di spiegare etimologicamente il toponimo di Francavilla, che in siciliano suona appunto Francavigghia.
Il tesoro di Calafarina
La grotta di Calafarina si trova presso Pachino a Marzamemi, il cui toponimo deriva dall’arabo Marsa-al-haman, che significa il "porto delle colombe".Una leggenda locale afferma che dentro la grotta di Calafarina gli arabi, sconfitti dai normanni, prima di partire per l’Africa, ammucchiarono i loro ingenti tesori, ivi trasportati con 100 muli; e vi sgozzarono i loro schiavi mori, per lasciarli come guardiani di questa travatura. A Pachino si assicura che, nelle notti di tempesta, si sentano ancora le grida di questi sventurati guardiani. Perché non provate voi a liberarli, col vantaggio di diventare ricchi?
Padre Celestino era un monaco di casa ripostese, in pratica di quelle persone che pur essendo laiche, fanno vita religiosa.Dei giovinastri locali, sapendo che padre Celestino, pur essendo "monaco di casa" era benestante, decisero di mettere le mani sul gruzzolo, ma non con una rapina o un atto di violenza, bensì in maniera del tutto "religiosa". Pertanto, una notte, si travestirono da angeli, con le camicie da notte lunghe fino ai piedi, e con le ali di cartone appiccicate alle spalle, scoperchiarono le tegole della casetta dove abitava padre Celestino, e gli calarono un paniere attaccato a una corda, mentre cantavano: "O padre Celestino dice il buon Gesù/prima manda il gruzzoletto /e dopo sali tu!".Il povero "monaco di casa", nella sua ingenuità, abboccò all’amo; raccolse subito tutti i soldi che aveva, li mise nel paniere, si inginocchiò con le mani in croce, e….rimase aspettando. Passò del tempo; e quando quei bravi giovani pensarono che era di nuovo venuto il momento di ritentare l’impresa, rifecero tutto come la prima volta; si vestirono da angeli, calarono il paniere, cantarono la canzone; ma questa volta la canzone la sapeva anche padre Celestino; il quale, quando i presunti angeli finirono di cantare, rispose a sua volta, e con la stessa intonazione: ""O angeli beati/dite al buon Gesù/che mi ha fregato una volta/e non mi frega più!"".
La pantofola della regina Elisabetta
Maletto è il più alto comune della provincia di Catania; e su una delle sue rupi più alte, la "Rocca Calanna" andò a cadere una pantofola della regina Elisabetta, quando i diavoli nel 1603 andarono a gettare la regina dentro il cratere dell’Etna, per farla andare all’inferno. Molto tempo dopo, un pastorello vide sfavvilare al sole la pantofola; e la volle toccare, ma si bruciò le mani. Fu chiamato allora un frate esorcista, e la pantofola volò via, andandosi a posare su una torre del castello di Maniace, presso Bronte. Della pantofola si tornò a parlare; quasi due secoli dopo, quando nel 1799 il castello di Maniace fu donato dai Borbone all’ammiraglio inglese Orazio Nelson, durante una festa da ballo tenuta a Palermo; perché in quell’occasione una dama misteriosa-si dice, il fantasma della regina Elisabetta -donò in gran segreto a Nelson un prezioso cofanetto, dentro il quale era custodita la fatidica pantofola; e gli raccomandò di non farla mai vedere a nessuno e di averne cura gelosissima; ma Nelson se la fece carpire dalla sua amante, Emma Hamilton; e la stessa notte gli apparve in sogno la misteriosa dama, che gli disse: "Sciagurato! Hai perduto la tua fortuna!". Pochi giorni dopo Nelson morì nella battaglia di Trafalgar, il 21 ottobre 1805.

 

Lago di Nicito
In seguito all’eruzione dell’Etna del 496 a.C.,il corso del fiume Amenano fu colpito dalla lava nelle vicinanze dell’attuale piazza S.Maria Di Gesù e,di conseguenza si formò uno specchio d’acqua della profondità di circa 15 metri e dalla circonferenza di 6 Km.Era uno dei luoghi più belli e incantevoli di cui Catania poté vantarsi fino al 600.Era circondato da piccole colline e sulle sue rive sorgevano ville incantevoli, ritrovo della società brillante catanese. Fu chiamato lago di Anicito (detto poi Nicito) il cui nome deriva, probabilmente,dall’aggettivo greco aniketos (invitto),che viene a sua volta da Nike (vittoria). Il lago era così grande che l’8 settembre 1652, ricorrendo la festa della Madonna fu teatro di una imponente regata navale. Il lago fu completamente distrutto e scomparve in seguito alla terribile eruzione dell’Etna del 1669. Dopo aver distrutto numerosi centri etnei,il torrente di lava si diresse su Catania e il 15 aprile,invasa la campagna a nord-est della città e la valle di Anicito,si riversò nel lago stesso,colmandolo in sei ore. L’unico ricordo che del lago oggi rimane è il toponimo che fu assegnato negli anni venti alla strada che collega la via Plebiscito a piazza S.M.Di Gesù.
Il re e il contadino
Sul re Ferdinando di Borbone,che fu IV a Napoli e III in Sicilia,e Ferdinando I delle Due Sicilie dal 1816 al 1825,se ne raccontano tante,tra cui quella che riguarda due contadini siciliani,uno di Trabìa e l’altro di Termini Imprese. Al suo passaggio da Trabìa ,un contadino gli offrì un cesto di fichi primaticci,e si aspettava una ricompensa;ma il re,sdegnato,invece di ringraziarlo gli disse"Mi prendi per un affamato,dato che mi regali dei fichi?",e lo fece cacciare via dalle sue guardie. La notizia si sparse rapidamente,e quando il re passò da Termini un contadino,furbo e gentile,si avvicinò al re,e gli offrì un cestino di pere,accompagnando il dono con la frase"A gran signori, pìcciulu prisenti!,A gran signore,piccolo dono. L'espressione gentile piacque a re Ferdinando, che non solo ringraziò il contadino ma gli donò una sacca di monete d’oro.
La figlia di Mirabetto

 

Questa straordinaria donna siciliana, figlia dell’emiro Abbad, riuscì a tenere testa all’imperatore Federico II: il quale, assediando l’emiro Abbad nella sua rocca di Entella (oggi Poggioreale, in provincia di Trapani),lo aveva ingannato assieme ai suoi due figli maschi, promettendo loro salva la vita, se si fossero arresi. Solo la figlia di Mirabetto, fiutando l’inganno,non si volle arrendere;e fece bene, perché Federico II; dopo reali accoglienze,li fece uccidere. L’intrepida donna continuò la resistenza; e quando l’imperatore gli fece pervenire lusinghevoli proposte per la sua resa, ella finse di accettare, e invitò Federico a inviarle nottetempo, e segretamente, trecento dei suoi migliori uomini, che ella stessa avrebbe fatto penetrare dentro la fortezza di Entella. Federico II cadde nella trappola; e la "Figlia di Mirabetto" vendicò la morte dei suoi cari, con cento dei migliori guerrieri del suo nemico; e infine, lei stessa si diede alla morte col veleno.

 

  

 

Il Bey Ragusano
 
Si tratta di Murad-Aghà, nato a Ragusa di Sicilia intorno al 1480, che ancor giovane fu rapito dai corsari turchi, e venduto a Costantinopoli ad un custode dell’harem del Sultano Selim I. Quivi fu ribattezzato con il nome di Murad;e poiché era di bellissimo aspetto,la favorita del sultano, Zulima, lo volle al suo personale servizio; e il sultano glielo donò, ma prima lo fece evirare (la prudenza non è mai troppa). Morti il sultano Selim e la sua favorita Zulima nel 1521, Murad si diede alla vita militare; e si mostro un capo così valoroso, che fu soprannominato Aghà,cioè condottiero.Come simbolo delle sue vittorie militari, Murad Aghà fece innalzare, a Tagiura in Libia, una ricca e fastosa moschea, alla cui costruzione lavorarono numerosi schiavi siciliani. Quando la costruzione fu ultimata, Murad Aghà non dimenticò le sue origini siciliane: fece liberare tutti gli schiavi siciliani che vi avevano lavorato,e li rimandò il Sicilia; e quando morì volle essere seppellito proprio in quella moschea che avevano costruito i suoi compatrioti siciliani.

 

 

Il fiume di latte
 
Presso Catenanuova (En), in contrada Cuba, esiste ancora un’antica masseria,che nei tempi passati fungeva anche da albergo, e da stazione di posta, per chi si recasse a cavallo o in lettiga da Enna a Catania.Una lapide, posta sotto il balcone, ricorda che in quella stazione di posta pernottarono un re e una regina nel 1714, e un grande poeta tedesco nel 1787, Wolfgang Goethe, col suo compagno di viaggio,il pittore Crisoforo Kneip.Vale la pena di raccontare perché vi si sia fermata a pernottare una coppia regale nel 1714:ciò fu dovuto al marchingegno ideato dal cavaliere Ansaldi da Centùripe, che era il proprietario della masseria-albergo, e nutriva un grande desiderio di ossequiare personalmente il re Vittorio Amedeo II di Savoia, re di Sicilia dal 1713,che con la regina Anna d’Orlèanns si stava recando da Palermo a Messina, per tornare in Piemonte. Quando il corteo reale stava per giungere alla sua masseria,il cavaliere Ansaldi diede ad i suoi dipendenti uno stranissimo ordine;quello di versare nel torrentello vicino, tutto il latte che avevano munto quel giorno. Quando le avanguardie del re arrivarono al torrentello, si fermarono,perché non credevano ai loro occhi:davanti a loro c’era un fiume di latte! Esterrefatti ,corsero a comunicarne notizia al re, che,incredulo,volle assaggiare:e dovette riconoscere che i suoi cortigiani non avevano preso un abbaglio. Si fece avanti allora il cavaliere Ansaldi; il quale spiegò loro che egli era ricorso a questo espediente, per avere l’onore di ossequiare personalmente i reali di Sicilia; e, poiché si era già fatta sera, li pregò di pernottare,con tutto il loro seguito, nella sua masseria; e l’invito fu gradito al re, che al momento della partenza nominò l’Ansaldi, inventore del fiume di latte, Capitano onorario delle Guardie reali.

 

 

 

 
Una strana leggenda è legata alla distruzione di Gulfi (Rg) nel 1299: dice che i soldati francesi penetrarono nella chiesa dell’Annunziata, uccidendo tutti i fedeli che vi si erano rifugiati, e perfino il sacerdote che aveva in mano il calice per l’Elevazione, interrompendo la messa nel suo momento più solenne;e andarono a godere dei frutti del loro saccheggio,bivaccando per tutta la notte. Sennonché alla mezzanotte precisa, si sentì sonare messa nella chiesa dell’Annunziata; ed ecco apparire il prete col calice in mano, seguito da tutti i fedeli che con lui erano stati assassinati. Spinti da una forza misteriosa, tutti i soldati francesi, li seguirono in chiesa, dove la messa riprese, dal punto preciso dove era stata selvaggiamente interrotta ; e, alla fine, un turbine impetuoso scosse con violenza la chiesa, e fece aprire una voragine, dove precipitarono tutti i soldati francesi, e il pavimento si richiuse su di loro.
Jana di Motta
 
Nel 1409 la vedova Bianca di Navarra divenne Vicaria del regno, e l’anziano conte di Mòdica, Bernardo Cabrera, avrebbe voluto prenderla in sposa, per aumentare il suo potere, dato che era già Gran Giustiziere del Regno. La regina Bianca, però, non voleva sentirne; e allora il conte la inseguì per tutto il regno; la regina esausta si rivolse al suo fedele ammiraglio Sancio Ruiz de Livori, che catturò il focoso Giustiziere, e lo fece rinchiudere nel castello di Motta; dove al danno della prigionia si unì la beffa che ai suoi danni ordì una giovane donna di Motta Jana, che era una fedele e astuta damigella di corte della regina Bianca. D’accordo con l’ammiraglio Sancio, e ottenuto il permesso dalla regine, Jana si travestì da paggio, e si fece assumere al servizio del conte, entrando nelle sue grazie, e convincendolo a tentare un’evasione per riprendere i suoi tentativi di sposare la regina Bianca.Il conte abboccò all’amo; e una notte, fattolo travestire da contadino, la diabolica Jana lo fece calare da una finestra del castello, sostenendolo con una corda; ma ad un certo punto, Jana mollò la corda, e il povero conte cadde dentro una grossa rete, a bella posta preparata, dove rimase tutta la notte al freddo; e al mattino fu beffato dai contadini, che lo presero per un ladro, e lo derisero. Jana,riprese le sue vesti femminili, e rivelatasi chi era, lo fece inviare prigioniero al Castello Ursino di Catania, dove sbollirono definitivamente i suoi ardori per la regina Bianca.
La "travatura" della grotta d’Anzisa
 
Una storia davvero interessante è quella della "travatura" della grotta d’Anzisa, una grotta che si trova fra Bellarosa e Calascibetta. Si racconta che due cacciatori, aggirandosi per la vallata a caccia di conigli selvatici, lanciarono il furetto in una tana e in attesa all’entrata con una rete in mano pronti ad impigliarvi il coniglio appena questo fosse uscito dalla tana, restarono però delusi perché il coniglio non uscì, ed era sparito anche il furetto.Dopo aver atteso a lungo i cacciatori decisero di scavare nella tana per ritrovare almeno il furetto.Più scavavano più la tana rivelava altre aperture, che si allargavano in grotte più profonde. Ad un tratto scorsero al centro della grotta un mucchio enorme di monete d’oro; infilarono a manciate le monete in sacchi dei quali bardarono due mule che s’erano fatte prestare da Zu Toni d’Anzisa. La notte era intanto calata e i due compari decisero di mangiare le provviste che si erano portati; dopo aver mangiato e bevuto si assopirono fianco a fianco; ma ad un tratto si svegliarono in preda ad atroci dolori di ventre. Colti da atroci sospetti, si accusarono a vicenda di aver avvelenato il cibo per restare soli a godere del tesoro trovato.Ad un tratto la rissa tra i due finì: i due cacciatori erano morti all’improvviso. Le ore trascorrevano. Le mule decisero da sole di tornare alla loro stalla. Alle prime luci dell’alba giunsero dal padrone e, per svegliarlo e farsi aprire la stalla, smossero le teste per far tintinnare le sonagliere. Il padrone scese e vide tutto quel ben di Dio dentro le sacche. La fine del mondo!…La Provvidenza aveva pensato a lui, e non ci penso due volte a nascondere il tesoro ed ad usarlo con prudenza. La grotta fu chiamata d’Anzisa, dal nome del ricco fortunato. Non vi si trovarono pi ù tesori, ma acquistò la fama di essere stregata e gli amanti infelici vi accorrono talvolta per avere un segno del favore della loro amante.