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La Festa di Sant’Agata: una devozione che si rinnova

da: ilsicilia.it

di Giusi Patti Holmes

 

Sant’Agata, Patrona di Catania, festeggiata dal 3 al 5 febbraio, con Santa Rosalia, Patrona di Palermo, viaggia metaforicamente su un parallelismo dato dalla commistione di sacro e profano che le vede legate a due simboli “U Liotru” e “Il Genio“, protettori laici delle due città. La Santa etnea, invece, è legata a Santa Lucia, Patrona di Siracusa, perché tra i tanti pellegrini che giungevano a Catania, per devozione nei suoi confronti, ci fu anche lei.

Erano passati circa cinquant’anni, infatti, dal martirio quando la giovane Lucia, che accompagnava la madre Eutichia, gravemente ammalata, inginocchiandosi sulla tomba della Vergine e Martire catanese e pregando, con grande fervore, vide apparire  Sant’Agata che le disse: “Sorella mia Lucia, perché chiedi a me ciò che tu stessa puoi porgere a tua madre? Anche tu, proprio come me, subirai il martirio per la tua fede in Cristo ”. Lucia, ritornata a Siracusa col cuore pieno di gioia e di speranza, vide la  mamma guarire ma avversarsi, purtroppo, la profezia del suo martirio che avvenne un anno dopo, il 13 dicembre del 303, durante le persecuzioni di Diocleziano.

Dopo questo viaggio nella fede in tre importanti città siciliane, ritorniamo a Catania, che è la nostra protagonista, in cui  “a Vara”, un fercolo d’argento, con un busto contenente le reliquie di Agata la Buona, seguita da undici “cannalori“, alte colonne di legno che rappresentano le corporazioni delle arti e dei mestieri della città, viene portata in processione e seguita, con immutato amore, da centinaia di catanesi vestiti con il tradizionale “sacco”, una tunica bianca stretta da un cordone, cuffia nera, fazzoletto e guanti bianchi, aggrappati a due cordoni di oltre 100 metri.

Ma chi era Agata?

Agata nasce a Catania da una ricca e aristocratica famiglia intorno al 235; la data è stata calcolata tenendo presente che ai tempi del martirio, avvenuto nel 251, fosse appena adolescente, mentre il giorno, l’8 settembre, lo si fa coincidere con una delle date più importanti del culto mariano, quella della nascita della Madonna. Il suo nome fu scelto dal padre Rao e dalla madre Apolla per il suo significato di “Buona”, come se sapessero, già, la magnanimità e la purezza che avrebbero contraddistinto la figlia. La tradizione popolare identifica nei ruderi di una villa romana, al centro della città, in cui è stato posto un piccolo altare, la sua casa natale.

La piccola Agata, cresciuta con le sembianze di un angelo, lineamenti delicati, labbra rosee e capelli biondi, si promise a Dio fin da bambina; ma a 15 anni non ancora compiuti sentì che era giunto il momento di consacrarvisi solennemente. Il vescovo di Catania accolse la sua richiesta e, durante la cerimonia ufficiale chiamata “velatio“, le impose il “flammeum, il velo color rosso fiamma che portavano le vergini consacrate. Uno sfortunato giorno, però, il proconsole Quinziano, informato che in città viveva una nobile e bella fanciulla, deciso a conoscerla ordinò ai suoi uomini di condurla al Palazzo Pretorio. La scusa per fare ciò fu l’accusa, scusate il gioco di parole, di vilipendio della religione di Stato, in forza dell’editto di persecuzione dell’imperatore Decio, riservato a tutti i cristiani che non volevano abiurare.

In realtà l’ordine nasceva dal desiderio di trarla a sé e confiscarle i beni di famiglia. Per sottrarsi a quell’intimazione Agata rimase per qualche tempo lontana da Catania e molti sono i luoghi, infatti, che si contendono il merito di averle dato asilo; tra questi: Galermo, una contrada poco distante da Catania, dove i genitori possedevano case e terreni; Palermo, ipotesi nata con buona probabilità da un errore di trascrizione degli antichi atti del martirio e una grotta nell’isola di Malta, ancora meno attendibile. Purtroppo gli apparitores, gli sgherri al servizio del proconsole, trovandola  con facilità, la condussero in tribunale.

Quinziano non appena la vide, rapito dalla sua bellezza, tentò con ogni mezzo di sedurla ma, non riuscendo nel suo intento, pensò che, per farla cedere, fosse necessario un programma di rieducazione che l’avrebbe convinta a rinunciare ai voti e a cadere tra le sue braccia. A tale scopo l’ affidò, per un mese, ad Afrodisia, una cortigiana lasciva e dissoluta che viveva con nove figlie, diaboliche e licenziose tanto quanto lei.  Furono dei giorni durissimi per la pura Agata che vide, quotidianamente, insultato il suo candore verginale. Per farle dimenticare il suo Sposo  celeste, Afrodisia, inutilmente, la tentò con banchetti, festini, divertimenti di ogni genere, promesse di gioielli, ricchezze e schiavi, ma, quando le megere si resero conto del loro fallimento, decisero di raggiungere il  vile scopo attraverso delle vere e proprie minacce: “Quinziano ti farà uccidere ”, ottenendo in risposta: “Vane sono le vostre promesse, stolte le parole, impotenti te minacce. Sappiate che il mio cuore è fermo come una pietra in Cristo e non cederà mai“. Allo scadere dei trenta giorni, e di fronte alla sua incorruttibile fermezza, la lussuriosa donna, sconfitta e umiliata, riconsegnò la giovane a Quinziano dicendogli: “Ha la testa più dura della lava dell’Etna, non fa altro che piangere e pregare il suo invisibile Sposo. Sperare da lei un minimo segno d’affetto è soltanto tempo perso”.

Il proconsole rabbioso, deciso a piegarla con la forza, avviò un processo a cui la ragazza si presentò, procedendo a passi sicuri verso il suo persecutore, senza alcun timore, vestita da fierezza e umiltà, convinta che lo Spirito Santo l’avrebbe assistita, suggerendole le parole. Per evitare che Quinziano giocasse sull’equivoco del suo abbigliamento, quello che le schiave e le consacrate al Signore portavano, gli disse: “Non sono una schiava, ma una serva del Re del cielo. Sono nata libera da una famiglia nobile, ma la mia maggiore nobiltà deriva dall’essere ancella di Gesù Cristo”. Rivolgendosi al proconsole aggiunse ancora: “Tu che ti credi nobile, ma sei in realtà schiavo delle tue passioni“. A questa provocazione colui che era padrone di quella terra, ma non lo sarebbe mai stato di Agata,  garante della religione pagana in Sicilia, le rispose: “Dunque, noi che disprezziamo il nome e la servitù di Cristo siamo ignobili?“

La Santa, accettando la sfida, rilanciò coraggiosamente: “Ignobiltà grande è la vostra: voi siete schiavi delle voluttà, adorate pietre e legni, idoli costruiti da miseri artigiani, strumenti del demonio“. Quinziano, come un toro ferito, spazientito dalla fermezza e dalle risposte della fanciulla, ispirate dalla fede, aggiunse: “O sacrifichi agli dèi o subirai il martirio“ al che si vide irriso con: “Da tempo lo aspetto, lo bramo, è la mia più grande gioia. Non adorerò mai le tue divinità. Come potrei adorare una Venere impudica, un Giove adultero o un Mercurio ladro? Ma se tu credi che queste siano vere divinità, ti auguro che tua moglie abbia gli stessi costumi di Venere“. Uno schiaffo colpì Agata che, per niente avvilita, lo affrontò: “Ti ritieni offeso perché ti auguro di assomigliare ai tuoi dèiVedi allora che nemmeno tu li stimi? Perché pretendi che siano onorati e punisci chi non vuole adorarli?” Il proconsole, adirato, ordinò che fosse rinchiusa in carcere.

Il carcere e le torture

Per un giorno e una notte la futura “Santuzza” catanese rimase chiusa in una cella buia e umida all’interno del palazzo pretorio, diventata in seguito luogo di culto, illuminata da una finestrella che lasciava filtrare un debole raggio di luce, attraverso una spessa grata di ferro. Privata di cibo e acqua, con una pesante catena che le stringeva le caviglie, la mattina successiva, vedendosi condotta per la seconda volta davanti al proconsole, esordì dicendo: “La mia salvezza è Cristo“. Il vile Quinziano, resosi conto che qualunque tentativo di persuaderla era destinato a fallire, ordinò, allora, di sottoporla a orrende torture: la fece percuotere con le verghe, lacerare col pettine di ferro, squarciare i fianchi con lamine arroventate, fino a ordinare, ormai folle di rabbia, che le venissero amputate le mammelle. La giovane vergine, allora, lo freddò con queste parole: “Non ti vergogni di stroncare in una donna le sorgenti della vita dalle quali tu stesso traesti alimento, succhiando al seno di tua madre? Tu strazi il mio corpo, ma la mia anima rimane intatta”.

La devozione a Sant’Agata

I cristiani, che avevano assistito al martirio e alla morte di Agata, raccolsero con devozione il suo corpo, cospargendolo di aromi e oli profumati, come era in uso a quell’epoca; poi lo deposero in un sarcofago di pietra che, da allora, è , a Catania, oggetto di culto. Le fonti narrano che, quando il sepolcro stava per essere chiuso, un fanciullo, vestito di seta bianca e seguito da altri cento giovanetti, si avvicinò in prossimità del capo della Vergine deponendo una tavoletta di marmo che, oggi, è una preziosa reliquia custodita nella chiesa di Sant’Agata a Cremona, con l’iscrizione latina,  “ M. S. S. H. D. E. P. L. ”, che in italiano significa “Mente santa e spontanea, onore a Dio e liberazione della patria”, detta anche “elogio dell’angelo ”, che è la sintesi delle caratteristiche della santa catanese.

Nel corso dei secoli la tradizione popolare ha arricchito la fuga e l’arresto di Agata di avventure leggendarie. Una di queste, ad esempio, narra che, inseguita dagli uomini di Quinziano, e giunta ormai nei pressi del palazzo pretorio, fermatasi un attimo a riposare, vide apparire dal nulla un ulivo sotto cui ripararsi e cibarsi dei suoi frutti. Ancora oggi, per rinnovare il ricordo di quell’evento prodigioso, è consuetudine coltivare un albero di ulivo in un’aiuola vicino ai luoghi del martirio. Il giorno della festa di Sant’Agata, inoltre, vengono consumati dolcetti di pasta reale di colore verde  e ricoperti di zucchero che, ricordando nella forma le olive, sono chiamati appunto “olivette di Sant’Agata”.

Alcuni Miracoli di Sant’Agata

Era trascorso un anno esatto dal martirio quando l’Etna minacciò di distruggere Catania con un’inarrestabile e spaventosa colata lavica. Soltanto nel momento di maggiore sconforto qualcuno si ricordò dell’iscrizione sulla tavoletta di marmo con cui l’angelo aveva promesso aiuto alla città di Catania, patria di Agata. I catanesi, con grande devozione, preso il velo rosso poggiato sul sarcofago della Santa, tra preghiere e invocazioni, lo portarono in processione dinanzi al fronte della colata. Il fiume di magma infuocato si arrestò per miracolo, lasciando incolumi gli abitanti e intatte le case dei villaggi ai fianchi del vulcano.

In seguito a questo evento, Agata fu proclamata Santa e, dopo questo primo prodigio, la sua fama si diffuse rapidamente in tutta l’isola e da lì  si propagò oltre lo stretto di Messina. La sua tomba, venerata in una cappelletta nei pressi del luogo del martirio, divenne meta di numerosi pellegrinaggi, il suo nome, in seguito, inserito nel canone della messa e, fino alla recente riforma del concilio Vaticano II, pronunciato ogni giorno dai sacerdoti in testa all’elenco delle Sante Martiri ricordate dalla Chiesa.

La Festa di Sant’Agata

Abbiamo voluto raccontarvi la storia della Patrona di Catania attraverso un dialogo per farvi vivere il carcere e il suo martirio come se fosse un film di cui essere partecipi spettatori; ma è arrivato il momento di calarci nei festeggiamenti in suo onore. Il 3, 4 e  5 febbraio, la Città Etnea offre alla sua Patrona una festa tanto straordinaria e solenne, che attira sino a un milione di persone, da essere paragonata soltanto alla Settimana Santa di Siviglia o al Corpus Domini di Cuzco, in Perù.

Giorno 3 febbraio è riservato all’offerta delle candele: una suggestiva usanza popolare vuole, infatti, che i ceri donati siano alti o pesanti quanto la persona che chiede la protezione. Alla processione per la raccolta della cera, un breve giro dalla fornace alla cattedrale, partecipano le maggiori Autorità Religiose, Civili e Militari. Due carrozze settecentesche, che un tempo appartenevano al Senato che governava la città, e undici “Candelore”, grossi ceri rappresentativi delle corporazioni o dei mestieri, vengono portati in corteo. Questa prima giornata di festa si conclude in serata con un grandioso spettacolo di giochi pirotecnici in piazza Duomo che vuole ricordare che Agata, martirizzata sulla brace, vigila sempre sul fuoco dell’Etna e di tutti gli incendi.

Il 4 febbraio è il giorno più emozionante e commovente perché segna il primo incontro della città con la sua Santa Protettrice. Già dalle prime ore dell’alba le strade si popolano di devoti che indossano il tradizionale “sacco”, a cui abbiamo già accennato: un berretto di velluto nero, guanti bianchi,  un fazzoletto anch’esso bianco stirato a fitte pieghe, che rappresenta l’abbigliamento notturno che i catanesi indossavano in quel lontano 1126 quando corsero incontro alle reliquie che Gisliberto e Goselmo riportarono da Costantinopoli. L’originario camice da notte, nei secoli, si è arricchito, però, del significato di veste penitenziale. Secondo alcuni l’abito di tela bianca richiama una veste liturgica, il berretto nero la cenere di cui si cospargevano il capo i penitenti e il cordoncino in vita  il cilicio. Tre differenti chiavi sono necessarie per aprire il cancello di ferro che protegge le reliquie in cattedrale: una è custodita dal tesoriere, un’altra dal cerimoniere e un’altra, ancora, dal priore del capitolo della cattedrale. Quando la terza chiave toglie l’ultima mandata al cancello della cameretta in cui è custodito il busto, e il sacello viene aperto, il viso sorridente e sereno di Sant’Agata si affaccia nel crescente tripudio dei fedeli impazienti di rivederla, luccicante di oro e di gemme preziose. Prima di lasciare la cattedrale, per la tradizionale processione lungo le vie della città, Catania dà il benvenuto alla sua Patrona con una messa solenne celebrata dall’Arcivescovo.

La processione del 4 dura l’intera giornata e attraversa i luoghi del martirio, ripercorrendo la storia della “Santuzza” che si intreccia con quella della città. Una sosta viene fatta alla  marina ” da cui i catanesi, addolorati e inermi, videro partire le sue  reliquie per Costantinopoli e un’altra alla colonna della peste, che ricorda il miracolo da lei compiuto,nel 1743, quando la città fu risparmiata dall’epidemia. I cittadini che, a piccoli passi tra la folla, a ritmo cadenzato, trascinano il fercolo che vuoto pesa 17 quintali ma, appesantito da Scrigno, Busto e carico di cera, fino a 30 quintali,  gridano in mezzo alla folla: cittadini, viva Sant’Agata e “Sant’Agata è viva”. Il “Giro” si conclude a notte fonda quando il fercolo ritorna in cattedrale.

Il 5 febbraio, invece, i garofani rossi del giorno precedente, simboleggianti il martirio, vengono sostituiti da quelli bianchi, simbolo di purezza. Nella tarda mattinata, in Cattedrale, viene celebrato il pontificale e, al tramonto, ha inizio la seconda parte della processione che si snoda per le vie del centro, toccando anche  “il Borgo, il quartiere che accolse i profughi da Misterbianco dopo l’eruzione del 1669. Il momento più atteso è il passaggio per la via di San Giuliano che, per la pendenza, è il punto più pericoloso di tutta la processione ma, rappresentando una prova di coraggio per i devoti, è interpretato anche, a seconda di come viene superato l’ostacolo, come un segno celeste di buono o cattivo auspicio per l’intero anno.

A notte fonda i fuochi d’artificio segnano la chiusura dei festeggiamenti. Quando Catania riconsegna alla cameretta in cattedrale il reliquiario e lo scrigno, la stanchezza si legge sui volti di tutti, ma la gioia e la soddisfazione per aver portato in trionfo Sant’Agata è maggiore di qualsiasi fatica. Bisognerà aspettare diversi mesi, la festa del 17 agosto, o un altro anno, per poter vedere sorridere ancora una volta il suo viso.

Le candelore

La festa di Sant’Agata è inscindibile dalla tradizionale sfilata delle “candelore”, enormi ceri rivestiti con decorazioni artigianali, puttini in legno dorato, santi e scene del martirio, fiori e bandiere, che precedono il fercolo in processione perché un tempo, quando mancava l’illuminazione elettrica, avevano la funzione di illuminare la strada ai partecipanti. Sono condotte a spalla da un numero di portatori che, a seconda del peso del cero, può variare da 4 a 12 uomini. Ognuna delle 11 candelore possiede una precisa identità e sulle spalle dei portatori vive e rappresenta la propria unicità data dalla forma che caratterizza il cero, l’andatura e il tipo di ondeggiamento che gli viene dato, la scelta di una marcia come sottofondo musicale.

Questi maestosi ceri sfilano sempre nello stesso ordine: ad aprire  è il piccolo cero di monsignor Ventimiglia; il primo grande rappresenta gli abitanti del quartiere di San Giuseppe La Rena, realizzato all’inizio dell’Ottocento; il secondo, di seguito, è quello dei giardinieri e dei fiorai, in stile gotico-veneziano; il terzo, in ordine di uscita, è quello dei pescivendoli, in stile tardo-barocco con fregi santi e piccoli pesci e il suo passo inconfondibile che gli ha fatto guadagnare il soprannome di “bersagliera”; a seguire quello dei fruttivendoli, dal passo elegante è chiamato la “signorina”; quello dei macellai, invece, è una torre a quattro ordini; la candelora dei pastai è un semplice candeliere settecentesco senza scenografie; quella dei pizzicagnoli e dei bettolieri è in stile liberty; quella dei panettieri è la più pesante di tutte, ornata con grandi angeli, e per la sua cadenza chiamata la “mamma”. Chiude la processione la candelora del circolo cittadino di Sant’Agata che fu introdotta dal cardinale Dusmet. In passato  erano più numerose, esistevano, infatti, anche quelle dei calzolai, dei confettieri, dei muratori, fino a raggiungere, in alcuni periodi, il numero di 28.

Sant’Agata di chi è protettrice?

I fonditori di campane

Un tempo era considerata protettrice dei fonditori di campane e degli ottonai. Questa tradizione nacque, secondo alcuni, perché, quando scoppiavano calamità, era consuetudine suonare le campane e, quindi, la Santa, solitamente invocata contro le calamità, fu nominata protettrice di coloro che realizzavano gli strumenti utilizzati per dare l’allarme. Secondo altri, invece, la protezione era invocata dagli stessi fonditori affinché la vergine catanese proteggesse la fusione e la perfetta riuscita delle campane.

I tessitori

La venerazione di Sant’Agata come patrona dei tessitori nasce da una leggenda che l’ha trasformata in una sorta di Penelope cristiana. Si narra, infatti, che per allontanare le nozze con un uomo molesto e odioso, probabilmente lo stesso Quinziano, lo avrebbe convinto ad aspettare che fosse terminata una tela che stava tessendo. Proprio come faceva la sposa di Ulisse, la fanciulla di giorno tesseva e di notte scuciva, cosicché la tela non fu mai ultimata.

Contro gli incendi

La devozione a Sant’Agata come protettrice contro i pericoli del fuoco si diffuse durante il Medioevo. A quell’epoca si disse che se la Santa proteggeva contro il fuoco di un vulcano, a maggior ragione poteva farlo contro tutti gli incendi. A Lione, a tal proposito, i contadini il 5 febbraio fanno benedire un pane che scagliano contro le fiamme in caso di incendio.

Contro le malattie femminili

Sempre più donne si rivolgono a Lei, che fu martirizzata con l’amputazione delle mammelle, per scongiurare i tumori al seno e, più in generale, tutte le malattie femminili. Numerosi sono i casi di guarigioni miracolose operate per sua intercessione su casi diagnosticati inguaribili. Sant’Agata, inoltre, protegge le puerpere che hanno male al seno e le gestanti che le si rivolgono per ottenere un parto felice e la grazia di allattare personalmente i propri figli.

L’Iconografia

Sant’Agata è presente nella tradizione artistica catanese e nella considerazione popolare nelle vesti di Santa bambina. Viene chiamata “Santuzza” con affetto, considerata mite e delicata, ma al tempo stesso potente, fiera e temibile. Il busto, il veneratissimo reliquiario d’argento e smalto, offre una sua immagine dolce, con un sorriso placido; lo stemma della città, scolpito nella pietra lavica dell’Etna, invece, la raffigura con lo sguardo fiero, la spada sguainata e pronta a difendere quanti a Lei si affidano, un’immagine che incute timore. Le immagini di Sant’Agata la rappresentano con i simboli e gli elementi del martirio: giglio della purezza, palma del martirio, tenaglie, seno reciso. La sua più antica raffigurazione iconografica è un mosaico nella chiesa di Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna che risale alla metà del VI secolo e la rappresenta in piedi, vestita dell’abito ufficiale delle diaconesse, una lunga tunica verde.

 

Le Reliquie

Il busto, e dal 1376, la testa e il torace sono custoditi in un raffinato forziere, cavo all’interno, un prezioso reliquiario d’argento lavorato finemente a sbalzo e decorato con ceselli e smalto. Ha l’aspetto di una statua a mezzo busto, con l’incarnato del volto in fine smalto e il biondo dei capelli in oro. L’allora vescovo di Catania, un benedettino francese oriundo di Limoges, l’aveva commissionato in Francia, nel 1373, all’orafo senese Giovanni Di Bartolo. La devozione dei fedeli arricchisce continuamente di gioielli, ori e pietre preziose la finissima rete che ricopre il busto. Tra gli oltre 250 pezzi che, a più strati, ricoprono il reliquiario, alcuni sono doni di particolare valore.

La corona, un gioiello di 1370 grammi tempestato di pietre preziose, fu, secondo una tradizione non confermata, un dono di Riccardo I d’Inghilterra detto “Cuor di Leone”, che giunse in Sicilia nel 1190, durante una crociata; la regina Margherita di Savoia, nel 1881, offrì un prezioso anello, mentre il vicerè Ferdinando Acugna una massiccia collana quattrocentesca; Vincenzo Bellini donò alla Patrona della sua città un riconoscimento che gli era stato donato, la croce di cavaliere della Legion d’Onore. Anche papi, vescovi e cardinali, negli anni hanno arricchito il tesoro di sant’Agata di collane e croci pettorali, oggetti preziosi che si aggiungono ai tantissimi ex voto che il popolo catanese continua a offrire alla “Santuzza”.

Nella stessa data in cui fu realizzato il busto, gli orafi di Limoges eseguirono anche i reliquiari per le membra: uno per ciascun femore, uno per ciascun braccio, uno per ciascuna gamba. I reliquiari per la mammella e per il velo furono eseguiti più tardi, nel 1628. Attraverso il vetro delle teche, che protegge ma non nasconde, durante la festa di Sant’Agata si può vedere il miracoloso velo, una striscia di seta rosso cupo, lunga 4 metri e alta 50 centimetri, che le ricognizioni garantiscono ancora morbida, come se fosse stata tessuta di recente.  Attraverso il reliquiario della mano destra e del piede destro si possono scorgere i tessuti del suo corpo ancora miracolosamente intatti.

Le reliquie del corpo, che per secoli furono conservate in una cassa di legno, oggi custodita nella chiesa di Sant’Agata la Vetere, daI 1576 si trovano in uno scrigno rettangolare d’argento alto 85 centimetri, lungo un metro e 48, largo 56. Il coperchio è suddiviso in 14 riquadri che raffigurano altrettante Sante che onorano Agata, la prima vergine martire della chiesa. All’interno si conservano anche due documenti storici: la bolla pontificia di Urbano Il, che conferma solennemente che Sant’Agata nacque a Catania e non a Palermo, come voleva un’altra tradizione, e una pergamena del 1666 che la proclama Protettrice Perpetua di Messina.

A Palermo, nella Cappella regia, sono custodite le reliquie dell’ulna e del radio  di un braccio; a Messina, nel monastero del SS. Salvatore, un osso del braccio; ad Ali, in provincia di Messina, parte di un osso del braccio; a Roma, in diverse chiese, si conservano frammenti del velo; a Sant’Agata dei Goti, in provincia di Benevento, si conserva un dito. Altre piccole reliquie si trovano a Sant’Agata di Bianco, a Capua, a Capri, a Siponto, a Foggia, a Firenze, a Pistoia, a Radicofani, a Udine, a Venalzio, a Ferrara e all’estero.  in Spagna a Palencia, a Oviedo e a Barcellona; in Francia a Cambrai, Hanan, Breau Preau e Douai; in Belgio a Bruxelles, a Thienen, a Laar, ad Anversa e, ancora, in Lussemburgo, a Praga, nella Repubblica Ceca e a Colonia, in Germania.

La “A” di Agata

La “A”, lettera iniziale di questo popolarissimo nome, sormonta il monumento principale della città e suo simbolo, l’elefante Eliodoro; un’altra si staglia nella pietra sulla facciata del Palazzo municipale; una campeggia al centro dello Stemma Civico, un’altra al centro del gonfalone dell’Università.