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I dipinti di Calcedonio Reina

di Mario Rapisardi

 (Mario Rapisardi - poeta catanese ( Catania 1844-1912), professore di letteratura italiana nel GMNASIUM SICULORUM, latinista provetto, traduttore di Lucrezio e Catullo, autore di numerose opere in versi, assai apprezzate in Catania)

 

 da: Pensieri e giudizi

1915

II - XVII

 

I dipinti di Calcedonio Reina non sono fatti per chiamar gente, non hanno sfoggio di colori presuntuosi, non audacia di atteggiamenti e di scorci, non lenocinio di nudità provocanti. La moltitudine ignara non si ferma a guardarli; i signori che han voglia di comprare passano indifferenti; i critici saputelli sogghignano. Ma le persone, a cui non è fatica il pensare, le anime gentili, a cui il rintocco di una campana al tramonto, la striscia luminosa di una stella filante, la scía che biancheggia dietro una barca, il batter di un’ala raminga dà un argomento di fantastiche visioni, si fermano volentieri innanzi alle strane figurazioni di questo singolarissimo artista, che s’ingegna di render su la tela gli evanescenti fantasmi di un mondo creato da lui, e nel quale egli vive in un continuo dormiveglia, in una beata incoscienza dello spazio e del tempo.

Che importa a lui della vita di tutti i giorni, della terra meschina, della natura mortale? Egli sa, o crede di sapere, che di là da questo miserevole avvicendarsi di forme caduche, di passioni feroci, di sogni bizzarri, di dolori e di tenebre indefinite, c’è la vita vera, la luce eterna, la sola indistruttibile realtà. Mistico, non di proposito, ma di temperamento, credente per sentimento ereditario, per educazione di famiglia e di scuola,  per ostinato  dispetto alla incredula età, ei si aggira, negligente degli altri e di sé, in una sfera interplanetare, dove il passato, il presente e l’avvenire si contorcono in danza spettrale, dove le idee più concrete, le forme più comuni ondeggiano in un’atmosfera grigia, s’inseguono, si sfigurano, si disperdono con l’incostanza, la mobilità e la vaporosità di nuvole cacciate dal vento e scarsamente colorate dai pallidi riflessi di un sole invernale. Il vero non è per lui che la prima pietra di un edificio ideale, l’imbarco, dirò così, da cui egli muove alla conquista del polo ignoto; il suo mondo principia appunto dove finisce la realtà; egli non ha la visione e la concezione del vero, non vive che nel sogno, non vede che l’invisibile. La sua pittura non è riproduzione della natura mortale: meglio che la vita, riproduce la morte; simboleggia le forze misteriose dell’essere, la nostalgica passione dell’Ideale, l’ossessione religiosa dell’Infinito.

La musica renderebbe, forse meglio che la pittura, la fluttuazione del suo spirito irrequieto e perplesso; egli, che di tutte le arti ha un sentimento squisito, non ha la pazienza necessaria a vincere la tecnica aridità della composizione musicale, si contenta di segnare sulla tela in poche linee e in semplici colori, le mistiche esaltazioni del suo cuore, le allucinazioni fantastiche del suo cervello. Quando però la tavolozza gli sembra insufficiente, la getta in un canto, e ricorre con geniale incostanza alla poesia, a cui sin da    giovanetto ha confidato i suoi più secreti pensieri. I suoi versi, che non sempre corrispondono alle regole del buon gusto, sono risonanze di un mondo lontano, echi di abissi e di cieli, sussurri di esseri a noi sconosciuti, drammatici conflitti fra la carne e lo spirito; non lusingano sempre le nostre orecchie, ma riescono sempre a svegliare nel nostro spirito le immagini inconsistenti del sogno, la voce addormentata della coscienza, le ansie paurose del gran mistero.

Il pubblico affaccendato non si accorge di lui; egli non si accorge del pubblico, affaccendato com’è a rincorrere l’ombra sua, a raggiungere l’orizzonte ideale. Se tenesse in conto alcuno la fama, potrebbe dire con amarezza: — Son passato, e non mi hanno veduto; ho parlato e non mi hanno udito — . Quanti sono gli artisti che non ripetono sul tramonto questa dolorosa parola?

 

 

Maestro Calcidonio
Mario Rapisardi
1864

Ei fu nella città di Catana, antichissima e famosissima di Cicilia, uno dipintore chiamato Maestro Calcidonio; il quale e per lo ingegno singolare e per la maniera bizzarra del dipingere e più ancora per la continenza e abito del vivere, fu veramente straordinario e quasi mirabile huomo del tempo suo.

Da fanciullo dette opera alle lettere latine, perciocchè suo padre che era uno cerusico sapientissimo volea piuttosto farne uno dottore che uno artefice; ma conciosiacosacchè il maestro che gli leggeva lettere era uno calonaco, di molta reputazione appresso dei più, ma di poca scienza e di neuno giudicio, e più gonfio di vento che di dottrina, si che pareva all’aspetto, e tale era nell’animo, uno otre di quelli che Eolo diede ad Ulisse? siccome pone in suo dittato il sommo poeta Omero, così intervenne che il fanciullo prese in odio sì fatto quella prima disciplina, che tanto imparò di umanità quanto quello suo precettore cognosceva ebraico, che mai non lo seppe.

Venuto intanto all’età della discrezione, e avuta qualche notizia delle umane lettere, egli si diede assai felicemente al trovare; e molte rime trovò che furono stimate indizio di buon ingegno. Diede anche mano allo studio della musica e con tal buona disposizione ed ardore, che pareva a tutti dovesse presto riuscire uno musico eccellente.

Ma quello di che maggiormente si piacque fu l’arte del disegnare e dipingere : per l’amor della quale fatta stanza nella meravigliosa Partenope, presto dette argomento di bene sperare; e, istudiando i modelli dei famosi artefici e ritraendo dal naturale e ispeculando certe sue invenzioni, egli venne in poco a formarsi una sua tal maniera, che non era uno che veduto una volta una sua tavola non dicesse poi vedendo qualche sua nuova storia: ella è opera di Maestro Calcidonio; tanto era propia e singolare la sua maniera.

Tra le opere ch’egli condusse, degnissima di memoria per la novità e bizzarria dell’invenzione è quella che rappresenta dua giovani amanti che si abbracciano e baciano in uno cimiterio in-tra due lunghe file di ataùti e di scheletri che pare li guardino non senza invidia di tanta felicità. E un’ altra ne fece che è uno scheletro, o sia la morte incappata in uno grande lenzuolo, seduta in uno trono in mezzo d’una grande camera vuota, e tutta intenta a ricamare una coltre nella quale sono scettri, tiare, corone ed altri simiglianti emblemi di potere mondano. E ora pingeva uno giovinetto cieco sicut mors ficcante uno dito nell’occhiaia d’uno teschio; ora una pulzella che porta in voto uno cuore; ora una giovane donna in paramenti nuziali con una testa di morto in uno vassoio con certi occhi spiritati che è uno terrore; e altre simiglianti allegrezze, dalle quali, non che allettar compratori, era più facile trovare chi inorridito se ne fuggisse.

E per questo non fu ignuno che mai gli committesse o gli comperasse una storia; che tutti sapevano quanto ei fusse terribile dipintore; e avrebbono piuttosto volsuto ricevere in casa la versiera che uno suo spaventoso dipinto. Della qual cosa egli molto a ragione si rammaricava accusando li huomini di poca discrezione e di molta lussuria: avvegnachè secondo il suo giudicio questa loro avversione procedesse unicamente da ciò, che altro nell’arte eglino non gustano che le delizie della carne, e tutto ciò che spetta alla salvazion dell’anima, come viziosi e senza continenza, trascurano.

E non meno che nel dipingere ei fu nuovo e fantasioso nel rimeggiare. I versi che egli andava scrivendo su per li sgualciti e unti fogliolini, raccattati per le vie, non erano mai secondo retorica, nè di purgato stile, nè di puro dettato: aveano si una certa misura, ma non sempre tale che uno accigliato Aristarco vi potesse trovare i debiti piedi. Ma sì vaghe erano le invenzioni sua, e sì nove e inaspettate le immagini, che a leggere le sue rime tu sentivi nel quore, come un misterioso colloquio di spiriti, e romore di ale e scroscio di acque e stormire di fronde, e ti lampeggiava sugli occhi come un barbaglio di lampi, sì che credevi essere trasportato per incanto in un mondo nuovo, e più tosto tra fantasime di sogni, che tra persone vere. E il succedersi delle immaginazioni, e delle incomposte ma originali armonie ti dava come un giramento di cose, da farti venire la vertigine e il capogirlo.

E ora faremo uno brieve ricordo dei costumi e portamenti suoi, che furono quasi tutti istravaganti.

E primamente dirò che tanta fu la sua continenza così nel mangiare e nel bere come nelle altre cose corporali, che ben l’aresti detto uno santo anacoreta di Dio. E del molto che in questo proposito potrei riferire, basti solamente questo: che in città popolosissima e voluttuosissima ei viveasi quasi in uno deserto, senza altra compagnia che dei suoi pensieri; e poco pane bigio e pochissimo pesce salato, o un po’ di pillacchera, che gli tenea luogo di fagiani e di starne nelle più straordinarie solennità eragli cibo sufficiente.

E mai occorse vederlo in compagnia di femmine, altro che per intento dell’arte; ma delle femmine ei si valea poco anche in questo, piacendosi più dipingere idee che uomini, e più anime che carne; onde fu detto con qualche fondamento di vero, essere egli troppo stratto dalle condizioni del vivere e in specialità dalla ragione dei tempi sua, che tutto riduceano a materia, anche l’anima immortale, giusta li epicurei: che è una grande istoltezza e bestemmia. Or tornando al proposito della continenza di Maestro Calcidonio, aggiungo, che tanta era la sua virtù in domare la concupiscenza della carne, che di qualsiasi femina ei si tenesse gnuda dinanzi per iscopo dell’arte, ignuna egli toccò mai con le mani in qualtivogli parte del corpo; e questo parea meravigliosa continenza agli amici...

Aveva egli fra i pochi uno amico, uomo assai loico e istrutto nella filosofia naturale e morale, ma più dedito alle umane lettere che alle divine; il quale era uno grande incredulo, il quale diceva che Dio non fosse e tutti lo chiamavano il Marabise, che non sapeano che sì chiamare. Ora costui, quale uomo incredulo e mondano, non volle mai aggiustar fede alla istraordinaria castità di maestro Calcidonio, del quale e’ soleva dire essere uno mangiapulzelle; ma questo era una diabolica malignità del Marabise.

Circa gli altri costumi di questo singolar dipintore, dico che egli conducea meschina e misera vita, non già che egli fusse povero, ma più tosto per istracuraggine delle cose temporali non disgiunta da una certa passione di avarizia, onde ei solea dire essere più tosto da prezzare il danaro che la sanità; che questa, non ostante i medici, tanto o quanto si suole recuperare, ma il danaro una volta andato non più si racquista.

Abitava in fra poveri, in poverissima stanza a uno soffitto altissimo, più simigliante a uno trespolo da pappagallo che a una casa d’uomo; per giungere al quale bisognava arrampicarsi per più centinaia di gradi tutti sbocconcellati e sdrucciolevoli per lo gran sudiciume, e passare indi per anditi e andirivieni umidi e puzzolenti, che ti parea esser drento a uno budello di maiale. E la casa era come uno covile con arazzi di muffa, tappeti di polvere, portiere e cortine di ragnateli. Una seggiola con tre gambe, uno strapunto di strame, uno tavolino zoppo con due piè e qualche rozza ed imbrodolata stoviglia erano i nobili arredi di quella magione; e tele, colori, pennelli, stracci e ciabatte gittati e sparsi per ogni parte, che parea uno naufragio.

E in tanta lautezza egli se ne stava solo, non volendo neppure con una fante divider tanto bene, e questo, diceva il Marabise, era il più generoso atto di carità cristiana, che mai gli vedesse praticare.

Stranissimo era oltre ciò il vestire, si che spesso il vedevi in giro con uno stivale di vacchetta e uno zoccolo, uno berrettone di pelle di gatto sul capo e una palandrana fino alle calcagna, che l’aresti preso per uno masnadiero inseguito dal bargello. E nel mutar dei panni ei non guardava alle stagioni, che tutte le stagioni ed i climi ei soleva portarli addosso ad un tempo solo; così che mentre le brache facevano agosto in Garamanzia, il corpetto e la giubba segnavano dicembre per li Britanni.

Anfanava per le vie più frequenti in siffatto arnese; con le mani intrecciate sul petto come in atto di contrizione e di prece, ma le guardature sospettose e quasi ferine, ch’ei gittava qua e là su la gente, e un certo suo proprio ghignare come di satiro lascivetto persuadean tosto esser l’animo suo più lontano dalla pietà che non fosse per avventura dall’odio e dal disprezzo dell’uman genere.

Al conversare era piacevole e motteggevole molto; ma non patìa, che altri tale il tenesse, temendo non la piacevolezza sua fusse malignamente presa per giulleria: tanto che dettogli uno dì una bambinetta, appresso alla cui madre egli era dimestico molto: Restate ancora, maestro Calcidonio, che senza di voi la brigata non ride-; egli s’ebbe tanto a male di ciò, che afferrata con impeto la fanciulla stava per isfracellarla; onde accorsa la madre alle grida e ripresolo gravemente del fatto, non ei si ristette; anzi con maggior veemenza di collera: Voi siete peggior della putta, le gridò, malvagia briccona che Dio vi mandi il cacasangue a tutte e dua. E come furioso partissi di quella casa, nè più volle rimettervi il piede.

Ma oltre a queste furie e bizzarrie, Maestro Calcidonio era il più dolce e diritto uomo che al mondo fosse, e tale almeno, se non da buttarsi nelle fiamme per amor di Dio e del prossimo, da non torcere un capello a chicchessia e da attendere alle faccende sua, che furono mai sempre di fare onore al suo nome e alla sua gente con opere di colore e di inchiostro.

E perciocchè nel presente secolo uno huomo che abbia pochi e leggeri vizj uniti a molte e sincere virtù è cosa piuttosto singulare che rara, per questo ho volsuto scrivere questo brieve comentario a onore del suo ingegno e ricordo perpetuo della sua virtù.

 

 

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